A place of safety. In viaggio con Sea-Watch 5

7 Marzo 2025

“Sento che siamo su un confine”, afferma Flavio poco dopo l’inizio del secondo capitolo di A place of safety, l’attesa produzione di Kepler-452 al debutto nazionale sul palco dell’Arena del Sole di Bologna. È una frontiera tra terra e mare, tra un “posto sicuro” come un porto europeo e la minaccia delle onde alte quattro metri, è un confine tra due coste e due continenti: da un lato la Libia, le sue prigioni, le torture; dall’altro l’Italia, e una promessa di futuro costantemente vincolata alle politiche migratorie, ai colori dei governi, alla demagogia dei politici. Su quel confine, la nave Sea-Watch 5 percorre rotte di salvezza e di disperazione, misurando ogni giorno insieme ai suoi operatori tanto la prossimità che intercorre fra un corpo in balia delle onde e quello del suo soccorritore – “quando i marinai trovano qualcuno in acqua tendono un braccio e lo tirano su”, ricorda poco dopo Flavio –quanto l’incommensurabile distanza fra gli astratti filosofemi dei diritti umani e la realtà delle vite annegate nel cuore del Mediterraneo. Eppure è da ben prima di A place of safety prima che Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, fondatori e componenti della compagnia, incontrassero alcuni operatori e operatrici di ONG impegnate in azioni di ricerca e soccorso in mare; prima che un’emergenza umanitaria scolorisse in una cronaca quotidiana di naufragi; prima che la legge Piantedosi ostacolasse con cinica ferocia i salvataggi – che il confine si è imposto, nell’arte del gruppo bolognese, come punto di osservazione del presente. Del “confine tra palco e platea” parlava F. Perdere le cose, lavoro del 2019 che conteneva in nuce molte delle suggestioni che adesso A place of safety porta a maturazione; del destino di un luogo marginale e immaginifico, ai confini della città di Bologna, raccontava Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso; lo stesso Consegne, la performance da fruire online in cui Borghesi si muoveva in una città resa spettrale dal coprifuoco, si dipanava in un luogo liminale, nel quale le nozioni di pubblico e privato perdevano di consistenza. E tuttavia non è un teatro di sconfinamenti, di scorribande culturali o disciplinari, quello agito da Kepler-452, quanto piuttosto un teatro che sceglie di stare, di abitare il confine come fosse al contempo l’ultimo rifugio di un presente in disfacimento, e l’unico avamposto possibile dal quale contemplare il futuro. È un teatro in grado di lambire il centro e osservarne le architetture e i costrutti (i conflitti di classe, le piccole e grandi ipocrisie collettive, gli stilemi culturali appannaggio della sinistra quanto della destra) così come di contemplare l’altrove, il rimosso e il dimenticato, tutto ciò che segreghiamo ai margini estremi delle mappe e della coscienza. Luogo ora geografico, ora sociale, la frontiera è così per Borghesi e Baraldi uno spazio sì mobile, soggetto agli imprevisti che le biografie intercettate nello sviluppo drammaturgico recano con sé, ma ciò nonostante sufficientemente stabile da permettere l’edificazione di creazioni spettacolari porose, aperte alle contraddizioni.

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Oggi, questa frontiera è il Mediterraneo centrale, e A place of safety si propone come un viaggio attraverso di esso, lungo le rotte percorse dai migranti, dalla ‘cosiddetta’ Guardia Costiera Libica — in realtà formata, come ricordato nella drammaturgia, da milizie paramilitari, le cui violenze e violazioni del diritto internazionali sono ormai acclarate – e dalle navi delle ONG impegnate nelle operazioni SAR (search and rescue). Esito di un’indagine condotta sul campo – analoga, in questo senso, a quanto realizzato dalla compagnia per Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto, dedicato alla lotta del Collettivo di fabbrica GKN A place of safety prende le mosse dalle interviste che Borghesi e Baraldi hanno rivolto a membri di ONG, e soprattutto da due periodi che la compagnia ha trascorso a Lampedusa e infine a bordo della Sea-Watch 5. Come di consueto nei lavori del gruppo, il racconto processuale entra nella drammaturgia, determinandone le svolte e condizionandone le pause o le improvvise accelerazioni, modulando la velocità con cui raggiungiamo il mare aperto e con esso quel grumo di ideali, di piane consapevolezze e traumi che abita nel cuore delle operatrici e degli operatori SAR. In scena insieme a Borghesi sono cinque: Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña, tutte e tutti parte dei team di Life Support, la nave di Emergency, e di Sea-Watch. Ed è qui che, ancora una volta, Kepler-452 pone a soggetto della narrazione il margine e il bordo, illuminando non le vite dei migranti che tentano di oltrepassarlo –perché “chiunque fosse venuto su questo palco avrebbe raccontato la storia solo di una parte di coloro che attraversano il mare: i salvati”, ricorda Borghesi – bensì chi quel bordo abita e difende dall’indifferenza e dalla violenza. È una scelta di obliterazione, di voluto oscuramento che ricorda la ‘scomparsa’ del protagonista di F. Perdere le cose, e che come in quel lavoro rischiara la nostra cattiva coscienza, il buio politico e umano nel quale arranchiamo, ma al contempo è il resoconto di un avvicinamento dal centro alla periferia, il diario di bordo scritto da Borghesi – o da ciascuno di noi: bianco, occidentale, di buona estrazione socioculturale – mentre lascia la terraferma per un mare che non vogliamo vedere. Del viaggio, A place of safety racconta le tappe: i test psicoattitudinali necessari all’imbarco, i quotidiani briefing dell’equipaggio e le sessioni di training, i protocolli da apprendere, le ore vuote riempite da ricordi e paure, e infine l’avvistamento di un’imbarcazione in distress, il soccorso, e soprattutto la necessità di maneggiare ora la fragile, colossale consapevolezza di avere salvato qualcuno, ora quella di non essere riuscito a farlo. Inframmezzate al racconto di una missione – una delle tante, troppe, ordinaria ed eccezionale – le voci di A place of safety rivelano le motivazioni e i sogni, la rabbia e l’asciutta dignità di ciascun operatore: ecco Miguel, fisico portoghese a lungo a bordo della Iuventa, indagato per un’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e oggi capo missione sulla Sea-Watch; ecco Flavio, prima tecnico sommergibilista della Marina Militare e adesso deck team leader sulla Life Support; ecco Floriana, infermiera ospedaliera condotta a bordo della nave di Emergency da un burnout. E poi Giorgia, che nel 2011 delle Primavere arabe vede arrancare, lungo la Statale 417 Catania-Gela, un gruppo di migranti, e da allora si occupa di search and rescue, a bordo e come portavoce di Sea-Watch; e infine José, elettricista proprio sulla Sea-Watch, figlio di immigrati giunti illegalmente negli Stati Uniti. Ognuno con un passato a partire dal quale comprendere il proprio presente dei soccorsi in mare, ognuno con attitudini, debolezze, strategie di sopravvivenza alla ferocia: la burbera, istrionica comicità di José; l’asciutto orgoglio di Flavio, e il suo passato “moderatamente, timidamente fascista”; Giorgia che si tatua un’ancora, come fanno i marinai a riposo, e che poi decide di tornare a bordo. Nell’affastellare squarci di vita attorno al resoconto di una missione, la drammaturgia di A place of safety trova la sua cifra più significativa: attorno a essi, le riflessioni di Borghesi restituiscono lo sguardo di un teatrante condotto fuori dal proprio habitat, con tutte le intuizioni, e tutti gli inciampi prospettici, di un outsider.

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Così, a poche settimane di distanza da Memory of Mankind, la creazione di Marcus Lindeen andata in scena al Piccolo Teatro, torno a utilizzare l’espressione “passare il microfono agli altri”, in Italia nota soprattutto grazie a un articolo di Claudia Durastanti, e mutuata da un episodio nel quale un attivista nero contro il razzismo, nell’Inghilterra degli anni Sessanta, aveva invitato uno speaker bianco a farsi da parte, a lasciare il palco ad altre voci. Un’immagine di grande successo, in questi anni di magmatici sommovimenti culturali e riposizionamenti etici, che ha saputo descrivere con sintetica efficacia le tante richieste e gli altrettanto numerosi tentativi di fare in modo che altre comunità, altri gruppi, occupassero i luoghi deputati alla narrazione e alla rappresentazione di sé: corpi divergenti e identità marginalizzate, non conformi e non normate, persone razzializzate, persone con disabilità, persone lgbtqia+. A ricorrere alla formula questa volta è lo stesso Borghesi, che legge nel gesto – l’elegante consegna in mani altrui dello strumento necessario a fare sì che la propria voce venga non tanto ascoltata, ma quantomeno udita – il residuo di un paternalismo bianco e occidentale, non ancora pronto a comprendere che quello stesso microfono ci sarà strappato (proprio ciò che l’attivista nero, invece, scelse di non fare, racconta Durastanti), e che “non sarà dalle nostre lacrime che passerà la liberazione” delle vittime, degli ultimi, dei dannati della terra. Ma Borghesi mette anche in discussione, oltre agli assunti teorici dell’attuale progressismo sociale e culturale, anche sé stesso, e il proprio ruolo di artista in un contesto di ineffabile grandezza, di straziante straordinarietà. Si mette a nudo, mentre racconta di avere ascoltato con cinismo la storia di un ragazzo gay scappato dalla Nigeria insieme a un amico, poi morto durante un fuga dalla polizia libica, e rivela quanto di quella vicenda lo interessasse soprattutto la potenza narrativa, il fascino che avrebbe suscitato in teatro, il magnetismo che avrebbe portato la platea a commuoversi; non teme di rivelare di ricordare soltanto, tra le centinaia di drammatiche storie di vita raccolte e studiate, quella di una ragazza scampata agli stupri perché non abbastanza carina, l’unico aneddoto “che parla di una cosa che capisco”. Ecco che il confine raccontato da A place of safety sembra allargarsi, dilagare, e comprendere per brevi istanti, insieme ai cinque non professionisti coinvolti sul palco, tutte e tutti noi, con le nostre idiosincrasie e le poche difese che cerchiamo di opporre a esperienze ineffabili. La creazione di Kepler-452 si inscrive così nel solco tracciato da Davide Enia col suo L’abisso e tornano alla mente le immagini delle ragazze appena sbarcate a Lampedusa, osservate da Davide e dal padre mentre crollano a terra senza più forze, e le mani di Enia che sul palco battono ritmicamente, a tradurre lo schianto del corpo sul selciato – ma soprattutto sembra prendere a modello il grande teatro europeo, primo fra tutti il Tiago Rodrigues di Dans la mesure de l’impossible.

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Come nel lavoro del regista portoghese, il plurilinguismo scenico restituisce a ciascuno la propria lingua madre, l’idioma del cuore, soprattutto nei momenti di più intensa immersione nei ricordi: Miguel sostituisce, con subitanea velocità, l’italiano al portoghese per far riemergere in superficie l’incontro, durante un’operazione di soccorso, con una madre e il suo bambino, e quanto provato di fronte all’impossibilità di abbracciarlo, abbracciarli, portarli al riparo; José ricorre allo spagnolo in una telefonata con la madre, nella quale ripercorre anche il destino di chi tenta di attraversare il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti. Ma proprio la piccola, grande babele linguistica di A place of safety evidenzia altresì l’estensione globale, non localistica, dei temi migratori, e l’altrettanto rilevante dimensione multiculturale – tra piccoli incidenti e innocue stereotipie – dell’umanità attiva a bordo delle navi delle ONG operanti a poca distanza dalle nostre coste. Altrettanto europeo è l’impegno produttivo, che vede qui insieme ERT/Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, insieme a Théâtre des 13 vents CDN di Montpellier, in collaborazione con Sea-Watch e Emergency: l’esito congiunto è un’opera dall’ampio respiro scenico – l’allestimento, bellissimo, è di Alberto Favretto, mentre il disegno luci è di Maria Domènech — e dalle rigorose, minimali soluzioni registiche. Pochi oggetti creano così, su un palco percepito adesso come immenso e sterminato, la plancia di una nave: un cumulo di salvagenti, una passerella, e soprattutto ampi pannelli verticali, a ricreare le paratie di una grande imbarcazione. Sono gli stessi performer a spostarli, come quinte davanti alle quali agire i rituali codificati e sempre inediti del soccorso in mare, quell’algoritmo di gesti e posizioni – non casualmente, è di Marta Ciappina la cura dei movimenti – nei quali si cela la possibilità di sopravvivenza di centinaia di uomini e donne. È una danza a tratti crudele: le navi delle ONG si avvicinano e repentinamente si allontanano dalle imbarcazioni intercettate, in una lenta ed estenuante manovra di prossimità e fughe, così da evitare che uno spostamento brusco dei naufraghi a bordo dei gommoni ne determini l’affondamento; sulle note di Stayin' Alive dei Bee Gees si codifica il ritmo di un massaggio cardiaco, le braccia tese a imprimere il massimo della forza sul torace di un uomo, di un bambino, di una ragazza dalla pelle ustionata dalla miscela di acqua salata, urina, cherosene.

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Tutto in A place of safety emerge in una granitica verità di sangue e sudore: tutto avviene in proscenio, tutto appare chiaramente nella sua forza e nella sua necessità, nella sua quotidiana – e perciò monumentale – eccezionalità, costringendoci ad applaudire, con identica convinzione, tanto lo spettacolo quanto la realtà che esso racconta. Come già accaduto in Dans la mesure de l’impossible, la creazione di Kepler-452 interroga, e forse disorienta, la nostra attitudine critica, assumendo su di sé il rischio connesso al mostrare la più scandalosa delle vite: non quella dei santi o degli eroi – il cui ascetismo potrebbe rassicurarci, nella sua siderale distanza – ma quella di chi si dedica alla cura dell’umanità con un carico, altrettanto umano, di ferite, indecisioni, sconforto. Certo è che – mentre sulle nostre poltrone continuiamo a valutare forme e immaginare politiche, a promettere azioni e manifestazioni, a scrutare estetiche – là su quella nave si festeggia la vita e la felicità di essere vivi. Termina qui il viaggio, ma tutto suona come un inizio.

A place of safety sarà in scena il 2 dicembre 2025 al Teatro Palamostre di Udine, e dal 4 al 7 dicembre 2025 al Teatro Metastasio di Prato.

Le fotografie sono di Luca Del Pia. 

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