Čechov, Ferracchiati, l’irresistibile arte del teatro
In una delle scene conclusive di Come tremano le cose riflesse nell’acqua, la Madre consegna al Figlio due riviste, ancora protette dalle loro buste di cellophane: su quelle pagine, accanto a un testo del celebrato Romanziere, compaiono anche le sue parole, il racconto che il giovane ha scritto in chissà quante settimane, o anni, di tormento creativo. È il Romanziere a svelare al ragazzo come chiunque, nell’ostico demi-monde della letteratura, si stia interrogando sulla sua identità, favoleggiando sul suo aspetto fisico; lui stesso, pochi istanti dopo, insiste però sulle carenze dello stile, sulle astrusità concettuali della prosa del Figlio, rammentando insieme ai presenti le feroci critiche che ne hanno accolto le pubblicazioni. Sono rapidi scambi, soltanto pochi minuti di azione all’interno della densa drammaturgia firmata da Liv Ferracchiati per la sua seconda produzione come artista associato al Piccolo Teatro: eppure è a essi che torno con il pensiero a poche settimane dal debutto, nello spazio del Teatro Studio Melato, di questa riscrittura laterale, quasi un attraversamento, de Il gabbiano.
Qui, in questa frizione – fatale, per il Figlio – tra il proprio statuto di autore e la percezione che di esso ha il sistema delle arti, e soprattutto in quelle chiacchiere, quel vano bisbiglio curioso e untuoso che indaga le biografie e sancisce il successo di un artista, si rivelano forse alcuni dei nuclei di senso dello spettacolo. I testi del Figlio e del Romanziere, accostati sulla carta, risuonano nelle genealogie tracciate, nelle eredità supposte con le quali si raccontano i percorsi artistici, delimitando negli ambiti della genitorialità e della filiazione le individualità creative; la massa discorsiva con le quali la critica restituisce l’opera d’arte e ne delinea gli artefici – con le posture, gli errori percettivi e le improvvise fascinazioni del caso – ci richiama, una volta di più, a un’assunzione di responsabilità. “Avete abbrancato il primato nell’arte e ritenete legge e verità soltanto ciò che fate voi, e tutto il resto lo calpestate e soffocate!”, urla Konstantin in faccia alla madre Arkadina nel terzo atto del capolavoro cechoviano, in un atto di accusa contro un’intera società teatrale, contro la sua vacuità e la sua violenza. E Ferracchiati, nel lasciare sedimentare la propria scrittura a partire dalla vicenda, dall’atmosfera e dal sistema dei personaggi dell'originale, sembra recepirne tanto l’indagine psicologica ed esistenziale, quanto la sofferta riflessione sul panorama delle arti sceniche, sull’umanità malinconica e geniale, seducente e meschina che lo abita.
È così facilmente riconoscibile la temperatura dei dialoghi che si affastellano in quel salotto in cui si dipana la vicenda di Come tremano le cose riflesse nell’acqua. Nella sala borghese e anonima, un Figlio tenta di essere scrittore e drammaturgo, o piuttosto quello scrittore e quel drammaturgo capace di modificare la realtà, di incidere un segno nello scorrere del tempo, interrompendone il percorso e imprimendogli svolte impreviste: mira a quell’ancestrale potere di sancire un prima e un dopo – “io vi dichiaro marito e moglie” – che John Austin formalizzò nella teoria degli atti linguistici e che tante volte, forse stancamente, emerge nei laboratori di recitazione e nelle chiacchiere intorno al palcoscenico. Un fare cose con le parole, un agire attraverso meri enunciati nel quale si cela forse l’essenza del teatro, il vertiginoso mistero dietro il quale corre un gruppo di anime raccolte per pochi, epocali giorni, davanti a una vetrata aperta su un lago. Il Figlio ha il corpo di Giovanni Cannata, e l’aspetto che stride, nell’immaginario collettivo, con le pose sofisticate dell’uomo di lettere: eccolo, in maglietta e short sportivi, spegnere la propria rabbia davanti alla PlayStation, alla ricerca di uno scampolo di amore e di riconoscimento da parte di una Madre che, come ogni Arkadina, è divismo e fuoco, è debordante istrionismo e arroganza erotica. Una Madre che è sempre, nella diagnosi del figlio, “iperqui”: e il neologismo – di singolare efficacia, uno tra i tanti segni della consapevolezza autoriale di Ferracchiati – aderisce con precisione alla superba prova d’attrice di Laura Marinoni, indimenticabile nel suo magnetismo in bilico tra ricercatezza ed eccesso, nella voce sopratono, nel nervosismo che ne condiziona le pose. Accanto a loro, e come loro privati dei nomi propri e universalizzati nelle loro funzioni narrative, in quel destino che li rende archetipi e modelli, la drammaturgia di Come tremano le cose riflesse nell’acqua – alla quale ha collaborato in veste di consulente letterario Fausto Malcovati, tra i massimi studiosi di Anton Čechov – pone una famiglia d’affetti e di risentimenti, testimone di una tragedia ordinaria ed eccezionale. C’è un Dottore, al quale uno strepitoso Marco Quaglia infonde un distacco sornione capace di virare rapidamente verso una dolcezza commossa; uno Zio che Nicola Panelli ci restituisce in umanità e debolezze; una Vicina e un Maestro – eccezionali grumi di dolore, Camilla Semino Favro e Cristian Zandonella – che inseguono la passione, e si accontentano di un amore infelice. Le loro traiettorie incrociano il campo magnetico che la Madre e il Figlio determinano nelle loro interazioni sulfuree, nei loro scambi livorosi: un’elettricità che esplode infine all’arrivo di Nina – Petra Valentini – l’unico personaggio a conservare il nome donatogli da Čechov, e del Romanziere, un perfetto Roberto Latini dalle gestualità annoiate, dalla calma arrogante con cui pronuncia il dettato.
Quel primo atto in cui Čechov imbastisce, negli spazi della tenuta di Sorin, un bislacco e fallimentare play within a play, è per Ferracchiati l’occasione di dimostrare una volta ancora, con una maturità drammaturgica adesso piena, il gusto per la grande commedia europea o americana già evidente in nuce nelle altre tappe del suo percorso artistico. A dipanarsi di fronte al nostro sguardo è così una piccola società culturale, grottesca e involontariamente comica, che discetta delle relazioni tra scrittura e realtà, o tra arte e vita, con superficialità e indifferenza: e Come tremano le cose riflesse nell’acqua irride con acume le nostre abitudini, le trite convenzioni di questo mondo asfittico e irresistibile. Da sottolineare, in questo senso, sono i costumi di Gianluca Sbicca, capaci di tradurre con pochi elementi complesse tipologie umane: è con un paio di Birkenstock che entra in scena il Romanziere, quasi uno status symbol per lo stereotipo dell’intellettuale engagé nostrano; gli orecchini della Madre sono sempre voluminosi, imponenti e fuori scala come la sua stessa vita; i mocassini a punta del Dottore denunciano una rivendicata estraneità, e un edonismo ormai sfiorito; la benda con cui il Figlio cela una ferita alla fronte, infine, è immagine traslata della celebre bandana di David Foster Wallace. Il magistero di DFW costituisce infatti l’interpolazione principale – letteraria e filosofica, ma anche esistenziale – che Ferracchiati inscrive in Come tremano le cose riflesse nell’acqua: l’autore di Infinite Jest è citato dai personaggi, omaggiato nella scelta del titolo (un estratto dal racconto Caro vecchio neon), soprattutto rappresenta per il Figlio il riferimento desiderato e studiato, colui che attraverso la scrittura ha saputo realizzare l’agognato atto linguistico.
Liv Ferracchiati torna oggi a indagare limiti e possibilità del linguaggio: se già in Uno spettacolo di fantascienza l’esplorazione delle modalità con cui le parole e le cose si sovrappongono e confondono emergeva come scaturigine di equivoci drammaturgici e di affondi teorici, adesso, e con maggiore rigore, gli inciampi e le potenzialità del discorso sembrano attraversare, carsici, la vicenda del Figlio. La sua prosa tuttavia appare confusa: ancora acerba, ancora mossa da una visceralità che lo fa incorrere in anafore scolastiche, in metafore stantie, infine nel sarcasmo della Madre. La sequenza in cui Nina recita, a tratti guidata dalle note della Madre, il testo del Figlio davanti a una platea difficile come soltanto una famiglia può essere, è un piccolo capolavoro di comicità e precisione attorale: e Ferracchiati, nella prima parte di questo lavoro, rivela una cura parossistica per il dettaglio, che la complicità dell’ensemble traduce in piccoli gesti capaci di imprimersi nella memoria. Ecco Roberto Latini giochicchiare distrattamente con una matita, insofferente al dramma di cui è artefice; ecco Camilla Semino Favro gettare con violenza una prugna a terra, o svapare non vista; ecco quel lessico di profondo amore che si esprime in una semantica di minime movenze: la cura con cui il Figlio/Cannata soccorre lo Zio/Panella, riverso ai piedi del tavolo, finanche un calzino che lo Zio getta addosso al Dottore, meticciando lo scherno con la tenerezza. Ferracchiati guida il gruppo in concertato, in un inseguimento tra le voci degli interpreti che ricorda la cifra registica di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni e che, come nei lavori creati da lacasadargilla, tenta di restituire i nodi di un tessuto di biografie in cui l’incontro tra trama e ordito traccia un disegno comprensibile soltanto ex post.
Ma poi, all’altezza di quella cesura temporale che Čechov pone tra il terzo e il quarto atto, quando, lontano dalla scena, si compromettono definitivamente le parabole esistenziali dei personaggi, Ferracchiati abbandona i cromatismi registici: la scena – disegnata da Giuseppe Stellato – si svuota progressivamente di arredi e sfumature, nell’abbandono di ogni residuo di realismo. Ed è qui che il Teatro Studio Melato, nella magnificenza della sua macchineria e delle sue possibilità architettoniche, si fa adesso cassa di risonanza per un requiem: in una prossemica che predilige adesso le distanze ai contatti, gli abissi tra gli individui e le rigidità ortogonali a un caos drammatico ma pur sempre vitale, il regista lascia adesso dissolversi sogni, velleità, speranze. È nel bianco, nel chiarore lattiginoso e accecante di una pagina candida, di un vuoto che le parole non riescono a colmare, che si consuma un’apocalisse privata e collettiva. Muore un poeta, ancora, una volta di più: suicida, certo, come impone la tradizione. Eppure il suo sangue sembra macchiare le mani di tutte e tutti noi.
In scena al Piccolo Teatro Studio di Milano fino al 25 febbraio
Fotografie di Masiar Pasquali.