L’Antigone in Amazzonia di Milo Rau
Nelle prime serate di questo giugno, le bandiere che costellavano il foyer del Royal Dutch Theatre di Gent si intravedevano già dalla strada: imponenti, con le loro scritte artigianali, bianche su fondo nero o rosso, ricordavano che Antigona na Amazonia (il titolo dello spettacolo svettava, al di sopra della porta principale, nella sua versione portoghese) è frutto della collaborazione con l’MST, il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, l’associazione che da quasi quarant’anni combatte per l’attuazione della riforma agraria in Brasile. Posti sulla scalinata che conduce in platea, o dietro il bancone del bar, gli stendardi dell’MST conferivano al luogo l’atmosfera di uno spazio informale: un luogo di lotta, di scontro. È una di queste bandiere a essere esibita nei primi istanti della nuova opera di Milo Rau, eppure lo spettatore potrebbe avere l’impressione che quanto sta per accadere sul palco sia solo una tappa, e di gran lunga la meno rilevante, di un evento che ha luogo altrove. Né il tempo, né lo spazio spettacolari coincidono – non possono coincidere – con il tempo e lo spazio della realtà: prima che si chiudano le porte della sala, e ben oltre il proscenio, Antigone in Amazzonia si è già realizzato.
L’inizio della creazione, il primo di una collezione di genesi possibili, è così da ritrovarsi in una delle repliche brasiliane di La reprise: l’unica opera di Rau andata in scena, a fronte delle tre previste, dopo la violenta opposizione di alcuni politici di destra. Lo ha raccontato il regista stesso, in uno dei tanti, preziosi articoli pubblicati nel corso del 2020, a cura di Andrea Porcheddu, su Gli Stati Generali, e lo raccontano durante lo spettacolo Sara De Bosschere e Arne De Tremerie: ad assistere alla performance, in quel teatro di San Paolo, erano infatti presenti alcuni attivisti del Movimento, scossi e colpiti dal coraggio, forse dall’incoscienza, con cui era possibile parlare di violenza omofobica nel Brasile di Jair Bolsonaro. Sono loro ad avvicinare la compagnia, e a suggerire a Rau di lavorare sulla storia dell’organizzazione che si oppone, troppo spesso a costo della vita dei suoi membri, allo sfruttamento capitalista dell’Amazzonia, alle multinazionali, allo scempio ecologico, culturale e umano che quotidianamente si compie sotto l’egida del governo. L’episodio, lungi dall’essere esclusivamente l’aneddoto con il quale motivare l’avvio del tormentato processo produttivo dello spettacolo, è un sintomo di ciò che il teatro di Rau – ma si vorrebbe sperare il teatro tout court – è in grado di detonare quando va in scena in una «zona di conflitto o di guerra», come richiede il nono punto del Manifesto di Gent. Nel Brasile della brutalità della polizia, dell’omicidio di Marielle Franco, della stampa che tentò di boicottare La reprise invocando il «coraggio di impedire questo teatro decadente con la forza necessaria», la vicenda di Ihsane Jarfi – picchiato a morte perché omosessuale, e abbandonato ancora agonizzante nella Liegi del 2012 – sembrava, e sembra tuttora, l’istantanea di una feroce quotidianità: eppure ad avere colpito gli attivisti presenti in sala fu forse la conclusione della pièce, con quella sua pacificazione, impossibile e commossa, tra vittima e carnefice.
Ma Antigone ha avuto inizio, anche, il 13 maggio: il giorno del debutto dello spettacolo a Gent, soprattutto il giorno della pubblicazione di un’incandescente dichiarazione contro lo sfruttamento della foresta pluviale e le azioni di greenwashing delle quali le aziende occidentali ammantano la propria, spietata, attività. Il documento prende di mira le multinazionali che, come l’italiana Ferrero, acquistano olio di palma da Agropalma, il produttore brasiliano accusato di appropriazione illegale di territori ed espulsione violenta delle popolazioni indigene; tra i firmatari, spiccano i nomi di Giorgio Agamben, Didier Eribon, Adèle Haenel, Slavoj Zizek, i premi Nobel Annie Ernaux ed Elfriede Jelinek: quasi una fotografia della borghesia colta europea, engagée e progressista. Ed è forse qui, tra questi due poli – l’esperienza spettatoriale rappresentata da una replica di La reprise a San Paolo, e la diffusione di una dichiarazione che invita a non acquistare cioccolato Kinder o Nutella – che si situa l’arco estetico e filosofico di Antigone in Amazzonia, e forse dello stesso teatro di Rau: con le sue straordinarie possibilità, la sua efficacia scenica, e le sue contraddizioni.
Queste esplodono, in tutta la loro pregnanza, nei primi istanti della creazione: sul palco, coperto da uno spesso strato di terriccio – la scena è disegnata da Anton Lukas, storico collaboratore del regista svizzero – si muovono infatti soltanto Pablo Casella e Frederico Araujo, insieme a De Bosschere e De Tremerie. Manca all’appello Kay Sara: l’attrice e attivista brasiliana, nella quale Rau aveva riconosciuto Antigone, ha infatti abbandonato la produzione prima che questa trovasse compimento. Già durante il periodo di massima espansione dell’epidemia di Covid-19 – quando, racconta sempre Rau nel suo articolo del marzo 2020, i lavori per lo spettacolo erano stati sospesi, così come le attività dell’MST – Kay Sara si era ritirata nel profondo dell’Amazzonia per stare vicina al suo popolo; oggi, rivela ben presto De Tremerie, il suo rifiuto ha assunto significati ancor più radicali e inappellabili. La sua assenza dai palchi europei – dopo Gent e Francoforte, lo spettacolo approderà ad Avignone a luglio e al Teatro Argentina in ottobre, all’interno di Romaeuropa Festival – è infatti la risultante di una cristallina coerenza alla propria causa, la conclusione naturale di un impegno cogente: quello di proseguire nella lotta e di mantenere una costante prossimità con la propria gente, al punto da annullare qualsiasi partecipazione a uno spettacolo per un pubblico differente. Non più occidentali, non più di buona estrazione socioculturale ed economica, gli spettatori di Kay Sara saranno da ora in avanti gli indigeni come lei, i guerriglieri dell’MST come lei, i parlanti una lingua colonizzata e violentata, come lei. E questa ribellione – contro la legge dello spettacolo, anche quando a firmarlo è Milo Rau – sembra aprire uno squarcio imprevisto nel tessuto della realtà dispiegato sul palco, oltre il quale si può forse intravedere un mondo in cui il teatro, o le dichiarazioni contro Agropalma, assumono una consistenza meramente consolatoria.
A interpretare il ruolo della figlia di Edipo è quindi Araujo, in un’operazione di sovrapposizione di generi che squaderna tuttavia sensi ulteriori: è lui, in una delle sequenze più forti, a ricordare quanti e quali crimini abbiano insanguinato la comunità LGBTQIA+ brasiliana, mentre urlando raccoglie manciate di terra dal palco e la getta addosso a noi, in platea, al sicuro, protetti dal privilegio europeo. Kay Sara compare solo in video, insieme a un coro composto da contadini, sindacalisti e lavoratori rurali di Marabà, alcuni dei quali sopravvissuti a un massacro perpetrato dalla polizia nel 1996, durante una manifestazione pacifica avvenuta nello Stato di Parà. Come nell’originale sofocleo, il coro costella con la propria presenza gli snodi drammaturgici più importanti; i cinque atti della tragedia classica sono qui introdotti da un prologo, eseguito in portoghese sulla musica live di Casella: ritornello del canto è il più celebre verso del dramma, il «molte cose sono mostruose, ma nulla è più mostruoso dell’uomo» che apre il primo stasimo, e di cui Rau accoglie una traduzione nella quale l’aggettivo polisemico deinòs è reso nella sua polarità negativa di “terribile”, “tremendo”.
Proprio quell’atroce massacro offre l’abbrivio della vicenda: in video, sull’asfalto di una delle tante strade che tagliano l’Amazzonia, vediamo sfilare uomini e donne, protetti solo da bandiere e cartelli; davanti a loro, la polizia in tenuta antisommossa attende una minima provocazione, che arriva nel momento in cui un manifestante, sordo, non risponde all’alt intimatogli. La mattanza, eseguita con crudeltà e freddezza, strazia i corpi e le anime; calci e pugni si riversano sul gruppo, finché un proiettile sparato nella nuca dei manifestanti spegne il corteo nel sangue e nel silenzio. Rau, ricorrendo a una soluzione consueta, sdoppia il re-enactment tra palco e video: le immagini cinematografiche, girate durante la permanenza in Brasile con un cast misto di attori professionisti e di non professionisti, sono adesso velate dal terriccio sollevato, sul palco, dalla colluttazione che contrappone Araujo ai due militari De Bosschere e De Tremerie. È il corpo di una delle vittime che Antigone, contro il diktat di Creonte, vuole seppellire; il lamento di Kay Sara è una litania straziante e ancestrale, un compianto funebre che tuttavia si interrompe, improvvisamente, con una frase pronunciata verso l’obiettivo della telecamera. «Stop filming!», urla l’attrice, strappando il velo su quanto l’arte non possa lenire il dolore, e su come questa stessa Antigone, così chiaramente animata da un cristallino impegno e da una comunanza di ideali con la lotta del’MST, non sia immune dal rischio di un ingenuo voyeurismo esotizzante.
Sarà per questa ragione che a sembrare assente, più ancora di un’Antigone in carne e ossa, è il volto di Milo Rau: si vorrebbe che, anche solo per un’istante, le riprese del massacro, o delle marce dei membri dell’MST, mostrassero il corpo del regista, problematizzandone tanto lo sguardo – bianco, occidentale, borghese – quanto la presenza, per essenza transitoria, in un contesto altro come il Brasile delle lotte agrarie. La contumacia dell’artista è forse un peccato veniale, un’inezia concettualizzante se accostata alla dirompente forza della messinscena, eppure contiene in nuce le aporie di un’operazione che costituisce, nella sua espressione migliore, un exemplum di quel teatro politico che dalla realtà più drammatica prende le mosse, e che nella realtà spera di poter incidere. Solo Arne De Tremerie è latore di dubbi e di interrogativi etici: le sue riflessioni – così come il racconto delle lunghe settimane che l’ensemble guidato da Rau ha trascorso fianco a fianco con gli attivisti del Movimento – costituiscono brevi interpolazioni biografiche alla ricostruzione degli episodi salienti del testo sofocleo, affidate ora agli altri interpreti sul palco, ora agli attori ripresi in video. Il colloquio tra Creonte ed Emone, il suicidio di quest’ultimo alla vista del corpo di Antigone, o la rassegnazione di Euridice – vivificata in video da Célia Maracajà – di fronte all’annichilimento della sua stirpe, si susseguono secondo un’architettura cronologica che traduce l’unità di tempo aristotelica nello scorrere di una sola, drammatica giornata nel Parà. Di fronte agli incendi, al depauperamento delle risorse, al genocidio che macchia e stupra l’Amazzonia – e ai quali nemmeno il governo di Lula da Silva sembra opporre resistenza – al Tiresia di questa Antigone in Amazzonia non è più necessaria alcuna arte divinatoria. Il filosofo Ailton Krenak, al quale Rau affida il ruolo dell’indovino, può semplicemente descrivere l’esistente, guardarlo in faccia nelle sue manifestazioni più angoscianti: e ricordare quando, nell’agosto del 2019, il giorno si fece notte, e il cielo di San Paolo fu oscurato dalla cenere e dal fumo sollevati dai roghi che stavano devastando la foresta.
Non è però con il rimpianto di Creonte, o con la profezia così realistica del cieco Tiresia, che Milo Rau chiude la sua Antigone. Replicando sé stesso, il regista traduce sul palco di Gent l’ultima, celeberrima strofa di Impressioni teatrali di Wisława Szymborska, e come in La reprise immagina un sesto atto, nel quale «il ribelle cammina senza rancore a fianco del tiranno». Un secondo video mostra un esito diverso del massacro del ’96: ecco i morti alzarsi in piedi, sotto lo sguardo attonito dei presenti; ecco i poliziotti levarsi i caschi, posare i manganelli e i fucili; ecco tutti stringersi le mani, abbracciarsi, e intonare un canto di riconciliazione. Certo, il rischio del format, del dispositivo funzionale a ogni tragedia contemporanea, sembra lambire pericolosamente questo palcoscenico: eppure, anche questa sera una mano invisibile «fa il suo dovere, e mi stringe alla gola».
Le fotografie sono di Kurt van der Elst/NTGent