Sciarroni: U., la voce che danza

20 Settembre 2024

A ripercorrere le tappe più recenti del percorso creativo di Alessandro Sciarroni si potrebbero forse scoprire alcuni segni prodromici del sorprendente U. (un canto), disposti come indizi di un progressivo affinarsi, nello sguardo dell’autore, di un nucleo ideale, come sintomi del chiarificarsi di una galassia concettuale ed emotiva: l’indagine sul concerto come formato spettacolare; il rarefarsi della danza, sempre più sublimata; la tessitura di un dialogo intimo, di prossimità e rispecchiamento degli sguardi, tra performer e spettatore. E tuttavia non è soltanto il palco che dovremmo osservare: con approccio filologico e documentario, potremmo infatti affidarci anche alla novella che il pubblico di DREAM — produzione del 2022, finalista all’ultima edizione del premio Ubu ha ricevuto in dono, al termine di ognuna delle sue repliche. Quel romanzo, sperimentale nella forma quanto nella relazione che stabiliva con la creazione scenica, rappresenta infatti una delle possibili e plurime chiavi d’accesso a U., opera multifocale nelle sue premesse quanto rigorosa e lineare nel suo dispiegarsi. Il testo immaginava un passato recente e alternativo, un’ucronia nella quale l’umanità, giunta alle soglie della catastrofe ecologica, optava per la propria volontaria estinzione come soluzione al dramma del “costo in vite di specie animali e vegetali per il mantenimento di un’unica specie, la nostra”. L’emergenza ambientale offriva così la scaturigine al racconto, l’iperoggetto la cui incombenza sulle esistenze dei tanti personaggi ne determinava le svolte psicologiche, le oscillazioni del sentire; a metà della narrazione, una riscrittura del primo capitolo della Genesi interrompeva il fluire della vicenda, proponendo una nuova preistoria biblica nella quale “l’aurora e la marea, le stelle e la rana, il melograno e tutte le acque del mare” risaltavano per il loro ineffabile splendore, e per la loro ancestrale condanna alla distruzione. Eppure, l’atroce consapevolezza dell’imminente o piuttosto già avvenuto collasso ambientale non si traduceva, nella lunga durata di DREAM così come nel testo, in immaginifiche o realistiche descrizioni degli sconvolgimenti causati dall’antropocene; la paura e le sue contemporanee declinazioni ecologiche dall’ecoansia alla solastalgia — non trovano posto nell’arte di Sciarroni, scevra da qualsiasi teorema dimostrativo, da qualsivoglia necessità di minacciare, o perfino accusare, la propria platea. Lì dove il grumo di angoscia sembrerebbe annichilire qualsiasi afflato, Sciarroni costruisce dispositivi narrativi e coreografici che cementano una comunità possibile, nella quale finalmente prendersi cura gli uni degli altri, e contemplare il mondo nell’istante del suo, o del nostro, inabissarsi.

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Che un medesimo sentimento verso il creato la connotazione religiosa del termine è qui voluta animi anche U. è evidente dalla selezione degli undici canti corali che ne compongono la drammaturgia: undici brani eseguiti a cappella da sette straordinari performer, chiamati a dare vita a un sofisticato esercizio di vocalità, interpretazione, postura, millimetrico movimento. Queste canzoni, i cui testi lo spettatore può leggere nel libretto ricevuto all’ingresso in sala, dipingono in prima istanza l'affresco di una relazione, antica e costantemente rinnovata, con la natura: il miracolo dell’alba, il profumo delle rose bianche, la luce di un tramonto, e poi il tempo dell’uva matura, o le rocce scolpite, si susseguono come reperti di un tempo differente, vestigia portate alla luce da un’archeologia del presente. Non una mitica Arcadia delineano infatti le canzoni, quanto un territorio a noi geograficamente e culturalmente vicinissimo, e ciò nonostante dimenticato, relegato ai margini della coscienza collettiva: uno spazio di frontiera, il primo a essere distrutto dalla catastrofe ecologica o forse l’ultima difesa, l’avamposto nel quale rifugiarci e riconoscerci, in un’empatica dimensione relazionale. Scritti tra il 1968 è il caso di Signore delle cime, di Bepi De Marzi, tra i più noti canti del repertorio di montagna e il 2019 anno di composizione di Resterà la luce, di Gianfranco Salatin e Giorgio Susana i brani testimoniano il persistere non soltanto di una tradizione corale vivida e sontuosa, quanto di un senso di compartecipazione con il paesaggio, con gli animali, con l’esperienza stessa della vita sulla terra. È una spiritualità di matrice francescana a imporsi come modello archetipico: latore di un nuovo legame tra uomo e natura, il santo di Assisi affidò non a caso a un cantico la propria lode delle creature.

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Già menzionato in DREAM un altare votivo dedicato al santo, posto accanto a una veduta montana, appare nelle prime pagine del romanzo: quasi un’anticipazione, nella vicinanza tra i due soggetti, della temperie filosofica di U. — Francesco emerge adesso come punto di fuga di altre prospettive di senso. L’indimenticata Fratello Sole, Sorella Luna — composta nel 1972 da Riz Ortolani per l’omonimo film di Franco Zeffirelli dedicato al santo brilla per la sua notorietà nella collezione di canti corali, e un dodicesimo brano, eseguito come bis, sancisce la conclusione della performance: Cantico, scritto dalla stesso Sciarroni su musica di Aurora Bauzà e Pere Jou, mutua dall’originale francescano non soltanto il titolo quanto la struttura formale, i singoli elementi, soprattutto la commossa gratitudine e l’incantato stupore, adesso laici ma di identica potenza. Sciarroni recepisce sì il magistero letterario di Francesco, ma nell’incorporazione drammaturgica di un classico della canzone italiana interpretato all’epoca da un Claudio Baglioni ancora ventunenne, poi assorbito nella memoria nazionale fino a essere compresa nei programmi scolastici di educazione musicale fa propria anche l’eredità indiretta del santo, imbastardita dagli sconfinamenti intermediali e dalla polvere dei secoli. Il recupero delle tradizioni folk, e la loro traslazione esperienziale — si pensi all’estenuante Schuhplattler di FOLK-S, o all’altrettanto logorante polka chinata di Save the Last Dance for Me — sono da sempre cifre identitarie per Sciarroni, e si manifestano in U. (un canto) come immersione nella fertile scena nazionale del canto corale: ma è anche e soprattutto nel loro meticciarsi con una contemporaneità pop, capace di tradire e al contempo esaltare la dimensione del popolare, e di originare così frizioni e cortocircuiti percettivi, che si situa adesso il cardine della ricerca. Il volto sorridente di Kurt Cobain campeggia così sulla camicia bianca di uno dei performer — l’efficace styling è di Ettore Lombardi — come l’inaspettato riflesso degli archi melodici percorsi dalle voci, e al contempo come un romantico memento mori, il segno di un contrappunto esistenziale quanto musicale.

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E la danza? Ormai Alessandro Sciarroni sembra non dovere più dimostrare a nessuno la propria cittadinanza artistica — Op. 22 No. 2, il solo disegnato per Marta Ciappina, ha ampiamente confermato anche agli osservatori più riottosi come l’autore possa costruire sofisticate composizioni coreografiche — e le prime repliche di U. (un canto) testimoniano un’appartenenza certa all’universo, plurale ma compatto, del sistema coreutico nazionale: dopo il debutto al Bolzano Danza Festival, la creazione ha toccato Bassano del Grappa per giungere a infine Torino, sul palco del Teatro Carignano, come uno degli eventi di apertura dell’edizione 2024 di Torinodanza Festival. Eppure, ancora una volta, Sciarroni sembra voler contraddire le attese, spostando i confini tassonomici, rivendicando un’alterità essenziale che rifugge da affiliazioni e parentele. Ecco che i sette performer — tutti eccezionali: Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli — fanno il loro ingresso in un’oscurità rischiarata solo da un controluce — il light design è di Valeria Foti — e si dispongono in una linea parallela al proscenio. Ieratici, manterranno una postura statuaria pressoché per l’intera durata della performance: le braccia disposte lungo il busto, le mani abbandonate, i volti tesi nello sforzo canoro, lasciano che la stasi del corpo riverberi nell’esplosione dei cromatismi e delle scale armoniche. È la voce — materia organica, inscritta nel corpo, del corpo espressione — a danzare, a occupare lo spazio dilagando verso la platea e i palchi: nessuna gestualità superflua si frappone alla sua ricezione. E tuttavia minime sfumature del movimento, concertate sincronicamente, animano il coro con impercettibili variazioni nelle espressioni del viso, nella direzione dello sguardo, finanche nelle incidenze dell’angolo che i piani anatomici creano con il boccascena. Le torsioni delle linee di forza imbrigliano la tavolozza emozionale che traspare dai volti dei coristi: ecco che un respiro agisce da segnale convenuto al quale il gruppo, negli intervalli tra un brano e l’altro, reagisce avvicinandosi alla platea. È una crescente prossimità tra attore e spettatore, un invito al contatto, perfino un atto di riconoscimento; sul fondale appaiono i titoli dei brani, i nomi dei loro autori, la loro progressione numerica — e con essa sembra accorciarsi una distanza umana più che fisica. In questa coesistenza di corpi adesso così intimi, possiamo guardarci gli uni con le altre, lasciare che gli occhi si incontrino durante il canto, e infine si rivolgano a noi in platea. «Resterà la luce! Resterà… / a far splendere come perle le nostre lacrime / di figli immensamente amati».

U. (un canto) replica il 28 settembre a Civitanova Marche, il 3 novembre a Reggio Emilia, il 9 novembre a Nanterre, dal 22 al 24 a Milano.

Le fotografie sono di Andrea Macchia. 

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