Piccolo Teatro: l’algida nostalgia di Rambert

19 Maggio 2023

In una delle scene conclusive di Il sol dell’avvenire, Giovanni, alter ego cinematografico di Nanni Moretti, pronuncia una bizzarra invocazione, mentre cerca di frapporsi agli ostacoli che procrastinano la fine delle riprese del suo film. “Mamma!”: il suo è un sussurro sognante, mormorato con il lucidissimo candore dell’uomo adulto che non ha alcun timore di apparire immaturo o inutilmente retorico. Come un amuleto, un rito apotropaico, come un’implorazione alla spettatrice il cui giudizio si è sempre temuto più di altri, l’appello sembra essere un’ancora di salvezza creativa, il farmaco che l’artista acclamato cerca di assumere per guarire dalla stasi e dal disamore. Accade anche a Sandro in Prima, lo spettacolo scritto e diretto da Pascal Rambert in questi giorni in scena al Piccolo Teatro Grassi: confuso da un’analoga crisi sentimentale, l’autore interpretato da Sandro Lombardi – colto nel fronteggiare le tensioni che sembrano poter compromettere il debutto dello spettacolo da lui scritto e diretto – trova nell’invocazione alla madre morta l’unico, effimero rimedio al cinismo e al risentimento che galleggiano densi sul palco. Eccolo rivolgersi alla galleria dove, ci immaginiamo, la donna fosse solita sedersi ad assistere ai lavori del figlio; eccolo indicare una poltrona tra le tante, e rammemorare, a sé stesso e alla platea, la naturalezza con la quale accolse la sua omosessualità; eccolo allontanarsi dal proscenio, a tal punto rinsaldato dallo splendore del ricordo da poter pronunciare un robusto “grazie, vita!”.

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Moretti (classe 1953) e Lombardi (1951) sono pressoché coetanei; di una decina d’anni più giovane è invece Rambert (1962), tuttavia la sua scrittura sembra essere contigua, in quest’ultima prova, alle atmosfere nostalgiche che contraddistinguono il film adesso in concorso a Cannes. Esiti, linguaggi e ambiti sono chiaramente differenti: ma è indubbio quanto Prima e Il sol dell’avvenire – e si potrebbero citare altre creazioni che hanno debuttato nelle ultime stagioni, finanche ampliare lo sguardo al mondo editoriale abbiano la loro scaturigine in un medesimo senso di rimpianto, di malinconico abbandono, di denuncia della decadenza estetica contemporanea. Un senso di smarrimento e disillusione sembra pervadere la scena nostrana, soprattutto in autori – maschi, generalmente – che condividono, più ancora di un mero dato anagrafico, un identico background: una cultura amplissima, radicata nei capisaldi dell’arte occidentale; una profonda fede politica nella sinistra; un ironico distacco dalle espressioni e dalle aporie del tempo presente, dalle sue contraddizioni non inscrivibili nelle categorie di pensiero tradizionali. Ancora una volta sono così il teatro e l’amore le coordinate all’interno delle quali Rambert sembra tracciare il consueto, sofisticato grafico di algide strutture linguistiche, affondi teoretici, slanci introspettivi; ma qui, l’orizzonte di senso sembra comprimersi in una fin troppo consueta querelle tra vecchio e nuovo, in un noto conflitto tra generazioni e tra le loro, si direbbero inconciliabili, istanze. 

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È da una battaglia, d’altra parte, che prende le mosse tanto il progetto triennale dell’artista francese – tra i quindici artisti associati al Piccolo – quanto la vicenda stessa dispiegata sul palco: quella tra fiorentini e senesi combattuta a San Romano nel 1432, e resa immortale nel trittico dipinto da Paolo Uccello. La Rotta, nella sua bidimensionalità pittorica, è l’immagine che Sandro cerca di tradurre in drammaturgia e prossemica; nella sua scansione cronologica, nel succedersi delle sequenze guerresche restituite in tre imponenti tavole, è invece il modello creativo che Pascal Rambert realizzerà a Milano, facendo seguire a questo Prima un Durante e un Dopo. Gli oggetti di cui si osservano le dimensioni temporali sono, come spesso nella produzione dell’autore, uno spettacolo nel suo farsi e il deflagrare delle tensioni emotive che la messinscena determina all’interno di una compagnia: ma se nell’indimenticabile Prova a dispiegarsi era anche e soprattutto una riflessione sulla Storia e sugli umanissimi, maldestri tentativi di tramutarla in narrazione, l’universo concettuale convocato da Rambert – lo statuto dell’arte, la dimensione ontologica del linguaggio – si contrae adesso in un’usuale, trita indagine sull’amore. 

Piccolo Teatro: l’algida nostalgia di Rambert

Certo, di cosa ha senso parlare, scrivere, cantare, se non di amore? Eppure quella verità, quel riconoscimento che si vorrebbe vedere realizzato sul palco come amanti abbandonati e feriti, o come oggetti di un amore entusiasmante sembra tradursi in una sequenza di immagini stereotipate ben più che archetipiche. La drammaturgia di Prima inanella una sequenza di figurazioni convenzionali: c’è Marco, l’attore giovane (Marco Foschi) con atteggiamenti e look da bad boy, compagno di Anna (Anna Della Rosa) ma oggetto delle attenzioni, passate e presenti, di qualunque altro membro della compagnia; c’è Anna (Anna Bonaiuto) l’attrice non più giovane divorata dalla gelosia nei confronti di Marco, e dal sordo dolore di una prossima vecchiaia, di un improcrastinabile oblio; c’è Leda (Leda Kreider), inizialmente restia alle avances di Marco ma infine come ci hanno insegnato il cinema hollywoodiano e la letteratura di genere vinta dalle sue parole e dal suo corpo, al punto da cedere a un bacio uno soltanto consumato in un proscenio inondato di luce. E c’è ovviamente Sandro, che contempla quanto accade intorno alla sua creazione registrando l’incedere degli eventi, e contrapponendo la fluidità sessuale di Marco di cui era stato l’amante occasionale, di un amore consumato nei camerini di chissà quanti teatri alla propria, dogmatica e old fashioned, omosessualità. Come Carlo, il protagonista del romanzo Le mani sull’amore pubblicato da Lombardi nel 2009, anche Sandro si trova a dover fare i conti con i postumi di una storia tra un artista di fama e un giovane amante, e soprattutto con lo scorrere del tempo, con le impietose tracce che esso imprime ai corpi, alle anime, e infine all’arte stessa.

Sfuggono le ore, sul nudo palco del Grassi dipinto di un bianco pastoso: il teatro è una tela, al di sopra della quale le chirurgiche luci di Yves Godin – storico collaboratore di Rambert – disegnano ora un’alba nella quale tutto sembra possibile, ora un meriggio rabbioso e passionale, infine un crepuscolo degli affetti illuminato soltanto da un lucore tenue, premessa di un buio feroce. E nel suo dipanarsi, il teatro dell’esistenza di Rambert conduce lo spettatore attraverso scontri verbali agiti in una pressoché assoluta fissità dei corpi ci deve essere distanza tra loro, è questa una delle cifre della poetica di Sandro ai quali si contrappone un linguaggio lirico mai del tutto aderente alla voracità del desiderio, o alla brutalità del sesso. Fugaci contaminazioni pop il festival di Sanremo, Il Venerdì di Repubblica sembrano così stridere con il tenore stilistico generale, come concessioni gratuite a una quotidianità dei discorsi e delle conversazioni soltanto vagheggiata. 

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D’altra parte, la parola crea il mondo, nell’arte di Rambert, studioso di filosofia prima ancora di essere uomo di teatro: “Cavallo, lanciati!” è non a caso la battuta che, come un abracadabra, fa capitolare d’amore per Marco ogni attrice. E l’impostazione recitativa forse più nelle corde di Kreider, Foschi e soprattutto di Anna Della Rosa, pluriennale interprete italiana delle creazioni di Rambert, che di due attori di razza e talento come Bonaiuto e Lombardi sembra esacerbare questa discrasia tra corpi e voci, costringendo l’ensemble a una gestualità fin troppo affettata, o a uno sforzo vocale e timbrico non sempre efficace. A intervallare questi affondi, Rambert pone sequenze nelle quali ricostruisce gli istanti della battaglia, e il palco si anima di strutture lignee semoventi, dalle quali lunghe picche si stagliano per incorniciare il gruppo abbigliato in costume d’epoca: un tentativo di restituire quella commovente, vertiginosa architettura di forme e colori – il cavallo blu, il segugio azzurro – con cui Paolo Uccello cristallizzò in un’immobilità di masse e volumi la concitazione di un’istante. All is fair in love and war: eppure di questo sentimento così magnetico, così irresistibile, non c’è traccia sul palco, se non sotto forma di rimorso e disprezzo, al punto che ci si vorrebbe domandare quale amore sia questo, che estorce e pretende, che non è mai tenero, o ironico, o disincantato, o divertito, o goffo. Un amore in cui, come nello scontro tra Bernardino della Carda e Niccolò da Tolentino, tutto sembra lecito perché tutto – il ricordo, la parola, lo sguardo, il corpo – è sempre arma e mai dono. Un amore del quale, in fondo, non si vorrebbe sentire alcuna nostalgia.

Fotografie di Masiar Pasquali.

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