Marcus Lindeen. Correggere la memoria
Sono oggetti in bronzo, dalla forma geometrica: poliedri cavi di dimensioni ridotte, le cui facce pentagonali recano aperture circolari o incisioni decorative, e sui cui angoli svettano piccole sfere. Ne sono stati trovati a centinaia, spesso in corredi funerari o insieme a monete di epoca tardoantica, in un territorio che spazia dal Galles al Belgio, dalla Francia all’Ungheria. La letteratura specialistica non è concorde sulla loro funzione; le differenze nella fattura rendono incerta una loro chiara, univoca interpretazione, e le fonti non sembrano farne menzione alcuna. Il dodecaedro romano – questo il nome con cui sono noti i misteriosi reperti – è così da secoli il protagonista di speculazioni e studi, che di volta in volta confondono l’ambito dell’archeologia con quello della pseudoscienza, il rigore metodologico con la fantasticheria. È uno di questi strani manufatti a essere impugnato e mostrato con orgoglio in Memory of Mankind, la nuova creazione di Marcus Lindeen: un solido platonico forse utile come strumento di misurazione, oppure per scopi ludici, o addirittura per funzioni calendariali. L’assenza di riferimenti in cronache o epigrafi, in sculture o bassorilievi, ha così lasciato spazio al fiorire delle congetture e delle teorie, in un’orizzontalità epistemologica nella quale la verità storica – facendo proprio un approccio entusiasta espresso nella pièce – apparirebbe come una pretesa irragionevole, o addirittura discutibile nel suo ricondurre la sfavillante varietà del gioco ermeneutico alla grigia univocità del certo e del comprovato. Passa di mano in mano, il dodecaedro, mentre i quattro protagonisti di Memory of Mankind formulano ipotesi, partecipando alla ridda delle suggestioni; nelle sue plurime ma identiche superfici, nell’equivalenza dei suoi venti vertici, esso assume soprattutto le caratteristiche di un correlato oggettivo del processo drammaturgico e registico adottato da Lindeen, in grado di moltiplicare – come le facce del poliedro – i punti di osservazione di un medesimo, incandescente nucleo di senso, ma conferendo a essi una pari valenza.
Presentato in prima nazionale in un Teatro Studio Melato trasformato in agorà – quattro gradinate, poste ai lati di un piccolo spazio rettangolare, accolgono il pubblico assiepato a poca distanza dagli interpreti – Memory of Mankind offre un nuovo affondo nell’arte di Lindeen, di cui la prima edizione del festival Presente Indicativo aveva ospitato Wild Minds e L’aventure invisible. Anche qui, come nelle due precedenti creazioni, l’azione scenica è ridotta a una conversazione; anche qui è ricercata, nella disposizione dello spazio riservato al pubblico, la molteplicità prospettica degli sguardi, che ora si concentrano sugli attori, ora incrociano quelli degli altri spettatori; anche qui il ricorso all’eterodirezione muta il timbro recitativo. È, quella di Lindeen, una cifra identitaria e riconoscibile, pressoché unica nel panorama europeo: un rarefarsi del teatro documentario alla sua essenza di testimonianza, di racconto affidato soltanto alla voce, ma anche un suo scarto, un suo superamento verso una veridicità che allarga le maglie della cronaca verso l’affabulazione e lo storytelling. Ecco che proprio Memory of Mankind sembra poter raccontare e rispecchiare sé stesso, in una significativa coincidenza tra il fulcro dell’indagine – la pratica della memoria, tra responsabilità e invenzione – e il dispositivo formale adottato. Biografie di persone comuni sono, come di consueto nel teatro di Lindeen, il punto di partenza di una drammaturgia – firmata da Marianne Ségol – che adatta e comprime, condensa ed espande aneddoti e vicende, torsioni e slanci; raccolti dall’autore svedese durante le interviste realizzate nel processo di ricerca preliminare, questi lacerti di esistenze sono poi cuciti, con finissimo filo, in un tessuto dialogico che attorno a un tema sviluppa irrealistici, e ciò nonostante godibili, scambi di esperienze e convinzioni. In Memory of Mankind l’abbrivio è rappresentato dall’omonimo progetto di Martin Kunze, ceramista austriaco che a partire dal 2012 ha affidato a centinaia di tavolette di argilla, conservate in un’antica miniera di sale non lontano dal lago di Hallstatt, il compito di preservare una storia dell’umanità bizzarra e totalizzante, in grado di abbracciare vette del pensiero e trascurabili inezie. Aperta al contributo di chiunque, la collezione si compone di piastrelle quadrate del tutto simili a quelle utilizzate nell’edilizia, sulla quale grazie a una sofisticata tecnica sono impresse formule matematiche, testi, immagini, mappe; capaci di sopravvivere per secoli e millenni, le tavole documentano un sapere tanto collettivo quanto individuale: intimi ricordi familiari e teoremi, ricette tramandate da generazioni e conquiste scientifiche si affastellano senza distinzioni in casse che il sale proteggerà dalle offese del tempo.
Di questo ambizioso progetto discutono, insieme a Kunze, un archeologo queer e una coppia composta da uomo affetto da sindrome della fuga dissociativa e dalla moglie scrittrice, obbligata dalle frequenti amnesie del compagno a raccontargli, e restituirgli, un’esistenza dimenticata. Attorno ad alcune casse di piastrelle, i quattro interpreti – i non professionisti Sofia Aouine, Driver, Axel Ravier, Jean-Philippe Uzan – si trovano così a discettare, come in un simposio postmoderno, dei risvolti etici connessi all’operazione di Kunze, e di cosa abbia senso tramandare del passato, sia esso quello dell’umanità o piuttosto di un singolo individuo. Risuonano qui alcuni dei temi già affrontati da Lindeen in L’aventure invisibile: le conseguenze di un’amnesia sull’identità, e l’assenza della memoria come creazione di uno spazio bianco sul quale disegnare nuove o antiche biografie; la queerness come grimaldello in grado di sparigliare norme e assunti cristalizzati, mostrando i vincoli sociali che hanno marginalizzato intere comunità; le contraddizioni e gli irresolubili enigmi che ciascuno si trova a incontrare osservando – come posto di fronte al dodecaedro – le facce di un oggetto cangiante e inafferrabile quanto la memoria. Mentre la coppia si trova a dovere ideare e sperimentare tecniche di sopravvivenza di una relazione costantemente ricondotta, dalle frequenti crisi dell’uomo, a un primo incontro, l’archeologo queer mette in crisi la sicumera dell’artista, puntando l’indice contro l’unicità della prospettiva storiografica adottata. Kunze afferma con candore di non accettare, tra i contributi proposti da migliaia di persone nel mondo, materiale pedopornografico, operando perciò una selezione etica alla documentazione del passato, e tratteggiando una versione edulcorata dell’umanità; analogamente, la donna sostiene di modellare la personalità dell’amante donandogli, insieme ai ricordi della loro relazione, anche gusti e idiosincrasie compatibili con i propri. Motivati dai migliori intenti, i criteri adottati dai due nel preservare un passato friabile, sgretolato dalle patologie di una mente o dalle umane vicende, rivelano le parzialità, le correzioni, i limiti ai quali sono sottoposti gli sforzi che vorrebbero identificare storia e verità. È l’archeologo a mostrare come ciò che abbiamo dato per assodato, nel racconto collettivo, sia piuttosto l’esito di metodologie volte a escludere il non conforme, il diverso, la minoranza: una narrazione che ha consapevolmente espunto, dalla ricerca storica, le tracce di storie differenti. Lo studioso mostra così, proiettati sui due schermi posti ai lati dello spazio scenico, le immagini di Khnumhotep e Niankhkhnum, manicuristi reali durante la V dinastia, raffigurati abbracciati sulle pareti della loro mastaba a Saqqara: mentre l’egittologia ufficiale ha a lungo voluto interpretare i gesti di affetto tra i due come segno di una mera parentela, relegata ai margini del dibattito è tuttavia emersa un’altra versione, che ha coraggiosamente riconosciuto nei due uomini una coppia di amanti. È qui che la drammaturgia di Memory of Mankind trova la sua dimensione più felice, accantonando la dotta discussione per aprire uno squarcio su vite minuscole e gigantesche: il giovane archeologo attraversa così la vicenda di Gregory Reeder, il ricercatore indipendente che ha, con caparbietà e acribia, tentato di far accettare dalla comunità scientifica la teoria per la quale nei dipinti di Saqqara sarebbe raffigurato un amore omosessuale. L’incontro tra Reeder e l’archeologo queer, ripercorso nel racconto, è un omaggio a una generazione gay falcidiata dall’epidemia di AIDS, dimenticata dagli annali e dagli archivi, alla quale Ségol e Lindeen sembrano rivolgere un omaggio commosso, modificando improvvisamente la temperatura drammaturgica – così moderata, così sofisticata – in un vibrante passaggio sulle trasmissioni e sulle eredità, sul senso di una memoria non più accademica e asettica, ma bensì affidata alle relazioni, ai passaggi di testimone, ai contatti tra comunità e individui.
Memory of Mankind, in questo senso, appare come un colto ens rationis, il modello ideale di una peculiare “comunità di comunicazione etica” – mutuando la terminologia di Karl Otto Apel – nella quale il gioco linguistico è scevro da interessi personalistici, da zone d’ombra, da crudeltà e ferocia, e gli interrogativi più assillanti del nostro presente culturale sono scomposti in una conversazione piana ed elegante. Come e cosa tramandare del passato; come correggere le posture eteronormative e patriarcali con le quali lo abbiamo narrato; come “passare il microfono ad altri” – nella brillante immagine consegnataci da Claudia Durastanti – e dare così voce a storie di vita prima ammutolite: il grumo di interrogativi non dà origine, nella galassia artistica di Lindeen, a quelle appassionate e spesso violente culture wars alle quali i social network ci hanno abituato. Il dibattito è anzi circonfuso di un’aura di maturità espressiva, di ponderato giudizio; la polarizzazione conflittuale – spesso finanche rivendicata, dalle frange più radicali del progressismo, come strumento necessario per abbattere consolidati sistemi di pensiero – è qui sostituta da un’ammirevole, prismatica capacità di analisi. Del reale, soprattutto dei suoi aspetti più meschini, il teatro di Lindeen non fa menzione, offrendoci un’immagine forse consolatoria e immaginifica del territorio magmatico sul quale la contemporaneità, tra conquiste e tentativi di backlash, sembra stare cambiando pelle: eppure Memory of Mankind – pur nella sua pregevole, impeccabile confezione sartoriale – non evita le ambiguità dell’attivismo. Ecco che l’archeologo queer – nel rammentare il silenzio con cui le comunità marginalizzate sono state condannate all’oblio dal pensiero eteronormativo, bianco, cisgender – fa menzione della critical fabulation ideata da Saidiya Hartman, la studiosa di cultura afroamericana per la quale la fiction può e deve accompagnare i fatti, e la narrazione originale sopperire ai vuoti della testimonianza storica. Lo storytelling, in questo senso, assume un valore politico: di fronte alle migliaia di vite di schiavi neri cancellate e omesse dagli annali e dagli archivi, inventare vicende e percorsi biografici – plausibili, ma non verificati né verificabili – corregge le omissioni e le censure di cui è costellata la storia ufficiale. È un atto che restituisce dignità agli oppressi, che lenisce il dolore di una damnatio memoriae volta a distruggere un patrimonio di saperi da trasmettere – come avvenuto tra Reeder e l’archeologo queer – tra una generazione e l’altra, così da restituire forma e sostanza a un’identità collettiva e comunitaria. Ma su quanto la critical fabulation sia distante dagli alternative facts e dalla post-truth di cui anche il neo-insediato presidente Donald Trump ha saputo capitalizzare gli imprevisti esiti, Memory of Mankind non indugia: tanto da poterci domandare cosa si stia edificando, accanto a noi, mentre decostruiamo un edificio di saperi non più in grado di raccontarci.
Le fotografie sono di Masiar Pasquali.