Fabrizio Sinisi: scrivere teatro
Una volta le stagioni teatrali erano piene di Shakespeare, Molière, Ibsen, Čechov, Pirandello, spesso allestiti integralmente, lunghissimi. Se la regia non riusciva a calamitare l’attenzione con invenzioni geniali, se gli attori e le attrici non erano capaci di affascinare, quegli spettacoli risultavano una condanna inflitta a studenti di scuole di ogni ordine e grado. Oggi capita sempre più spesso di vedere a teatro classici adattati, tagliati, “contaminati” con testi differenti, per avvicinarli a una misura temporale più adatta ai tempi di attenzione odierni. Gira, per esempio, il Don Giovanni di Arturo Cirillo che fonde il libretto di Da Ponte per Mozart con il testo rappresentato da Molière nel 1665. Al contrario che in altri spettacoli dell’artista campano, che ci aveva regalato di recente un Cyrano virato verso i luccichii del musical, l’innesto non apre, come forse avrebbe voluto, panorami sorprendenti: le parole di Da Ponte sono ingombrate troppo dall’assenza del canto di Mozart, capace di suggerire profondità che i soli versi del libretto non danno; le musiche del salisburghese sono evocate da pallide rielaborazioni di sottofondo. Peccato, perché poi le parti di Molière mostrano tutta l’abilità degli artisti della compagnia, portando in quelle atmosfere corrusche tanto care, con il sorriso urticante, all’autore francese nell’ultima parte della sua vita. Questo della riduzione sembra un espediente per sveltire la storia, per riportare il classico a una misura più adatta alla nostra percezione accelerata dall’uso e abuso dei media. Parallelamente un numero minore di teatri e compagnie rischia su testi nuovi, di autrici e autori italiani o stranieri viventi.
Ne abbiamo parlato con Fabrizio Sinisi, un drammaturgo che pratica sia la scrittura originale per il teatro che la riscrittura (e la traduzione).
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Fabrizio, partiamo con una premessa. Come sei arrivato a scrivere per il teatro?
Per caso. Ho incontrato la compagnia Lombardi-Tiezzi a Bari, durante la tournée di Passaggio in India. Avevo vent’anni, frequentavo una laurea triennale in lettere. Vengo da una famiglia di operai di Barletta, sono cresciuto in una casa dove non c’era neanche un libro, non avevo mai avuto punti di riferimento culturale al di fuori della scuola. Di teatro non sapevo niente. Fu una rivelazione. Ho mostrato a Sandro e a Federico le cose che andavo scrivendo in quegli anni: poesie, racconti, dialoghi. Devono averci trovato del buono, visto che è iniziata una collaborazione che continua tuttora. Lavorando con loro ho capito come la letteratura non solo può c’entrare con il teatro, ma ne è una condizione indispensabile; mi hanno aiutato a definire una voce. Insomma ho avuto la fortuna di aver avuto dei maestri; se non li avessi incontrati forse neanche farei questo mestiere.
Abbiamo visto in questi anni molte tue riscritture e traduzioni di classici: con la compagnia Lombardi-Tiezzi e per spettacoli con la regia di Federico Tiezzi (da Freud e l’interpretazione dei sogni di Massini a Faust), dai greci (Medea per Teatro dei Borgia, Agamennone con Paolo Graziosi), con Valter Malosti (Shakespeare/Sonetti, Molière/Misantropo); con Andrea De Rosa (Giulio Cesare. Uccidere il tiranno, Edipo re, Orlando). Hai scritto testi basati su documenti, come Processo Galileo (con Angela Demattè) e Demoni (per la regia di Claudio Autelli). Hai prodotto testi tuoi, come La grande passeggiata, Guerra santa, Natura morta con attori, Favola, La gloria, Black Star; per ultimo Casanova, che debutterà a Lugano prossimamente con la regia di Fabio Condemi. Che differenze ci sono nel lavoro per un adattamento o per un testo creativo?
Sotto un aspetto puramente artistico, le differenze non sono così tante. Un autore – se è un autore vero, dotato di una lingua e di un’idea di mondo – è sempre capace di dimostrarlo sul campo, che si tratti di scrivere o riscrivere o tradurre. Uno stile è uno stile, ce l’hai o non ce l’hai, se uno è un autore questo viene fuori qualunque cosa faccia. È evidente poi che scrivere un testo completamente originale può risultare per certi versi più appagante: mentre la riscrittura permette di presentarsi in scena tutelati dall’autorevolezza del classico, con una scrittura ex-novo si è soli, senza appigli né protezioni, come equilibristi senza rete; ed è ovviamente una verifica molto più stringente sul fatto che si abbia o meno qualcosa da dire. Ma lavorare con un classico, dentro un classico, per riscriverlo, riprogrammarlo o anche ‘solo’ tradurlo può essere entusiasmante come scrivere un testo originale. Poi, è inutile negarlo, in un sistema teatrale come quello italiano le due opzioni non sono uguali: per il classico c’è una domanda, un mercato, una distribuzione; per il testo nuovo, la circuitazione è estremamente più difficile. È il contrario di quanto accade all’estero, dove invece vengono tradotti e circuitano solo i miei testi originali, mentre riscritture e adattamenti vengono visti con meno interesse.
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L’impressione è che oggi nel teatro circolino più adattamenti, soprattutto di classici, che nuovi testi. Se è vero, come mai? Perché le compagnie e i teatri chiedono riscritture?
È una convinzione diffusa, soprattutto fra gli operatori, che il pubblico preferisca i classici; una convinzione che, forse anche per pigrizia e mancanza di rischio, ha finito col diventare una convenzione, spesso ormai ampiamente superata dalla realtà: molti operatori infatti non sembrano essersi accorti che le operazioni teatrali di maggior successo di pubblico negli ultimi anni sono basate su testi originali, mentre il sistema continua a pensarsi viceversa quasi solo come un teatro di tradizione. Un’altra questione problematica è il modo con cui spesso nascono i progetti teatrali: ovvero, quasi sempre, partendo esclusivamente da un regista. Nella maggior parte dei teatri europei il processo è inverso: si selezionano o si commissionano dei testi che si vuole mettere in scena, e solo a partire da quelli si interpellano i registi. Io non ho niente contro i registi, amo il loro lavoro, ma non si può pretendere che facciano tutto. Che li si chiami dramaturg, come in Germania, o collettivi artistici come in Gran Bretagna e in Francia, sarebbe necessario che ogni teatro stabile si dotasse di un meccanismo di connessione fra la scelta dei testi e la produzione teatrale vera e propria. Non credo sia un caso che alcune operazioni vincenti negli ultimi anni siano stati portate avanti da compagnie: collettivi che, prima ancora che realizzare spettacoli, fanno un indispensabile lavoro di ricerca, ottemperando spesso a mancanze che a volte – per un motivo o per un altro – i teatri non riescono a colmare, compresa appunto la lettura e la ricerca delle nuove drammaturgie.
E il pubblico?
Io sono convinto che spesso il pubblico preferisca i nuovi testi rispetto ai classici. Solo che spesso non lo sa. Lo scopre quelle volte, purtroppo non così frequenti, che la programmazione di un teatro gli fa incontrare un bel testo. Bisogna quindi lavorare e investire sulla comunicazione, invertendo l’ordine delle priorità. Il pubblico percepisce benissimo quando un teatro non crede pienamente in un progetto, quando lo confina nella riserva indiana di una rassegna, quando gli concede risorse limitate, quando lo tratta come una pratica ministeriale da assolvere ma non necessariamente da mettere a sistema. Ma vediamo invece che quando un lavoro di scrittura contemporanea viene comunicato bene, il pubblico risponde con entusiasmo: Anatomia di un suicidio, La ferocia, Come gli uccelli, L’Empireo, Con la carabina, sono solo pochi esempi fra tanti di testi nuovi che hanno ottenuto il riconoscimento della critica e nel contempo la risposta partecipe del pubblico. I nostri registi più affermati e gli attori di fama potrebbero trarre vantaggio da questo rivolgimento, sostenendo con la propria presenza le nuove scritture. Ovviamente, bisogna saper selezionare i testi: non tutto quello che è nuovo è anche bello. Ma la strada c’è, bisogna avere il coraggio e la voglia di percorrerla.
Cosa vuol dire questo per la nostra nuova drammaturgia?
Si corre il rischio di perdere la cosa più importante per una forma d’arte: la capacità di elaborare linguaggi e strumenti per il presente. Questa carenza di nuovi testi è davvero colpa degli autori – come sostengono molti registi – o è forse anche il sintomo di un sistema teatrale problematico, spesso incapace di abitare il nostro tempo? C’è una dichiarazione di Koltès che riporto spesso quando si parla di questo tema: “Un regista si crede eroico se mette in scena un autore di oggi fra sei Shakespeare o Čechov o Marivaux o Brecht. Non è vero che autori di cento, duecento o trecento anni fa raccontino storie di oggi; si possono certo fare paralleli; ma, no, non mi si farà credere che le storie d’amore di Lisetta e Arlecchino siano attuali. Cosa si penserebbe di un autore che si mettesse a scrivere, oggi, storie di paggi e di contesse in castelli settecenteschi? Sono il primo ad ammirare Čechov, Shakespeare, Marivaux e a cercare di imparare da loro. Ma, anche se la nostra epoca non annovera autori di questa grandezza, penso che sia meglio portare in scena un autore contemporaneo, con tutti i suoi difetti, che dieci Shakespeare. Nessuno, e men che meno un regista, ha il diritto di dire che non ci sono autori. Certo, non se ne conoscono, perché non vengono portati in scena, e perché oggi è considerata una fortuna incredibile essere rappresentati in buone condizioni; mentre invece è il minimo. Come volete che gli autori migliorino se non si chiede loro niente e se non si cerca di trarre il meglio da quello che fanno?
Sia Edipo che Orlando ‘semplificano’ storie complesse. Nel primo caso tutto avviene molto più in fretta che nell’originale ed Edipo è mostrato già all’inizio come roso dai dubbi e non come il tyrannos sicuro di sé, quello che ha salvato Tebe dalla sfinge, il re mago di Sofocle che pensa di poter ancora purificare la propria terra dalla peste, e che invece si scoprirà essere il capro espiatorio da scacciare per scongiurare il flagello che sulla patria si è abbattuto per il suo proprio peccato. Nel recentissimo Orlando tutta la storia è incentrata e raccontata da un solo personaggio, quello principale, Orlando, sfrondando fatti e personaggi. Sono tue scelte o entrano, in queste scelte, le visioni, le richieste, dei registi? In quale misura?
Sia Edipo che Orlando sono lavori che ho fatto insieme ad Andrea De Rosa, un regista con cui collaboro da anni e con cui c’è una sintonia profonda e una gestione comune di tutto il processo creativo. Gli spettacoli che facciamo insieme hanno la pretesa di sviluppare non un racconto, bensì una questione, spesso un singolo interrogativo filosofico. Costruiamo lo spettacolo intorno a questo centro tematico e lo sviluppiamo fino all’estremo, sacrificando tutto il resto in nome della pronuncia radicale – a volte maniacale – di un solo postulato. In Edipo Re questo centro è il problema della verità: la verità che ci è evidente, che è davanti ai nostri occhi fin dall’inizio, e che tuttavia facciamo di tutto per non vedere. In Orlando è l’uso della letteratura come forma d’amore, in cui il romanzo stesso di Virginia Woolf – interpolato con brani di lettere all’amata Vita Sackville-West – diventa una parabola su come la parola letteraria ha il potere abbattere i confini tra i tempi, i sessi, le identità costruite.
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Il tuo, comunque, sia nelle riscritture sia nei testi originali, è uno stile denso, acuminato, sorprendente, che usa spesso i versi per scavare nel reale, nel magma che ci circonda, o nelle distanze del mito. Quali sono i tuoi modelli, se ne hai? Quali i problemi che ti poni? Come lo stile “Sinisi” dà impronte particolari alle storie che tratti?
Non so se la mia sia un’impronta particolare; la sola cosa che forse sento come mio specifico è una attenzione quasi ossessiva alla forza primaria del linguaggio. Non credo, come si dice a volte, che lo stile sia una cosa e il contenuto un’altra; credo anzi che il linguaggio sia la sola possibilità per ogni contenuto, la sola e più estrema verifica: per me il linguaggio è, semplicemente, tutto. Scrivo ogni testo come se fosse una partitura musicale, il linguaggio per me è uno spartito da cui far emergere i suoni delle cose profonde, urgenti, oscure. Senza un linguaggio capace di raggiungere una determinata temperatura e una determinata potenza, non c’è tema o racconto che tenga. Credo nel teatro come rito laico di conoscenza: in quel qualcosa di magico, di arcaico, anche di violento che c’è nel corpo di un attore che si fa cassa di risonanza di una comunità. Si può dire insomma che provo a fare “teatro di poesia”, intendendo però per poesia non necessariamente un testo scritto in versi, ma un linguaggio che si fa carico di tentativi estremi: sconfinamenti, rotture, sperdutezze. Oggi, in un’epoca di svilimento della parola e mortificazione della comunicazione, penso che questo per uno scrittore sia il compito più importante.
L’ultima immagine è un ritratto di Fabrizio Sinisi.
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