Zorro al Piccolo Teatro

31 Gennaio 2025

Ci sono il Povero e il Poliziotto, il Cavallo e il Muto. Una ciotola per chiedere l’elemosina, ma dorata, un manganello (dorato), una sella (dorata), un dorato megafono. Lui non appare mai, ma quando si nomina la parola ‘segno’, il segno di Zorro, l’azione si interrompe, il palco viene invaso dal fumo, uno degli attori imbraccia una chitarra elettrica e canta, gli altri scompaiono e poi riappaiono mutando ruolo nella scena seguente. Chi faceva il Povero fa il Cavallo o il Muto o il Poliziotto, e così via. Antonio Latella, il regista, e Federico Bellini, il drammaturgo, hanno chiamato ognuno di questi quadri “Quadriglia”, ispirandosi al ballo in cui i ballerini cambiano partner, con la suggestione che con la Quadriglia in Francia si raccoglieva denaro per i poveri.

Di povertà tratta Zorro, in scena al Piccolo Teatro “Grassi” di Milano fino al 16 febbraio, della nostra società opulenta che vede un numero sempre crescente di persone ridotte ai livelli minimi di sussistenza, migranti adibiti alle mansioni più umili, homeless ma anche borghesi che non ce la fanno più ad arrivare alla fine del mese e, magari dopo un divorzio, sono costretti a vivere in auto o comunque ai margini dell’abbuffata sociale. È uno spettacolo che ha un particolare senso nella capitale economica d’Italia, la Milano di nuovo “da bere”, dove dietro le vetrine luccicanti un bel numero di individui fatica a sopravvivere.

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Ma non pensiate a uno spettacolo banalmente politico o sociologico. I colori della scena di Annelisa Zaccheria, con un cactus e una cabina per le foto dai toni netti, squillanti, un luogo che ingoia gli attori, che rispuntano, cambiando personaggio, da una botola; le luci di Simone De Angelis, in vari momenti da concerto rock; i costumi coloratissimi, sontuosi, pieni di lustrini e con grandi mantelli che vagamente ricordano lo Zorro dei film, sono decisamente pop. I dialoghi spesso rasentano l’assurdo beckettiano e l’autore irlandese è esplicitamente citato in vari passaggi, per esempio con la frase: “non esiste nulla di più comico dell’infelicità”. Siamo tra Beckett, appunto, e Ken Loach, con un pensiero a Brecht e agli zanni affamati della Commedia dell’arte, con riflessioni sulla convenzione, sulla maschera che cela l’identità e la moltiplica, in una struttura drammaturgica che procede per accumulo, analisi, destrutturazione, come un saggio di Roland Barthes reso palpitante dall’umorismo e dal ritmo teatrale, dai corpi, da salti nel paradosso, da scontri che ci portano fuori dal palcoscenico, verso quella “realtà” che poco sappiamo (capiamo) cos’è e che rifulge più chiaramente illuminata dalla finzione scenica, moltiplicata nel gioco e, così, precisamente focalizzata.

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Latella e Bellini firmano insieme questo lavoro, che costituisce un dittico con Wonder Woman, storia di uno stupro, di una sentenza di assoluzione degli stupratori e di ribellione delle donne (quattro donne sono le interpreti, come in Zorro sono quattro uomini). Il regista disegna nuovi territori per la regia attraverso la scrittura, continuando nella ricerca autoriale sui supereroi, vendicatori di una realtà spesso avvilente, proiezioni fantastiche di un’idea di giustizia inattingibile. Col drammaturgo, in compenetrazione di ruoli, fornisce agli attori – splendidi, efficacissimi, coinvolti nella creazione – materiali che possono essere variati, in un gioco teatrale che quando trasmette idee forti, contenuti, subito li vivifica con un gioco che guarda anche al musical, un musical molto più serio e anche divertente della pluricandidata all’Oscar Emilia Perez. Là siamo nel melò più puro, nella giustapposizione di generi cinematografici diversi; qui la tensione etica è più trasparente: la musica e i mascheramenti aiutano a scavare ancora più a fondo nel caos del reale.

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Isacco Venturini, con un ciuffo rockabilly, in cima a una piccola scalinata carica di lumini, impugnando una chitarra elettrica attacca con una vecchia canzone dei Corvi, “Sono un ragazzo di strada”. E ogni volta che viene nominata la parola “segno” ci precipita in diverse atmosfere musicali, intimiste, riflessive, battagliere, per chiudere la storia con uno straziante blues, come una ricapitolazione dei dolori, delle malinconie, di una condizione drammatica. Ma tra una canzone e l’altra è eccezionale l’ironia di questo balletto di scambi di posizioni, di personaggi, a mostrare un mondo fluido.

La prima scena è un dialogo tra il Povero e il Polizotto sulla lingua, sui pronomi, su chi sia “io”, chi il “lei” del pronome di cortesia, chi “noi”, di quali “noi” si tratti. La povertà, come il teatro, è anche un fatto linguistico, che con il suo indicibile e il suo continuamente rimosso mette in crisi le nostre categorie verbali come i nostri stereotipi, la voglia di uniformare, di racchiudere in uniforme. Il povero non è solo quello che puzza, mal vestito: ci sono poveri che leggono libri di filosofia, o la Bibbia, poveri sapienti che mettono in discussione le nostre certezze e alla prova le nostre reazioni indifferenti o ipocritamente caritatevoli. Quell’altra povertà, quella di linguaggio e di visione, è un vero e proprio crimine

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L’idea dello spettacolo, rivela Latella, nacque vedendo a Bologna, all’uscita dal teatro Arena del Sole, due clochard travestiti da Zorro, che ne intonavano la canzoncina televisiva.

Nelle altre Quadriglie il poliziotto continua a chiedere i documenti, e le reazioni dei differenti Poveri sono diverse: c’è quello che apre il costume e mostra il corpo nudo, e il sesso, con incursioni davanti a signore del pubblico, reclamando come documento la propria identità fisica. Alla richiesta se è comunitario, risponde che i poveri non hanno cittadinanza, smontando subito la risposta data asserendo di essersela cavata con una battuta enfatica. Si scatena il ballo. Si parla di convenzioni, “necessarie per dare veridicità a quello che siamo anche se non lo siamo”, rovesciando in continuazione la prospettiva, la pretesa di verità. Filosofia di strada, di esperienza (e di teatro), contro il potere? Si torna a parlare di coercizione in strutture protette, di morti per il freddo, di lusso, quello dei ricchi, di supereroi che spesso sono ricchi, delle pistole di chi si sente minacciato  dalla differenza e spara troppo facilmente.

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I fili si moltiplicano, si intrecciano, in un gioco dell’intelligenza ricco di colpi di scena teatrali. Gli spettatori ridono. Si parla di sovraffollamento delle carceri, di distruzione delle culture altre, di indios sterminati o oppressi, di bambini migranti morti in mare o nei carrelli degli aerei per il gelo, di Alejandro de la Vega, Zorro, la Volpe, il vendicatore. E del suo marchio, del suo segno, la Z: “I poveri hanno creduto che una Z potesse purificarli per sempre dalla merda umana. Che cazzo di convenzione l’ultima lettera dell’alfabeto”, la Z di Zorro, della Generazione Z, la lettera che era segnata sui carrarmati che hanno invaso l’Ucraina.

Fumi e paillettes. È un grande gioco teatrale, questo, con domande da strada se sia nato prima il ricco o il povero, l’uovo o la gallina, di lezioni bibliche sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci e considerazione su come ‘pecunia’ derivi da pecus, bestiame, dal possesso delle greggi, con interventi del cavallo, il guizzante cavallo della Volpe (Zorro), reso da un attore che indossa sulla schiena la sella, con insidiose questioni poste dal Poliziotto, il sergente García, e interventi rantolanti al megafono del Muto.

Tutto luccica, gli attrezzi di scena sono dorati, come genettiani travestimenti della miseria e del crimine in mitiche proiezioni. Tutto rivendica la propria (fittizia, teatrale) identità: il cactus, chiamato carciofo, si ribella e inizia a vorticare ripetendo: “Non sono un carciofo, sono un cactus”. I poveri urlano, si ribellano alle etichette, e fanno notare che i loro vendicatori sono ricchi travestiti.

Ecco, un elenco di supereroi è la sesta Quadriglia, che apre la porta alla settima: uno degli attori, Giovannucci, esce dal solito box per le foto, stanza della riproduzione del volto, quindi dei misteri, delle sparizioni e delle apparizioni. Questa volta ha un costume nero, con le losanghe delle “pezzette” arlecchinesche pure nere. Si disegna il viso di nero, evocando la mascherina di Zorro, o dello Zanni. Riprendendo il ronzio che si ascoltava nell’aria, zzz, acchiappa al volo la mosca e la mangia, come in un famoso lazzo dell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, e si slancia in un lungo, martellante catalogo:

Diventare lo spettatore della propria vita per sfuggire alla sofferenza della vita stessa. Che pensiero profondo (ruttano). Eroi al vostro servizio. Noi siamo Z. (la z starà alla fine di ogni frase). Siamo commediaz. Siamo tragediaz. Siamo a braccioz. Siamo improvvisatiz. Siamo un canovaccioz. Siamo uno scherzoz. Un lazzoz. Un infinito spassoz. Siamo una monetinaz. Una tendaz. Un sacco a peloz. Un carrelloz. Un carrello della spesa con dentro la mia casaz, i miei libriz. Esistiamoz. Siamoz. Siamo inutiliz. Miserabiliz. Siamo dannosiz. Siamo senzatettoz […]

E via ancora, a lungo, Zanni, Zorro segni Z: buffoni che cercano di smontare le convenzioni di quel paradosso sociale che è l’identità, di quella maschera liberticida, che rinchiude, toglie respiro, costringe, imprigiona, immiserisce.

Ecco, in questo Zorro si respira aria di desiderio di libertà, sociale, umana, teatrale. Tra Beckett, Ken Loach e un tipo di musical sfolgorante e pensoso, luminoso perché pieno di ombre, di punti oscuri, dove abbeverarsi, perdersi, in cerca di chiarità. Con attori strepitosi: Michele Andrei, mobilissimo performer, ammiccante, sfidante, entusiasmante; Paolo Giovannucci, solido, incalzante, provocatore; Stefano Laguni, ragionatore, capace di sfumature fini; Isacco Venturini, folle, elettrico, bravissimo con le sue canzoni, una sorta di filo rosso malinconico e galvanizzante, con il suono di Franco Visioli, grande maestro di paesaggi sonori.

Le fotografie sono di Masiar Pasquali, courtesy Piccolo Teatro di Milano.

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