L’Argentina dei desaparecidos al Piccolo Teatro
“Devi essere spietato nei confronti del passato. Perché anche il passato è spietato. Questo organo rudimentale, una sorta di appendice, che può infettarsi col tempo, tira e ti fa male. Se puoi vivere senza, taglialo e vattene via, se no è meglio che te ne stai buono”. È Georgi Gospodinov ad annotare questa riflessione, in una delle prime pagine del suo romanzo Cronorifugio: ha da poco conosciuto – o piuttosto ha inventato? – Gaustìn, un bizzarro gerontopsichiatra promotore di una rivoluzionaria terapia per la malattia di Alzheimer, e si è appena scontrato con l’illusione di poter ricostruire il passato, abitandolo come fosse una stanza. Soprattutto, ha iniziato a comprendere quanta resistenza il mondo di ieri opponga a chi voglia avvicinarsi a esso, a chi con troppa ingenuità pensi di poterlo recuperare intatto, senza comprometterne l’integrità o addirittura restandone vittima.
Come nel romanzo vincitore del premio Strega Europeo nel 2021, e inserito quest’anno nella longlist del prestigioso Booker Prize, anche in Ritratto dell’artista da morto il tempo prende le forme di una stanza, cristallizzandosi negli arredi che la abitano: una libreria, fogli di giornale, bicchieri. La vediamo ancora in costruzione, quando entriamo nella sala del Piccolo Teatro Studio Melato: i tecnici la stanno edificando sotto il nostro sguardo, sistemando volumi dai dorsi colorati sugli scaffali, o alzando pareti di compensato. Posizionate ovunque, alcune casse di legno sembrano poter celare altri oggetti, altri ricordi; Michele Riondino – voce e corpo della creazione scritta e diretta da Davide Carnevali – si distrae dall’acribia del montaggio accennando qualche accordo a una chitarra, volgendo le spalle alla platea che a poco a poco si si sta riempiendo di altri volti, altri ricordi. Solo pochi minuti di attesa ci separano dal fluire del racconto, eppure è proprio in questo incipit artigianale, in questa primaria volontà di mostrare il teatro nel suo farsi quotidiano e fisico, che sembra condensarsi una delle cifre del lavoro.
Patti finzionali e realtà, verità storica e invenzione, biografia e affabulazione: tutto si sovrappone e si confonde, nella drammaturgia che l’autore milanese, da quest’anno artista associato al Piccolo, ha messo in scena per la prima volta alla Staatsoper Unter Den Linden di Berlino nel 2018, e che oggi trova, nella sua versione italiana, una traduzione e un necessario tradimento. Lo dimostra il sottotitolo, che dall’originario (Germania ’41 - Argentina ’78) è qui reso in (Italia ’41 - Argentina ’78); lo prevedono le note dell’autore, che invitano ad adattare al contesto nomi e luoghi “nel momento in cui l’opera sia messa in scena sotto altre condizioni”; lo rivela Riondino quando, sistemata la chitarra in una delle casse ancora aperte, si avvicina al pubblico e inizia a raccontare quella che afferma essere anche la sua storia. L’attore prende tempo e spazio, dilatando il breve prologo che Carnevali aveva scritto per Daniele Pintaudi, protagonista della messinscena originale: si presenta, fa ironia sugli spettatori che lo conoscono soprattutto per Il giovane Montalbano, rammenta con un moto d’orgoglio di essere anche un dissidente, un attivista che ha lottato per la propria città, Taranto, martoriata dall’Ilva e dalle istituzioni. Proprio questa esperienza gli ha permesso di comprendere come “legge” non sia sinonimo di “giustizia”: una verità ovvia e dolorosa, certo, ma in grado di costituire l’esergo della vicenda, giudiziaria e politica, che costituisce l’ossatura narrativa della pièce.
Come Gospodinov, anche Michele Riondino si trova faccia a faccia con il passato per colpa di una lettera: ad avergliela spedita è il Ministero de Justicia y Derechos Humanos di Buenos Aires, per informarlo del procedimento che coinvolge un appartamento di proprietà di tale Juan Carlos Rondino, del quale risulta essere l’unico erede in vita. L’appartamento sarebbe stato espropriato a Luca Misiti, scomparso – o meglio, desaparecido – nel 1978, nelle stesse ore in cui l’Italia batteva l’Argentina al Campionato mondiale di calcio, e Riondino immagina di essere stato concepito. Coincidenze, rispecchiamenti, e un passato concreto di calce e mattoni che si rivela intimo ed esistenziale: è da qui che la scrittura di Carnevali dispiega una quête storica e storiografica, ma soprattutto un’indagine sull’essenza stessa del racconto, una “passeggiata nei boschi narrativi” che sembra sottoporre a una nuova torsione alcuni tòpoi classici – la proprietà ereditata da un parente sconosciuto, il doppio, il fantasma, e con essi molta letteratura di genere, dal giallo al poliziesco – piegandoli a una dimensione civile e misurandone il precipitato teatrale.
E Riondino – autore di una performance rigorosa e asciutta, ma di intensa empatia – è il narratore onnisciente e l’agente performativo di un dispositivo che sembra finalmente slegare le tecniche dell’autofinzione da qualsiasi ossessione identitaria, da quel gusto che è apparso in troppe occasioni ombelicale, dispiegandole come medium per un’esplorazione politica. Molte soluzioni ormai abituali nel teatro contemporaneo – il ricorso alle maquette, le riprese live di dettagli del volto, l’utilizzo della videocamere a mano, le ricerche sul web proiettate su uno schermo – sembrano acquisire una nuova forza civile e civica.
Il viaggio a Buenos Aires ripercorso dalla voce di Riondino, e condiviso con lo stesso Carnevali in cerca di materiale per il suo prossimo spettacolo, si rivela infatti sia un’immersione nel passato argentino e nella violenza della dittatura, con i suoi centri di detenzione clandestina e i suoi voli della morte, sia un inaspettato incontro con un tempo più remoto e una geografia più vicina: quelli dell’Italia del 1941, del fascismo e delle leggi razziali. La scoperta di un’ulteriore scomparsa – quella di Giacomo Schmit, oscuro compositore del quale Misiti avrebbe voluto eseguire la partitura Da morto, a sua volta collage di brani di alcuni autori deceduti nel primo conflitto mondiale – è al contempo tanto una mise en abyme che illumina la drammatica ricorsività della Storia, quanto la scaturigine di inesausti interrogativi etici e deontologici.
Lungi dall’adesione acritica a qualsiasi volontà di sottrazione all’oblio, agli ormai consueti, e invero sacrosanti, processi volti a dare un nome e una storia agli oppressi, ai “sommersi” e ai “salvati” di ieri come di oggi – si pensi alle straordinarie, e commoventi, indagini che studiosi e studiose di tutto il mondo hanno compiuto e compiono tuttora sulle biografie delle vittime della Shoah, dei processi migratori, dello schiavismo, degli istituti penitenziari o manicomiali – Carnevali strappa il velo di ingenuo entusiasmo con il quale ci avviciniamo e ci appropriamo di vite lontane, squadernandone i traumi e i rimossi. Ecco che Riondino, stringendo in mano gli spartiti di Misiti, si domanda se l’uomo avrebbe poi voluto che la sua musica fosse suonata nel modo in cui noi la potremmo suonare, ed ecco tutti noi chiederci se l’artista possa parlare per bocca di altri, e soprattutto se le parole, questo mero flatus vocis, possano restituire un senso – rendere giustizia, ben oltre la legge – allo scandalo della Storia e alle esistenze che l’hanno attraversata. Il racconto giallo rivela, a poco a poco, la sua chiave interpretativa, il codice segreto in grado di aprirlo a nuove prospettive: non l’orrore del secolo scorso sembra essere l’oggetto primario di Ritratto dell’artista da morto, ma i limiti e le possibilità del linguaggio, dell’arte tutta, di esprimere la realtà nelle sue pieghe più abissali, in quell’insensato e amaro dolore che la contraddistingue e l’ha costellata lungo i giorni e gli anni.
Già Antonia S. Byatt, in Possessione, ricordava al lettore quanto indagare su altre epoche e altri artisti possa confondere lo studioso, illudendolo di poter possedere le biografie dei soggetti della propria ricerca: ma suggeriva altresì come quell’immersione in vite irrimediabilmente perdute rischiasse di gettare fuori asse il nostro stesso baricentro identitario, avvicinandoci pericolosamente ad altre temperature emotive, a sogni e desideri sconosciuti. Ritratto dell’artista da morto sembra oggi mettere in scena una possibile declinazione di questa stessa sindrome: Riondino acquisisce progressivamente tic linguistici e posture delle persone – ufficiali di polizia, vittime delle torture, militari ormai invecchiati – incontrate nella capitale argentina, mentre le parole o intere frasi si ripetono in una circolarità che nega qualsiasi attribuzione di autorialità primigenia.
Il corpo dell’attore si veste di una camicia dell’autore, o forse è di Misiti stesso, mentre gestualità e prossemica ricalcano a tratti quella del poliziotto, o chissà, del gerarca, dell’assassino, del torturatore. Lo scavo psicoanalitico, d’altro canto, ha da sempre le caratteristiche del giallo, e individuare il colpevole – sempre che si sia fortunati – è una discesa alle origini, al fondo oscuro, il cui termine è una nuova consapevolezza – o la propria scomparsa. Eppure, proprio quando il mistero di Misiti e Schmit sembra irresolubile, puro campo d’azione per sole fantasticherie; proprio quando l’artista sceglie di sottrarsi allo sguardo che vorrebbe oggettivarlo, e all’uomo che vorrebbe agirlo; proprio quando l’analisi si conferma interminabile, un gesto sembra sciogliere i nodi del tempo, e consentirci, anche solo per brevi momenti, di essere la giustizia.
E se proprio nel finale Ritratto dell’artista da morto sembra indulgere in qualche ammiccamento di troppo – tra direttori di produzione del Piccolo Teatro chiamati per nome, e la lettura di finti comunicati stampa – è però proprio in quello snodo che lo spettacolo prova a farsi tribunale: della storia di Luca Misiti e di Giacomo Schmit, e di tutte le storie che l’ombra del tempo ha tenuto nascoste. Ci alziamo in piedi, giudici e testimoni, per sciogliere un grumo di dolore, e per abitare uno spazio, e un tempo, antichissimo e futuro.
In scena al Piccolo Teatro Studio Melato a Milano fino al 6 aprile. Leggi la locandina qui.
Le foto dello spettacolo sono di Masiar Pasquali.