Licia Lanera allo specchio di Tondelli
Sono poche le battute pronunciate da Licia Lanera in Altri libertini, e pochi i momenti in cui fa convergere su di sé l’attenzione della platea, afferrandoci col suo magnetismo così fisico, così sanguigno. Eppure — lo afferma lei stessa, mentre si avvicina a noi e con un gesto del braccio indica i pochi oggetti che costellano la scena — ciò che stiamo scrutando, dalle file del Piccolo Teatro Studio Melato, è casa sua, e ciò che stiamo ascoltando sono i fatti suoi. Alla sua destra si staglia una vecchia cyclette, eredità della nonna e di quegli anni Ottanta votati all’aerobica e a un fitness domestico; sul fondo, un tavolo da lavoro è quanto rimane di una storia d’amore, al termine della quale — ci rivela Licia — è precipitata in un abisso di dolore. Tutto, su questo palco, racconta di lei, tutto parla di quest’attrice, autrice e regista il cui teatro è innervato della sua biografia, eppure tutto è risemantizzato, tradotto e tradito, come se solo a distanza, nascondendosi dietro parole e corpi altrui — erano le fiabe di The Black’s Tales Tour, era Čechov in Il gabbiano, sono adesso il romanzo a episodi di Tondelli e tre magnifici attori — potesse osservare sé stessa, forse comprendersi. Ecco che una dichiarazione così ambigua — "qui ci sono i fatti miei" — sembra sostenere il baricentro di una drammaturgia prismatica e prospettica, che costantemente scarta dalla direzione ordinaria, dal binario del mero adattamento di un libro celebre e rabbioso, per raccontare un’epoca, la vita di una regista e di un gruppo d’interpreti, e soprattutto ciò che lega tra loro una donna e il teatro. Fatti altrui, ma che — di nuovo una deviazione, un’affermazione tanto vera da risultare implacabile, tanto inesatta da risultare paradossale — "sono anche i nostri".
Altri libertini approda nella sala di via Rivoli dopo il debutto al Romaeuropa Festival, accolto da una serie di sold out che sembrano testimoniare un rinnovato interesse tanto per un autore conteso e amato, quanto per quegli scintillanti e feroci anni Ottanta di cui Pier Vittorio Tondelli raccontò l’altra faccia della medaglia, e nei quali oggi riconosciamo un’età assiale, il tempo cairologico in cui la società e la cultura italiane cambiarono per sempre volto. Italia 1980 è la scritta che campeggia sullo schermo, e sono anche le prime parole che Lanera — indosso un tailleur senape, le maniche tirate sugli avambracci, ai piedi un paio di stivali di cuoio — pronuncia in proscenio, davanti a Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani. Canottiere e mutande bianche, e calzini scesi sulle caviglie, sono invece i pochi accessori che vestono i tre uomini, latori, nell’abbigliamento e nelle pose indolenti, di un’intimità quotidiana e cameratesca, di una grigia apatia — la scoglionatura, direbbe Tondelli — che sfuma in un languore post-adolescenziale, venato di un erotismo svogliato. Per pochi istanti, i tre sono soltanto sé stessi, mentre la voce di Licia incastona piccoli aneddoti relativi alla loro infanzia, in una cronologia che ripercorre gli eventi salienti di quell’anno mitico e fondativo: la pubblicazione di Il nome della rosa, la vittoria a Sanremo di Toto Cutugno, la marcia dei quarantamila, la strage di Bologna, e il successo clamoroso di una sigla televisiva — Disco bambina, incisa da Heather Parisi come brano d’apertura della prima edizione di Fantastico — che invitava a riconoscersi in una "favola, la superfavola". Fin dall’incipit, Lanera affastella politica e costume, accosta il dipanarsi della grande storia all’emergere di una nuova sensibilità, come se in un elenco di fatti così eterogenei — "qui ci sono anche i fatti miei, che sono anche i vostri" — ciascuno potesse ritrovare, tra nostalgia e rimpianto, qualcosa di sé. Ma la lista — postmoderna, come il weekend che dà il titolo alla più celebre collezione di saggi di Tondelli — si interrompe ben presto, per lasciare spazio al farsi del teatro: Lanera si accomoda dietro la scrivania, e invita gli attori a ripetere la propria parte, da pagina a pagina. È a partire da questo momento che, annunciati dai titoli che compaiono sullo schermo, tre racconti di Altri libertini — Viaggio, affidato a Magnani; Autobahn, interpretato da Cupaiuolo; infine quello che dà il titolo al libro, restituito da Giuva — si dipanano in un sofisticato collage dialogico, in un puzzle in cui i singoli pezzi, le dense trame delle novelle si fondono e confondono, si sovrappongono e rifrangono, e come fili di un ordito ricamano lo struggente disegno di un gruppo di anime alla deriva per le strade di un’Emilia livida e notturna, alla ricerca di amore, di fernet, di un po’ di sesso, "perché la vita è davvero vita cioè una porcheria dietro l’altra".
La colta operazione drammaturgica di Lanera evidenzia i numerosi rimandi interni ai racconti — che fanno di Altri libertini un mosaico romanzesco più che una raccolta — e con acume sembra ricavarne altrettanti di natura squisitamente teatrale, individuando quei silenzi, quelle pause narrative durante le quali un testo può innestarsi su un altro, e germogliare in un tessuto di funambolismi verbali, di vertiginosi elenchi, di sparuti e strazianti scampoli di una conversazione. Le storie di Gigi e di Annacarla, del cinematografaro e di Miro si meticciano, sfumano nell’istantanea di un’umanità commovente, il ritratto della fauna "dei freak dei beatnik e degli hippy, delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi, dei cani sciolti, dei froci, delle superchecche e dei filosofi, dei pubblicitari ed eroinomani e poi marchette trojette ruffiani e spacciatori". Quale riflesso mostri oggi lo specchio degli Altri libertini è l’interrogativo che ha mosso Lanera, e intorno al quale lo spettacolo procede, arretra, risponde ora evasivamente per svolte autobiografiche ora coraggiosamente per affondi storici e socioculturali. Così, accanto all’indagine su quale lascito ci abbia consegnato lo scrittore di Correggio, e sul contesto nel quale le sue parole oggi risuonino, sembra imporsi naturale un’altra domanda: di chi è Tondelli? Di noi tossicomani? Di noi omosessuali o sieropositivi? Di noi queer? Oppure di noi cattolici, che ne sottolineiamo un (discusso) ritorno nell’alveo sicuro della religione? Di noi letterati, che ne leggiamo la prosa come fosse un documento storico, una testimonianza, un monumento? O è piuttosto dei mimi e degli istrioni?
Lanera, con intelligenza, non risponde: "qui ci sono i fatti miei". Seduta dietro la scrivania — anch’essa impronta di un tempo differente, e di una vicenda teatrale diversa — si ritaglia il ruolo della spettatrice, e come noi in platea lascia che sul suo volto, sul suo corpo elettrico, traspaiono un dolore ineffabile, o un entusiasmo irrefrenabile. Piange, quando Magnani — perfetto nell’accento, nella postura, nelle sottrazioni con cui lascia emergere sé stesso — ci dona, del protagonista di Viaggio, le parole con cui descrive il tentato suicidio: "tutto dura un attimo perché poi prendo gusto ad abbandonarmi in terra e ascoltare i miei sensi partire e sento la mia voce che dentro dice stai calmo, ora ce l’hai fatta". E sorride, sorride come una bambina quando Giuva — affettato e svagato, impeccabile nella comicità e nella malinconia — delinea i surreali giochi delle coppie, i triangoli, quegli amori e quelle passioni di una notte o di anni interi che permettono agli altri libertini di sostenere l’orrore del mondo. Ed esulta, si agita sulla sedia quando Cupaiuolo — tanto pirotecnico quanto sottile, preciso, acuminato — dice addio per sempre al cinematografaro di Autobahn e si lancia in un indimenticabile indice dei protagonisti di questi "scassati e tribolati anni miei". È amore, nient’altro che amore per i suoi attori e suoi personaggi, quello che Licia lascia dilagare mentre è in scena, non più come spettatrice ma come regista, come capocomica che muove i propri interpreti e da loro è mossa, come se soltanto nel rituale del teatro, nell’attraversamento di ricordi e parole altrui, potesse riannodare sé stessa e la propria memoria. Distrattamente, in una delle frequenti interpolazioni biografiche che fioriscono al di sopra delle parole di Tondelli, Lanera affonda, di nuovo e ancora, nella Bari di metà degli anni Ottanta, una Bari che non conosceva il significato della parola brand ma in cui Tadeusz Kantor allestiva La classe morta: ed ecco che la menzione del genio di Wielopole agisce come un felice spettro teatrale, come se quel medesimo desiderio di fare i conti con la Storia e con le storie animando un’intera classe di bambini e fantocci rivivesse qui, nel corpo e nel cuore di una regista pugliese poco più che quarantenne, determinata a individuare il bandolo della propria matassa una sera dopo l’altra, uno spettacolo dopo l’altro, per quell’"incorreggibile intento", chioserebbe Szymborska, "di ricominciare domani da capo". Mai rigidamente autobiografico, mai afferente alla galassia mobile dell’autofiction, il teatro di Lanera ci ha abituato invece a sofisticate esplorazioni nei grandi testi russi — Bulgàkov e Majakovskij, oltre a Čechov — o nella drammaturgia contemporanea — Con la carabina, da un dramma di Pauline Peyrade, vinse due premi Ubu — eppure è da sempre quanto di più vicino a una messa a nudo, a una confessione, a un corpo a corpo con sé stessa e i propri incubi, le proprie paure.
È un teatro carnale, tondelliano perché di sangue e sperma, di sudore e lacrime, di saliva; un teatro fragile, luminoso e trasparente come vetro. Altri libertini è, in questo senso, il lavoro più intimo di Lanera, che trova in Tondelli la leva con la quale scalzare qualsivoglia ritrosia, e lasciare che dal passato emergano fantasmi silenziosi: al di sotto delle parole di Licia e dei suo sguardi, brilla ancora lo splendore burrascoso di Fibre Parallele, la sua prima compagnia, e cristallina è l’onestà con cui Licia fa menzione di un dolore esplosivo, dal quale riuscì a emergere — ce lo confida lei stessa —solo grazie al teatro e ai genitori, Pino e Modesta. I nomi delle madri dei quattro interpreti in scena, insieme a quello della mamma di Tondelli, illuminano lo schermo di Altri libertini, e il racconto delle piccole o grandi disavventure vissute da queste donne e dai loro bambini, negli stessi anni in cui uscivano Pao Pao, Rimini, Camere separate, si riversa nelle pieghe della drammaturgia. Sono diapositive di famiglia scattate in un’Italia lontana, la eco di quel grido di furore e di paura che abbiamo forse gettato un istante prima che al calore della gioventù, dell’alcool scadente, del sesso, si sostituisse il gelo di un immobilismo atroce. Crescono, i giovani uomini di Licia e di Pier Vittorio, e indossano giacche e cravatte, nel tempo di un istante o dei decenni che separano la Bologna del Posto Ristoro e di New Mondina Centroradio dagli anni di fango e del rampantismo. Crescono e indossano lunghi cappotti blu, sciarpe bordeaux, e occhiali dalle grandi lenti tondeggianti: diventano Tondelli, eppure sembrano anche subire un destino avverso e ancipite. Adesso anonimi travet, adesso infelici borghesi, ci domandiamo insieme a loro se davvero vogliamo rigettare "quegli anni sbandati e quel passato".
Lo spettacolo si può vedere ancora al teatro Piccinni di Bari il 23 e il 24 novembre; all’Asioli di Correggio il 13 dicembre e all’Arena del Sole di Bologna il 14 e il 15 dicembre.
Le fotografie sono di Manuela Giusto.