Liv Ferracchiati: uno spettacolo di fantascienza

17 Febbraio 2023

“I am he as you are he as you are me and we are all together”: io, lui, tu, noi, tutti insieme. Si dice che John Lennon abbia composto buona parte di I Am the Walrus sotto l’effetto di LSD, restituendo le visioni e le suggestioni provate durante l’esperienza lisergica; come più volte raccontato, consapevole e cosciente era invece la volontà di sfidare esegeti e interpreti, offrendo loro un testo oscuro e criptico nel quale il gusto per il nonsense potesse raggiungere vette ineguagliate. Lacerti di vita quotidiana si alternano così ad allegorie disturbanti e grottesche, sofisticate costruzioni linguistiche accostano figure sacerdotali e pornografia, riferimenti a Shakespeare e frammenti di cronaca dell’epoca. A dominare questo caos catalogato in strofe, Lennon pone l’immagine del tricheco: la voce narrante si identifica con l’animale, mentre l’ascoltatore del brano si rammenta forse di quel tenero assassino, divoratore di ostriche, che insieme al Carpentiere dà il titolo a uno dei più celebri poemetti di Lewis Carroll.

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Di trichechi, in Uno spettacolo di fantascienza scritto e diretto da Liv Ferracchiati, ce ne sono tanti: piovono dalla graticcia nelle sequenze finali, innocui peluche di dimensioni sensibilmente ridotte rispetto all’originale; vengono menzionati più volte, spesso con la formula “animali tondi”; la loro saggezza è celebrata nel sottotitolo, un ambiguo Quante ne sanno i trichechi. E tuttavia non è soltanto il ricorso a una medesima zoologia, o l’inserimento tra le musiche di scena, a suggerire di accostare l’opera di Lennon alla creazione: quanto, si direbbe, un medesimo tentativo di fronteggiare velleità tassonomiche e pretese ermeneutiche, in un gioco alla destrutturazione logica e scenica, allo smantellamento di supposte abitudini spettatoriali e registiche. Épater la critique, potrebbe essere il motto posto a esergo di questo lavoro, coprodotto da ben quattro realtà nazionali – Marche Teatro, CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Metastasio, Fondazione Teatro di Napoli – e presentato adesso al Teatro Fabbricone di Prato.

Tra riferimenti al teatro postdrammatico – di cui si prendono di mira i precipitati scenografici, o il look omologato delle sue attrici e dei suoi attori – e frequenti a parte comici, la linea drammaturgica è costantemente spezzata da spiritose segnalazioni dei passaggi tra gli stili, o da rapidi commenti sull’assenza di qualsiasi autobiografismo spicciolo. Che il teatro di Ferracchiati sia stato spesso etichettato come mera traduzione scenica di vissuti biografici, o come ennesima variazione sulla melodia dell’autofiction, è invero innegabile: lo è stato con la Trilogia dell’identità, il trittico di creazioni che lo hanno consacrato tra i nuovi protagonisti della scena; è capitato con la sua riscrittura cechoviana in La tragedia è finita, Platonov; è accaduto in occasione del recente confronto con Ibsen nella produzione del Piccolo HEDDA. GABLER. come una pistola carica.

E, ovviamente, ha coinvolto anche la ricezione del suo romanzo d’esordio, quel Sarà solo la fine del mondo edito da Marsilio la cui sinossi si apre con un significativo “questo libro non è un’autobiografia”. Mi fa male l’autofiction, non a caso, si intitolava un laboratorio di drammaturgia condotto da Ferracchiati: a rivelare l’ancipite relazione che l’autore e attore ha con il dispositivo narrativo della scrittura di sé e sul sé, o piuttosto i limiti e le conseguenze subite da una ricezione fin troppo incline a sottolineare le prossimità tra vita vissuta e narrata.

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Sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio: come è scontato che sia, trattandosi di Uno spettacolo di fantascienza, l’opera non è in alcun modo latrice di istanze biografiche o autobiografiche, non più di quanto lo sia qualsiasi creazione letteraria. C’è una coppia in crisi, interpretata da Ferracchiati e Petra Valentini: lei è incinta, o almeno vagheggia una gravidanza; lui sfugge dalle responsabilità, o le abita con un distacco sornione, con quel timore così maschile – in effetti, stereotipicamente maschile – di un impegno troppo grande e troppo esclusivo. I loro dialoghi sono un fuoco di fila di vaghe recriminazioni, di maldestri approcci, di incomprensioni: soprattutto il linguaggio, nella manipolazione compiuta da Ferracchiati, è per essenza equivocabile, incapace a cogliere la realtà per ciò che è.

Ma la loro postura è invece scopertamente parodica, la loro recitazione è tanto efficace quanto posticcia: non c’è alcun afflato da teatro psicologico ad attraversare la creazione, quanto una sua satira, la canzonatura di un genere considerato irrimediabilmente morto. Ed ecco che il fin troppo pirotecnico ricorso a situazioni già viste ed esperite – in un mash-up di stilemi e tópoi sì coltissimo, ma anche manierista – fonde il teatro boulevardier e la commedia americana, Neil Simon e Woody Allen, perfino molta grande drammaturgia di fine Novecento, qui sottoposta alle maglie di un’ironia feroce. C’è qualcosa degli Harper e Joe di Angels in America, nei due protagonisti di Uno spettacolo di fantascienza: come loro bloccati da una quotidianità che li logora, e da un’incomunicabilità che ne compromette i tentativi di avvicinamento; come loro infestati dal fantasma di una gravidanza, e da una madre oppressiva e ossessiva; come loro, infine, separati da un viaggio surreale verso l’Antartide, guidati dall’enigmatica apparizione di un esploratore.

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Colui che nel testo di Kushner è Mister Bugia, membro “dell’Associazione internazionale degli agenti di viaggio”, è adesso un avventuriero vecchio stampo, vivificato da un Andrea Cosentino quasi costantemente appoggiato al parapetto di una rompighiaccio in rotta verso il Polo Sud, la cui stiva, si scopre ben presto, è colma di centinaia di trichechi da salvare dalla catastrofe climatica. Ferracchiati eredita l’immagine della nave in viaggio verso il circolo polare da un progetto, mai realizzato, di Anton Čechov: ma qui – come già in Angels in America, con la sua lirica descrizione del progressivo assottigliamento dell’ozono – l’espediente è lo strumento per introdurre con leggerezza questioni ecologiche, emergenza climatica, l’estinzione delle specie. A sciogliersi insieme ai ghiacciai, in Uno spettacolo di fantascienza, sono però soprattutto le certezze esistenziali, gli ecosistemi identitari fragili quanto e più di quelli globali. L’apparizione onirica di Cosentino vale come leva capace di fare deflagrare dubbi e paure nella coppia: lo spettro di un tradimento, certo, ma anche l’eventualità che a legarci sia una rete di convenzioni più che di fatti, che a dare forma al nostro pensiero sia un alfabeto di consuetudini, di norme rese statiche dall’inamovibilità del tempo e dell’ignavia. 

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È attorno all’identità che, d’altra parte, insiste la pluriennale ricerca di Ferracchiati: alle modalità con cui essa si cristallizza in ruoli, in generi, in espressioni, e ai grimaldelli teorici con cui scassinarla, aprendola a una ridda di nuove combinazioni. Esito dell’edizione 2020/2021 dell’École des Maîtres, condotta da Davide Carnevali e dedicati a drammaturghe e drammaturghi, la creazione costituisce così la nuova tappa di un percorso di decostruzione di qualsiasi binarismo e dei suoi più evidenti segnali – le mitologie e i rituali della femminilità e della maschilità – che sembra tuttavia scalfire soltanto quella superficie di schemi e gabbie, comportamentali e di pensiero, ormai fortunatamente già crepata da un dibattito sempre più ampio e complesso.

Così, quella confessione pronunciata da Cosentino – “sono un maschio, cisgender, etero, abruzzese” – suona quasi come una excusatio non petita, una giustificazione posta a una situazione di privilegio reale e concreta che appare astratta, se non del tutto assente, nell’universo surreale e in fondo rassicurante delineato da Ferracchiati. Non appaiono zone d’ombra, in questo mondo in via di sgretolamento, quanto una serie di tic e coazioni stantie, di filosofemi elementari – la convenzionalità del linguaggio – che non squadernano quei sensi inattesi, quelle contraddizioni in grado da sole di far precipitare sistemi di pensiero e usanze quotidiane. E varrà forse la pena ricordare un’altra Trilogia delle identità, quella firmata da Marcus Lindeen – anch’egli, come Ferracchiati, artista associato al Piccolo Teatro – della quale abbiamo potuto vedere due capitoli durante il festival Presente Indicativo, e che è sembrata illuminare la prismatica, incandescente nozione con toni ora commossi, ora cronachistici.

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E il teatro? Anch’esso, sembra suggerire Ferracchiati con Uno spettacolo di fantascienza, assomiglia più a un polveroso, a tratti ingombrante, reperto di un’epoca tassonomica e accademica, nella quale era sufficiente un cambio di giacca a sancire cosa sia drammatico (e si sospetta: borghese, antiquato, provinciale) e cosa sia invece postdrammatico (e si immagina: à la page, giovanilistico, sfibrato), o che ricorre a oggetti banali, come un divano o due microfoni ad asta, per tradurre con enfasi didascalica un intero orizzonte di senso. Ci si potrebbe domandare quale sia questo teatro così dogmatico e monocromatico, così dicotomico, là dove il panorama delle arti sembra infine costellarsi di un’indefinibile sfumatura di possibilità, e i confini – con buona pace di critiche e critici, di operatrici e operatori – si meticciano in un’indistinta congerie di esiti. Ferracchiati affastella senza soluzioni di continuità soluzioni sceniche, metateatralizza la creazione affidando a Valentini e Cosentino un dialogo sul loro stesso rapporto con l’autore, monologa con attitudine da stand-up comedian: costruisce, di fatto, dispositivi che provvede poi a far deflagrare, in una messinscena di quella stessa estinzione che specie animali, e ataviche convinzioni, subiscono sotto i colpi della nostra provvisorietà. Così è un peluche, dalla dolce voce nonnesca, ad accompagnare lo spettatore verso la conclusione del viaggio, o del mondo tutto: quasi una piccola lezione di sguardo, formulata da una life-coach di pelo e zanne, rivolta a una platea che di questa precarietà ha assaggiato solo una minuscola, dolciastra porzione. 

Le fotografie sono di Luca Del Pia.

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