L’Antico Testamento in scena
“I giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. I giornali mi annoiano, non mi insegnano niente; quello che raccontano […] non mi interroga né tanto meno risponde alle domande che mi pongo o che vorrei porre. Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo? […] Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio? Come parlare di queste ‘cose comuni’ […], come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo”. Così scriveva nel 1973 Georges Perec in un breve intervento ora disponibile in italiano nell’agile libretto L’infra-ordinario (Quodlibet 2023, trad. R. Delbono), e a questo suo invito a “interrogarci sulla provenienza” delle cose e delle nostre azioni e relazioni, sulle motivazioni di certi comportamenti o abitudini divenuti talmente abituali “da averne dimenticata l’origine”, sembra idealmente rispondere lo spettacolo La Trilogia dei Libri. Antico Testamento, messo in scena in prima nazionale alle Fonderie Limone Moncalieri dal 14 al 26 gennaio dal regista Gabriele Vacis e dai PoEM – Potenziali Evocati Multimediali, suoi giovani ex allievi della scuola del Teatro Stabile di Torino. Dopo aver interrogato tre classici del teatro greco con La trilogia della guerra (Prometeo, Sette a Tebe, Antigone e i suoi fratelli), Vacis e i PoEM hanno deciso di confrontarsi con i libri sacri partendo dall’Antico Testamento, a cui seguirà il Nuovo Testamento nel 2026 e il Corano nel 2027.
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Ma come possono gli antichi libri del Vecchio Testamento interessare oggi un gruppo di giovani interpreti poco più che ventenni? Cosa hanno da dire, specie alle nuove generazioni, quelle storie di creazione e di patriarchi? Come, perché interrogarle e, eventualmente, restituirle in scena? Forse perché, con Perec, tornare a interrogare le origini aiuta a dare senso all’oggi; forse perché quel grande codice della cultura occidentale che è la Bibbia costituisce un enorme repertorio di archetipi e miti che continuano a riverberare nella contemporaneità, una specie di grembo sempre gravido di narrazioni che tornano ad essere vive nel momento in cui si rileggono. La Bibbia è un testo inquieto, non unico e definito una volta per tutte ma in continuo movimento, una sorta di biblioteca di testi formatasi nel corso dei secoli con diversi autori, diverse comunità che hanno considerato sacri quei libri, diversi canoni, diverse lingue. Un testo composito, e forse per questo molto simile a noi, e molteplice già dalle sue origini, con più versioni originali che sono il frutto di una lunga serie di traduzioni, riscritture e interpretazioni (ricostruite puntualmente da Stefano Arduini in Traduzioni in cerca di un originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021).
Libro pieno di altri libri, ibrido e plurale, già dal primo racconto della creazione la Bibbia parla di strappi, di allontanamenti e separazioni: della luce dalle tenebre, del cielo dalla terra, delle acque dalla terraferma, del bene dal male, di padri e madri dai figli; e poi di madri in prestito (la schiava Agar che giace con Abramo per dargli il figlio Ismaele), di figli adottivi (Mosè), di migranti in viaggio dopo aver lasciato le loro terre, come Abramo “forestiero e di passaggio” (Genesi 23,4) e lo stesso Mosè.
Gabriele Vacis ha riletto con i suoi attori quei libri e, come un demiurgo, ne ha estratto alcune domande che li riguardavano direttamente: “Qual è la separazione più dolorosa che hai vissuto?”, oppure “Quando sei stato nell’Eden?”, oppure “quando hai affrontato una migrazione?”. Le risposte degli attori a queste domande non dovevano essere opinioni superficiali o esegesi dilettantesche, ma testimonianze e storie personali. Queste storie, liberamente intrecciate con il dettato biblico e con un terribile evento di cronaca nera (l’omicidio di Luca Varani nel 2016), hanno infine composto la drammaturgia.
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Lo spettacolo si articola in tre parti: le prime due, più lunghe, dal titolo “Dio” e “Famiglia”, e una terza dal titolo “Patria” che gli attori presentano come un’appendice di circa venti minuti, ma che tanto appendice non è, visto che compendia in modo potente le questioni umane e identitarie sollevate dal testo. Tema dominante è quello della separazione, della migrazione, della divisione, da quella familiare a quella territoriale, sociale e persino individuale nei turbamenti dell’identità.
La prima separazione, della luce dalle tenebre e del bene dal male, coincide con l’atto stesso della creazione del mondo e dell’uomo. Da qui una serie di interrogazioni, di “perché” insistiti e mai soddisfatti, e proprio per questo radicali, che partono dal testo biblico e, attraverso una serie di slittamenti senza soluzione di continuità, approdano ad altri luoghi e ad altri tempi. Perché morirò se mangerò i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male? Cosa rimane dall’altra parte, dopo la divisione, dopo aver messo in ordine le cose? Cosa rimane nell’oscurità? Cosa avrà pensato il giovane Isacco mentre fa ritorno a casa dal monte Moriah dove il padre Abramo lo avrebbe assassinato se non ci fosse stato l’intervento dell’angelo di Dio che ne ha fermato in extremis la mano? Cosa si saranno detti?
Parlano solo per insultarsi Abramo e suo figlio Isacco in questo Antico Testamento; Isacco è insofferente, la famiglia gli sta stretta, il virtuoso di casa è il fratellastro Ismaele, e allora Isacco il suo Eden lo trova in un appartamento cittadino, con i frutti proibiti del sesso e della droga condivisi con l’amico Geremia fino allo sfinimento, fino a dare la fine, atroce, a Gabriele, un ragazzo della loro età. È un racconto di sevizie mortali particolareggiato e feroce, rielaborazione scenica dell’omicidio Varani resa ancora più straziante dalle parole d’amore del Cantico dei Cantici recitate in dissonante contrappunto. Isacco questa volta muore per mano di suo padre che non può perdonargli la sua malvagità, senza nessun angelo che venga a salvarlo.
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Seguono poi altri interrogativi laceranti sulle discendenze e sulle generazioni interrotte per la paura di avere figli, sulle migrazioni forzate, e poi ancora il racconto doloroso di un feto mai nato, che rinuncia a venire al mondo perché “io, da qui, mamma, posso dire che non c’entro coi vostri giorni vuoti, con le vostre paure assurde […], perché ho visto di dove ha origine il male, quel male di cui anch’io sarò capace”, che ricorda quello di Oriana Fallaci ma anche quello del Testori di Factum est.
Le narrazioni degli attori, fatte di innesti e flashback dal sapore cinematografico, si avvicendano in una scena occupata al centro da una grande pedana rotante e popolata in alcuni momenti solo di coltelli, a ricordarci l’origine del male, di esili farfalle monarca di carta, che “quando emigrano sanno esattamente dove vogliono andare”, e dei corpi e delle voci dei dodici attori, che riempiono il teatro e il cuore del pubblico di canti di origini e lingue diverse.
La schiera, peculiare al percorso drammaturgico e pedagogico di Vacis come pratica dell’ascolto e dell’azione, ossia del corpo che si mette in ascolto degli altri corpi per creare azioni comuni, qui diventa anche schiera di canto, respiro comune di una molteplicità di voci che, anche cantando, si prendono cura le une delle altre e che, come gli stormi di Primo Levi cari a Vacis, si esibiscono in evoluzioni stupefacenti.
Nella terza parte, “Patria”, ci sembra di assistere ad una specie di cortometraggio distopico ambientato in un futuro prossimo. Le parole in scena continuano, come nelle prime due parti, a intessersi con i canti, ma ora dialogano dialetticamente, e mirabilmente grazie al sapiente lavoro scenofonico di Roberto Tarasco, anche con immagini proiettate su uno schermo: quelle terribili di migranti morti nel deserto e quelle con i volti e le voci di chi invece ce l’ha fatta e racconta le ragioni che lo hanno spinto al viaggio rischiando la vita. E mentre questi video scorrono, in scena i migranti non sono più Mosè, Myriam, Sara, Ismaele etc…, ma un gruppo di giovani italiani appena sbarcati sulle coste libiche in un viaggio alla rovescia dall’Eden europeo all’inferno africano, che parlano di paure e di sogni negati a molti, e le cui domande scomode – per esempio sul perché alcuni passaporti permettono di entrare quasi ovunque e altri blindano l’ingresso in occidente – si infrangono contro la retorica dominante del discorso politico che si autoalimenta dei soliti slogan pronunciati a turno dagli attori o restituiti da voci fuori campo: “Non possiamo mica dare la cittadinanza a cani e porci”, “Delocalizzazione degli immigrati”, “Aiutiamoli a casa loro!”.
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In chiusura torniamo all’inizio di questo intenso spettacolo, che parte con la rievocazione di una delle storie di separazione più note trasmesse dall’Antico Testamento, il mito di Babele (Genesi 11, 1-9). La torre di Babele, si ricorderà, doveva ergersi fino al cielo, ma è rimasta incompiuta per intervento della divinità che ha voluto punire l’uomo per il suo atto di hýbris e lo ha condannato alla dispersione e alla diversità linguistica. Il mito è restituito dai dodici attori muovendosi fra il pubblico e avvolgendo la sala di una polifonia di parole bibliche, recitate a canone in dodici lingue diverse a partire dall’ebraico. Quella di Babele è una storia di separazione, ma possiamo pensarla anche come una storia di moltiplicazione delle lingue, delle voci e delle identità. E forse è anche questo uno dei motivi per cui leggere e rileggere la Bibbia. Per provare a pensare alla diversità, anche quella causata da Babele, non come maledizione ma come ricchezza, non come condanna, ma come moltiplicazione delle prospettive di comprensione del mondo, come possibilità di incontro, dialogo e confronto con l’altro, come esperienza dello straniero. Un’esperienza sempre incompiuta perché tale è il rapporto dell’individuo con chi è diverso linguisticamente, socialmente, ontologicamente da sé, perché l’incompiutezza è cifra stessa dell’umano.
LA TRILOGIA DEI LIBRI. ANTICO TESTAMENTO
con (in ordine alfabetico): Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Kyara Russo, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera
regia Gabriele Vacis
drammaturgia Gabriele Vacis, Lorenzo Tombesi e Compagnia PoEM
scenofonia e ambienti Roberto Tarasco
suono Riccardo Di Gianni
cori Enrica Rebaudo
assistente regia Erica Nava
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con PoEM Impresa Sociale – Potenziali Evocati Multimediali
Durata: 2h 20’
Visto a Moncalieri (TO), Fonderie Limone, il 19 gennaio 2025
Prima nazionale
Le fotografie sono di Paolo Ranzani.
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