Pollini, la musica non si ferma

27 Aprile 2025

Il 19 dicembre 1972, la prima pagina del Corriere della Sera apriva con la notizia della ripresa dei bombardamenti americani su Hanoi. “Nubi sui negoziati di pace a Parigi per il Vietnam”, annotava l’occhiello del titolo su sei colonne. Quella sera al Conservatorio di Milano era in programma uno dei concerti di punta nella stagione dell’antica e gloriosa Società del Quartetto. Di scena il trentenne Maurizio Pollini, “il pianista più amato dai milanesi”, secondo la definizione dello stesso Corriere, che aveva debuttato alla Scala nel 1958, quando aveva 16 anni, e due anni più tardi aveva vinto il Concorso Chopin di Varsavia, il più importante del mondo. Letto oggi, il programma del recital appare affascinante e a suo modo sbalorditivo, almeno rispetto alle abitudini prevalenti ai giorni nostri, sia per la densità delle proposte che per le prospettive offerte agli ascoltatori: apertura con i tre Intermezzi op. 117 di Brahms (1892), quindi un cospicuo blocco dedicato a Schönberg, con i Tre Pezzi op. 11 (1909), i Sei Piccoli Pezzi op. 19 (1911, capolavori della fase espressionista del compositore viennese) e i Cinque Pezzi op. 29, vera e propria soglia della dodecafonia, risalenti al periodo 1920-1923. Chiusura con un salto all’indietro di un secolo esatto, nel nome di Beethoven e del suo visionario “tardo stile”, premonitore di tanta modernità, con le Sonate op. 109 (la terz’ultima, 1820) e op. 111 (l’ultima, 1820-22).

Quel concerto, è storia nota, non ebbe mai luogo. Presentatosi a proscenio, prima di sedersi al pianoforte Pollini cercò di leggere un documento che aveva firmato insieme a un qualificato gruppo di musicisti, ma fu interrotto dal dissenso del pubblico che affollava la sala. Secondo le cronache, riuscì a dire solo poche parole: «La sospensione unilaterale da parte del governo degli Stati Uniti delle trattative di pace per il Vietnam…». Il dissenso di larga parte dei duemila presenti fu immediato e tumultuoso, e gli impedì di completare la prima frase, che continuava così: «… e la ripresa dei criminali bombardamenti contro le popolazioni del Nord Vietnam sono un insulto e un’offesa alla coscienza di ogni cittadino amante della pace, del progresso, della libera autodeterminazione dei popoli». Il testo era molto breve e proseguiva con un “j’accuse” contro la falsità e il cinismo del governo USA, e con un appello all’opinione pubblica, da parte dei “musicisti democratici”, a non lasciar cadere nessuna occasione di denuncia e di mobilitazione contro la politica americana. Il giorno dopo il Corriere lo pubblicò all’interno della cronaca dell’accaduto, salvo pilatescamente precisare, in un corsivo non firmato comparso due giorni dopo lo “scandalo”, che si poteva essere d’accordo con la posizione di Pollini sui bombardamenti, non con la sua scelta di leggere il documento in occasione di un concerto. Della serie: bombe o non bombe, la musica non si mescoli con la politica. O con la guerra.

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Maurizio Pollini, Milano, 5 gennaio 1942 – 23 marzo 2024 (Fondazione Rossini, Pesaro).

Pollini non aveva informato i promotori del concerto delle sue intenzioni e quando scoppiò il caos fu irremovibile: non avrebbe suonato se non gli fosse stato permesso di leggere il documento; altrettanto irremovibili gli organizzatori: nessuna dichiarazione, la serata si chiudeva lì. Nei giorni seguenti fu chiarito che il giovane pianista non avrebbe ricevuto il cachet pattuito, un milione di lire. Lui commentò solo che non si aspettava una reazione così violenta da parte del pubblico. E per i 14 anni che seguirono non apparve più nelle locandine del Quartetto milanese. La riconciliazione avvenne nel marzo del 1986, alla Scala, in un concerto straordinario riservato agli abbonati del sodalizio musicale fondato nel 1864 da Arrigo Boito, dedicato alla memoria di Paolo Borciani, il primo violino del Quartetto Italiano, scomparso l’anno precedente.

Vedi caso, Borciani era stato tra i firmatari del documento del 1972. Insieme a lui avevano aderito – e non lo si ricorda quasi mai – non solo personaggi della musica notoriamente attivi dal punto di vista politico, militanti comunisti come il compositore Luigi Nono o il musicologo Luigi Pestalozza, intellettuali impegnati come il direttore d’orchestra Claudio Abbado o il violista del Quartetto Italiano, Piero Farulli, autori d’avanguardia come Luigi Dallapiccola, Giacomo Manzoni e Armando Gentilucci, ma anche musicisti che in genere non vengono associati all’impegno politico come il pianista Bruno Canino, i direttori d’orchestra Nello Santi e Alberto Zedda, il musicologo e didatta Piero Rattalino.

Sintomatico in pari misura del personaggio e dell’epoca, l’episodio del 1972 non rientra cronologicamente nella narrazione proposta dal critico musicale Angelo Foletto in La musica non si ferma – Maurizio Pollini, pianoforte e battaglie civili (LIM – Libreria Musicale Italiana, 2025, pagg. 268, € 22,00), ma ne costituisce un passaggio spesso citato, quasi un implicito elemento costitutivo. Ciò avviene sia per il carattere sintomatico di quel concerto mancato, sia perché in esso si trova l’evidenza di quanto, fin dall’inizio, il percorso di Pollini – pianista centrale nella storia dell’interpretazione della seconda metà del Novecento (e oltre) – abbia avuto una saldezza d’intenti e una coerenza culturale integrali.

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Pollini alla Scala nel 2019 (foto Brescia e Amisano - © Teatro alla Scala).

Pubblicato in occasione del primo anniversario della morte del pianista milanese (avvenuta il 23 marzo 2024), il volume di Foletto – storico critico di Repubblica – non è una biografia e non vuole essere una monografia analitica sull’arte di questo interprete. Corredato da un affettuoso ricordo del sommo pianista Alfred Brendel e da un’acuta, sintetica disamina critica a firma di Giorgio Pestelli, è “solo” una raccolta di articoli giornalistici, che tuttavia realizza una “triangolazione” di singolare efficacia. Si parla di un giornalista che nell’arco di quasi mezzo secolo ha avuto con tutta evidenza nell’attività di Pollini un fondamentale punto di riferimento culturale, oltre che professionale. Così, nella successione dei suoi pezzi prende forma un ritratto dal vero che appare tanto più intrigante quanto più la cronaca si intreccia con la critica, lungo le coordinate dell’attività concertistica di Pollini, di quella discografica e del suo ruolo di riconosciuto protagonista civile della musica, ruolo peraltro sempre esercitato ben più riservatamente di quanto suo malgrado accadde in quella sera di dicembre del 1972. Facendo parlare preferibilmente la musica.

Era il 9 maggio 1978 quando su la Repubblica comparve la prima recensione firmata da Foletto – allora ventottenne – di un concerto di Pollini, quello tenuto a Bergamo nell’ambito della XV edizione del Festival pianistico internazionale che tuttora si svolge nella città orobica e a Brescia. In quell’occasione, per un programma tutto mozartiano, Pollini era anche direttore dei Solisti della Scala, e il giovane critico non fu granché convinto del doppio ruolo: «Al di là dell’affettuosa accoglienza degli spettatori, l’esibizione di Pollini come direttore è stata inferiore alle aspettative». Quanto al pianista, «Le mani, è vero, vanno da sole e con una ricchezza espressiva incontenibile, ma la mente, tesa al controllo del materiale orchestrale, non consente il respiro, l’accento e il colore così irresistibili cui siamo abituati».

La ventura direttoriale di Pollini, com’è noto, è stata parziale e tutto sommato marginale. Uno dei momenti più significativi è stata la sua unica incursione nell’ambito operistico, con La donna del lago di Rossini al Festival di Pesaro. Foletto era presente alla ripresa di quell’allestimento, avvenuta nell’agosto del 1983 dopo il debutto risalente all’estate 1981. E il suo pezzo su la Repubblica assomiglia molto a una stroncatura, almeno per quanto riguarda l’illustre pianista salito sul podio (Rossini, lo spettacolo di Gae Aulenti e i cantanti, invece, se la cavano). «Della sua personalissima, iperrealista e risorgimentale lettura – è la conclusione di un ragionamento esemplarmente motivato – si deve condividere l’ottimismo e la comunicativa, ma lascia perplessi la disinvoltura espressiva e stilistica». Poco prima al pianista era stato imputato di avere “soffocato il belcanto” e “frantumato i bellissimi recitativi”. Né alla fine era mancata una nota di cronaca per sottolineare la perplessità del pubblico.

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Pollini nel 2009 con il compositore e direttore d’orchestra Pierre Boulez (foto Marco Brescia © Teatro alla Scala).

Chiarito con questi esempi quanto poco appartenga ad Angelo Foletto la condiscendenza di maniera (quella, semmai, la si lascia ai titoli fatti in redazione…), non è che questo libro contenga soverchie alzate di sopracciglio. Poiché Foletto offre al lettore il divenire concreto del suo modo di ascoltare e di valutare, lungo un arco di quasi mezzo secolo, possiamo invece entrare in un percorso affascinante di approfondimento e comprensione. Ad esempio, lo Chopin secondo Pollini, che ascoltato alla fine degli Anni Settanta gli sembrava perfino sintomo di una “fase involutiva” del suo pianismo, diventa con il passare degli anni la pietra del paragone del rigore di un gesto interpretativo che va oltre il fascino fine a sé stesso della melodia per andare a delineare una originalità senza eguali nell’Ottocento. Beethoven è da un lato (quello delle ultime Sonate) l’origine di quasi ogni modernità, fra stringente essenzialità strutturale e multiforme tavolozza timbrica. E dall’altro (quello delle Sonate antecedenti) il campione di una visione personalissima del Classicismo, il suo implicito superamento. Il suono come valore assoluto impone le sue regole a Schumann e Brahms e le trascende nel poetico e visionario approccio a Debussy, un altro autore-feticcio del virtuoso milanese.

Quanto all’ampia gamma di interviste proposte nel libro, esse ne sono il plusvalore, considerando la notissima ritrosia del musicista a concedersi al dialogo. Significative sono in particolare quelle non a caso poste nella sezione iniziale, Ritratti, idee, progetti. La prima è intitolata Il pudore delle parole e uscì sul numero di dicembre 1989 della rivista specializzata Musica Viva, pubblicata dal 1977 al 1995, fondata e diretta da Lorenzo Arruga e della quale Foletto era vicedirettore. Si tratta di una lunga conversazione per vari aspetti rivelatoria, che rende il personaggio nelle sue ritrosie ma chiarisce le coordinate del suo modo di pensare ogni esecuzione musicale nella relazione reciproca fra i vari brani. E dunque a concepire i programmi dei concerti come “organismi culturali” decisivi non solo per la funzione estetica dell’esecuzione e dell’ascolto, ma anche per quella civile del far musica in pubblico. Discorso che assume una rilevanza sostanziale per quanto riguarda da un lato la musica del Novecento storico (Stravinskij e Bartók, Schoenberg e Berg, tutti decisivi nella sua poetica esecutiva) e dall’altro quella dell’Avanguardia più “dura” e difficile. In qualche conversazione successiva – riportata nel libro – Pollini affermerà con tranquilla convinzione la necessità di fare entrare nel repertorio dei pianisti (ma non solo) autori come Boulez e Stockhausen, per non parlare dell’amico e compagno politico Luigi Nono, che per lui scrisse nel 1976 …sofferte onde serene… per pianoforte e nastro magnetico. A rileggere oggi quelle frasi, un’utopia. Eppure, una missione in cui Pollini ha creduto e che fino all’ultimo ha realizzato: ai concerti milanesi di “Musica nel nostro tempo”, nelle numerose manifestazioni musicali destinate a “lavoratori e studenti” promosse dalla Scala fra Anni Settanta e Ottanta, nelle serate al Parco della Musica appena inaugurato a Roma, al Festival di Salisburgo e a Lucerna, a New York e a Tokyo, questi autori e le loro composizioni dedicate alla tastiera sono sempre stati affascinanti per quanto ostici protagonisti del suo pianismo. Il ruolo fondamentale sostenuto da Maurizio Pollini nella musica del secondo Novecento – nell’incrollabile convinzione che “la musica non si ferma” – emerge limpidamente nelle recensioni e nelle interviste riunite da Foletto in questo libro. Ed è quasi inutile dire quanto oggi si senta la mancanza di una figura del genere.

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Pollini con Paolo Grassi (al centro) e il violoncellista Mstislav Rostropovič (foto Erio Piccagliani © Teatro alla Scala).

Non mancano i discorsi (e i commenti critici) sulla vasta discografia del pianista milanese, sui motivi delle presenze e delle assenze di certi autori, spesso in base a scelte così personali da risultare quasi imperscrutabili, sul disorientamento inevitabile in un arco di tempo che ha visto prima il passaggio dal 33 giri al Cd, quindi l’avvento del digitale in streaming. E chissà cosa pensava Maurizio Pollini del fatto che oggi quasi l’intero scibile musicale registrato è alla portata di tutti per cifre tutto sommato modeste, a condizione di possedere uno smartphone. Lui che discettava pensosamente sulla differenza “ontologica” fra l’ascolto di un’esecuzione dal vivo, di una registrata in studio, di una registrata dal vivo…

Alla fine, poi, questa raccolta di impeccabili interventi giornalistici diventa anche la certificazione della crisi sistemica della critica musicale come genere (del resto inserita nel disfacimento del giornalismo tout-court). I sintomi sono evidenti: a mano a mano che si avanza nella lettura, i testi si riducono, le ampie recensioni degli Anni Ottanta lasciano il posto a pezzi più brevi a partire dagli Anni Novanta, brevissimi quando ci si avvicina al presente. La scrittura è obbligata a farsi allusiva e aforistica; le argomentazioni diventano così sintetiche da rischiare di essere apodittiche. Nei suoi ultimi anni, Maurizio Pollini assisteva con sgomento a questo processo di estinzione. La musica non si ferma testimonia questo percorso a ciglio asciutto: le ultime cronache in ordine cronologico sono di 1.500 caratteri, con ulteriori e frequenti riduzioni; le segnalazioni discografiche pubblicate su Robinson di Repubblica, puntigliosamente riprodotte, sono costituite da 20, massimo 25 parole. Solo la triste incombenza del cosiddetto “coccodrillo”, il pezzo in morte del pianista milanese, ritrova un’adeguata ampiezza di ragionamento e in generale di informazione. Leggere questo libro di Angelo Foletto, insomma, non permette solo di compiere un affascinante viaggio nel mondo di Pollini: serve a constatare come la critica musicale sia tristemente diventata un reperto archeologico.

In copertina, Pollini e il direttore Claudio Abbado in prova nel 1969 (foto Erio Piccagliani © Teatro alla Scala).

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