La guerra di Verdi
Un atto dopo l’altro, nel susseguirsi delle scene, la ruota del destino gira inesorabilmente. Cambiano le stagioni e soprattutto le epoche: si comincia nel Settecento immaginato da Giuseppe Verdi e dal suo librettista Francesco Maria Piave (e prima di loro, da Angel Saavedra, l’autore del dramma dal quale l’opera prende le mosse); si passa per l’Ottocento delle battaglie risorgimentali, quindi per le trincee e le precarie infermerie della Grande Guerra, imbiancate dalla neve, e infine si arriva ai tempi nostri, in uno scenario di distruzione postbellica che non ha risparmiato nemmeno il convento della Madonna degli Angeli, ridotto a un cumulo di macerie. Qui i fili dell’arruffata, dispersiva e a tratti affascinante vicenda della Forza del destino si riuniscono e trovano sia il culmine musicale che la sintesi manzoniana del romanzesco soggetto. E qui – tre ore e quaranta minuti dopo il beethoveniano attacco della celebre Sinfonia – lo spettacolo inaugurale della stagione 2024-2025 della Scala mette a segno il suo colpo di teatro.
Fino a quel punto, la volontà del regista Leo Muscato di fare della guerra l’elemento fondante della sua narrazione si era misurata non senza problemi da un lato con la drammaturgia musicale irrisolta di quest’opera e dall’altro con una certa genericità dell’idea rappresentativa. Ma durante il formidabile ultimo duetto/duello fra i due eterni contendenti della vicenda, Don Carlos di Vargas e Don Alvaro, quel che si vede diventa un vero, tagliente, drammatico “j’accuse” contro la guerra. Uno di quei momenti in cui anche un melodramma problematico come questo, con i suoi riconosciuti limiti, dimostra di poter parlare chiaramente agli uomini di oggi.
Intorno ai due protagonisti, la scena rocciosa e cosparsa di rovine è disseminata di cadaveri coperti da teli, forse pronti per essere portati alla sepoltura. Da sotto uno di questi teli spuntano anche i fulvi capelli della zingara Preziosilla, ironica e apparentemente cinica reclutatrice di soldati nel secondo atto, esaltatrice della bellezza del conflitto armato, animatrice della vita militare nel finale del terzo atto. Travolta anche lei dalla follia della guerra che tutto distrugge e che rende la Storia una distesa di macerie.
Prima di questa trovata rivelatoria, l’accento sul tema della guerra era evidente ma poco incisivo. Decorativo viene da dire, sia pure con immagini non prive di una certa scabra efficacia grazie alla sofisticata macchina scenica firmata da Federica Parolini, una piattaforma girevole in frequente movimento sulla quale le masse sono state gestite abilmente fra “tableaux vivants” e azioni quasi al rallentatore, in controtempo rispetto al movimento rotatorio. E grazie anche alla chiarezza esplicativa dei costumi di Silvia Aymonino, che punteggiano i passaggi d’epoca lungo i quali si muove lo spettacolo. Una scelta, questa, tutt’altro che originale: solo tre anni fa, e sia pure in maniera molto più radicale, erano alla base di un peraltro assai discusso allestimento della Fura dels Baus al Maggio Musicale Fiorentino. Adeguatamente cupe le luci di Alessandro Verazzi, di risolutiva semplicità e chiarezza i movimenti coreografici di Michela Lucenti, in un’opera nella quale le scene di massa abbondano e in uno spettacolo che le gioca tutte in spazi assai ristretti.
Bisogna aggiungere, però, che se anche il guizzo nel finale ha offerto una chiave di lettura più convincente, adottando un drammatico radicalismo dell’immaginario che sarebbe stato utile anche prima, in generale la regia di Muscato ha lasciato in secondo piano un altro protagonista fondamentale della Forza del destino: il popolo, il Quarto Stato alla maniera di Verdi, come in anni ormai lontani lo definirono – in maniera che rimane illuminante – Massimo Mila e Rubens Tedeschi. Che non è fatto solo di soldati e crocerossine, o di sventurati profughi (come all’inizio del quarto atto), ma di gente qualunque, che si arrabatta per mettere insieme il pranzo con la cena, che pratica i mestieri più umili e fatica duramente, che cerca aiuto e sollievo nella religione ma è sempre pronta a cogliere l’occasione per divertirsi, si tratti di scherzare con i militari in un accampamento o di mangiare e bere insieme all’osteria. Gente protagonista di scene di vita vissuta, le uniche a colpire in positivo i compositori russi più avanzati, Musorgskij e i suoi amici del Gruppo dei Cinque, in occasione della prima assoluta dell’opera, a San Pietroburgo nel 1862. Quelle scene che oltre cinquant’anni fa avevano fatto dire a Gabriele Baldini che questa è la prima grande opera russa nella storia della musica.
Quanto al finale della seconda e definitiva stesura (quella messa a punto nel 1869 e adottata per la produzione inaugurale della stagione scaligera), suggello giustamente manzoniano per il taglio romanzesco dell’opera, il regista si è concesso anche un tocco soavemente kitsch: mentre risuonano le trasognate note conclusive in orchestra e trionfa la rassegnazione di Don Alvaro, che alla sua maniera si affida umilmente alla manzoniana “Bella Immortal! Benefica / Fede ai trionfi avvezza”, dalla fenditura nel tronco di un albero rinsecchito cominciano a germogliare tenere foglioline, promessa e simbolo della vita che nonostante tutto continua.
Musicalmente, l’ennesima incursione di Riccardo Chailly nei territori verdiani la sera di Sant’Ambrogio coincideva questa volta con un debutto assoluto in questo titolo. La sua è stata una lettura sorvegliata, di lucida intelligenza musicale, dai tempi duttili e dalle dinamiche ricche di espressione, capace di dare conto delle molteplici anime della partitura senza sbilanciarsi stilisticamente ma garantendo la profondità del pensiero creativo del bussetano, forse mai come in questo caso “sperimentale” e “concettuale”, a volte con esito davvero rapinoso, sempre con sicura efficacia. L’orchestra scaligera ha seguito il suo direttore con compatta qualità di colori e appropriata tenuta nell’equilibrio fra la sezioni, ed è stato insolito notare – nel corso della diretta televisiva su Raiuno, ora visibile su Raiplay, sulla quale sono state scritte queste note – l’evidente soddisfazione del maestro, sorridente e chiaramente soddisfatto sul podio durante il procedere dell’esecuzione.
Ne aveva motivo, Chailly, anche in considerazione della qualità della compagnia di canto, notevole sempre, straordinaria in alcuni casi. All’ennesima inaugurazione di stagione scaligera, il soprano Anna Netrebko ha vinto la scommessa di una parte particolarmente complessa, al netto di alcune contestazioni finali provenienti dal loggione, ma non senza grandi applausi a scena aperta. La sua Leonora è stata giocata vocalmente e scenicamente – come dev’essere – sull’incertezza esistenziale che l’attanaglia dall’inizio alla fine: emissione sempre sicura, colore vellutato, tenuta nelle zone estreme della tessitura, poche smagliature nel colore. Intorno a lei, il confronto all’ultimo sangue fra Don Carlos di Vargas e Don Alvaro ha visto svettare la magnifica linea di canto del primo, Ludovic Tézier, baritono di impeccabile stile verdiano, capace di modellare la parola sull’espressione musicale sempre esaltando il suo timbro accattivante, anche se dal punto di vista della recitazione è parso piuttosto inerte. Assai più intenso, scenicamente parlando, il tenore americano Brian Jagde (chiamato a tre settimane dalla prima per sostituire Jonas Kaufmann), che possiede uno strumento vocale importante, da affinare sul piano del fraseggio, specialmente all’inizio un po’ sommario, e controllare con maggiore consapevolezza stilistica, evitando di far prevalere nel suo Alvaro, come talvolta è avvenuto, la corda eroica e quasi veristicamente spinta su quella lirica.
Il giovane mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya è stata una Preziosilla appropriata in quanto mai caricaturale, capace di unire al bel colore ambrato della sua voce e all’agilità una presenza scenica non banale. Ieratico Padre guardiano è stato Alexander Vinogradov, basso profondo sicuro nell’emissione e sapiente nell’ espressione, mentre il baritono Marco Filippo Romano ha tenuto il suo Fra’ Melitone lontano dalla parodia e semmai vicino a una certa pensierosa consapevolezza sulla guerra e sul mondo, con sprezzatura irosamente ironica ben riflessa nella sua duttile vocalità. Positivi anche il Mastro Trabuco di Carlo Bosi e l’iroso marchese di Calatrava di Fabrizio Beggi; assai ben disposto il coro istruito da Alberto Malazzi, severamente impegnato – con resa convincente – dal punto di vista scenico, senza perdere quasi mai in compattezza ed omogeneità.
Allo spegnersi dell’ultima nota, cronometristi all’opera, stucchevole obbligo in questi casi, e lancette fermate sui 12 minuti di applausi. Né tanti né pochi, vedi caso esattamente come l’anno scorso per Don Carlo. E bisogna dare atto che se la diretta televisiva (regia di Arnalda Canali) è stata un po’ troppo incline ai primi piani, spesso impietosi per i cantanti e soprattutto fuorvianti rispetto allo spettacolo, è stata utile per cogliere il clima, esemplificato come spesso accade dalle voci del loggione. La più significativa, oltre le questa volte contenute tifoserie dei melomani pro o contro i cantanti o il direttore (lo sfogatoio si è ormai trasferito sui social network) è stata il “Salvate Sant’Agata” risuonato all’inizio, richiamo non peregrino sulle vicende dell’acquisizione da parte dello Stato, oggi arenata, della villa di Villanova sull’Arda, che fu la principale abitazione di Verdi e il suo luogo di lavoro preferito fin dal 1851 ed è uno scrigno – da due anni chiuso al pubblico per le controversie fra gli eredi proprietari – di inestimabili memorie e documenti.
Durante la lunga diretta, come sempre, è dilagata l’apodittica iperbole laudatoria, del resto propria anche del neoministro della Cultura, Alessandro Giuli («Una serata portentosa, un'opera portentosa, un'interpretazione portentosa, tutto meraviglioso» il commento – se così si può definirlo – consegnato a Rainews). Ascolti in risalita rispetto agli ultimi due anni: lo share si è attestato al 10,3 (nel 2023 era stato 8,4, nel 2022 per Boris Godunov, 9,1); in termini di spettatori, questo significa 1,6 milioni di persone davanti al piccolo schermo per l’evento più atteso della stagione operistica italiana. L’anno scorso erano stati 1,4 milioni, due anni fa 1,5 milioni. In ogni caso, ancora lontani i due milioni e oltre spesso registrati in tempo meno recenti ma non così lontani. Il duo dei conduttori, sempre gli stessi da tempo ormai immemore, non è uscito dalle banalità un po’ arruffate e imprecise che dominano il “contorno” di questo appuntamento, per il quale evidentemente nulla può cambiare in casa Rai. Durante il secondo intervallo, ingiustamente coinvolte in siparietti immeritatamente insipidi e superficiali tre vecchie glorie dell’opera – due da tempo uscite di scena, il terzo sempre più vicino al commiato. Se fosse davvero come la vuole la Rai, specialmente nell’occasione più “glamour” di tutte, Vittorio Gassman avrebbe detto che l’opera ha un grande avvenire dietro le spalle. Per fortuna non è (proprio) così.
In copertina, Il mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya, Preziosilla, nel secondo atto.