Poesia e canzoni: un problema?
“La verità è che la parola veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra; e che solo la parola poco o punto poetica sopporta di essere l’attaccapanni di una successiva poesia”. Questa secca dichiarazione di Eugenio Montale – datata 1963 – può servire a dare un’idea delle difficoltà di un rapporto tra poesia e musica nell’Italia del secondo Novecento.
Già dagli anni Cinquanta, però, cominciavano a emergere atteggiamenti opposti. In un intervento del 1956, Pier Paolo Pasolini osserva: “Si può dire che l’odierna canzonetta non sia che un aspetto della diffusione ideologica della classe dominante sulla classe dominata. Stando così le cose, non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle. Un intervento di un poeta colto e magari raffinato non avrebbe niente di illecito. Anzi, la sua opera sarebbe sollecitabile e raccomandabile”.
In quegli stessi anni, a Torino, il gruppo musicale “alternativo” Cantacronache, animato da Sergio Liberovici, Michele Straniero, Emilio Jona, Fausto Amodei e Margot Galante Garrone, spingeva autori come Italo Calvino e Franco Fortini a comporre versi destinati a essere musicati e cantati. Cominciava così una (breve) stagione di incontro tra letteratura e canzone, che sarebbe culminata nella intensa e proficua collaborazione tra il poeta bolognese Roberto Roversi e Lucio Dalla, iniziata nel 1973 e conclusasi tre anni dopo con l’LP Automobili.
Di questa stagione dà conto – con accuratezza critica e ampia documentazione – lo studio di Giulio Carlo Pantalei intitolato Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera, uscito da Einaudi nel 2025.
Il libro è articolato in otto capitoli (più un’introduzione e un epilogo, Quel che resta del sogno) che ripercorrono le fasi del rapporto tra scrittori e canzone nell’arco di circa vent’anni.
Il primo è dedicato a Giorgio Caproni. In verità, Caproni non è stato un protagonista di rilievo dell’innesto tra poesia e canzone; il suo contributo principale alla canzone è la traduzione italiana in metrica di Le déserteur di Boris Vian, che ebbe una circolazione a dir poco ristretta, e su cui magari torneremo. Pantalei si concentra soprattutto su un altro aspetto del rapporto tra il poeta livornese e la canzone: la sua partecipazione, in quanto membro della Commissione giudicante, al Festival di Sanremo del 1955, episodio dimenticato ma non trascurabile, che lo studioso ha il merito di riportare alla luce, sottolineando le polemiche suscitate dall’”intrusione” di un poeta nel mondo della musica leggera.
I capitoli seguenti si sviluppano in ordine cronologico-geografico (Torino, Roma, Bologna) e raccontano le fasi della storia della canzone “letteraria” in Italia, dall’esordio già ricordato con Cantacronache (due capitoli a parte sono riservati alla produzione canzonettistica di Calvino e di Fortini) alla stagione romana animata da Laura Betti col suo spettacolo Giro a vuoto (a Pasolini è dedicata una sezione successiva, e un’altra ancora agli altri scrittori che collaborarono con Laura Betti: Moravia, Parise, Arbasino e Flaiano), per concludere con l’episodio più rilevante (anche mediaticamente) dell’incontro tra poesia e canzone, il già citato sodalizio tra Roberto Roversi e Lucio Dalla.
Il libro di Pantalei è arricchito da interviste di prima mano ad alcuni protagonisti della canzone “letteraria”, da aneddoti poco conosciuti (come quello in cui si racconta di un giovane Gigi Proietti che – “chiudendosi nel cesso” – mette in musica in pochi minuti alcuni epigrammi di Flaiano nati da uno scambio con Fellini), e da informazioni ai più sconosciute: quanti sapevano che a Dove vola l’avvoltoio? fu assegnato nel 1958 il Premio di poesia Viareggio Répaci, per una sezione speciale dedicata alla canzone?

L’autore ha poi il merito di soffermarsi di volta in volta sulle canzoni più significative, offrendo al lettore accurate analisi metriche, testuali e musicologiche. Uno tra i molti possibili esempi è quello che riguarda ancora Dove vola l’avvoltoio?, testo di Calvino, musica di Liberovici. Osserva Pantalei: “Calvino e Liberovici scandiscono il tempo in 2/4 e grazie principalmente alla scelta dell’ottonario (ma anche a un sapiente uso delle pause) sembrano giocare con le combinazioni sonore date da una precisa sequenza numerica. Il numero complessivo dei versi non potrà dunque apparire casuale: 88. C’è in questo senso, inoltre, una soluzione innovativa su cui vale la pena di ragionare, un pregevole “falso ottonario” al v.7 (“vola via dalla terra mia”), cioè un verso che senza musica risulterebbe un novenario e che diviene invece un ottonario sullo spartito. Se infatti tutte le sillabe corrispondono a una croma […], è possibile osservare che nel sintagma “via dalla” il valore diventa quello di una semicroma […] in modo da farlo risultare un ottonario perfettamente coordinato con i precedenti e i seguenti” (p.39).
Non so quanti anni abbia Giulio Carlo Pantalei (nella nota biografica – ahimè – manca la data di nascita), ma sono portato a pensare che sia piuttosto giovane. A chi – come me, che sono del 1949 – ha vissuto direttamente gli anni di cui si parla, e ha a lungo riflettuto su questi argomenti come musicista, come poeta e come critico, la tesi di fondo del libro lascia qualche perplessità. L’impostazione storica di fondo è chiaramente esposta nell’introduzione, a pag. 3: “Pasolini, Calvino, Caproni, Fortini, Roversi, Flaiano, Parise, Arbasino, Moravia, Eco; alcuni dei nostri massimi autori del Novecento hanno realizzato versi d’autore per musica contribuendo in maniera decisiva alla nascita del cantautorato e della canzone impegnata in Italia”.

Sorvolando sul termine cantautorato (impostosi da qualche anno), che a me suona ancora più stridulo di cantautore, l’elenco proposto da Pantalei e la sua valutazione del ruolo svolto dalla canzone “letteraria” nella nascita della canzone d’autore mi risultano un po’ schematici e discutibili. A parte l’assenza di almeno due scrittori che diedero un contributo non da poco alla canzone, Umberto Simonetta (per Gaber) e Dario Fo (per Jannacci), mettere sullo stesso piano gli autori elencati mi sembra fuorviante. Per fare un solo esempio, il contributo di Eco o di Caproni e quello di Roversi alla canzone non sono comparabili, tanto per quantità quanto per qualità e intensità. In generale, credo sia opportuno osservare la differenza tra gli scrittori che solo occasionalmente e marginalmente hanno composto testi per musica (la maggioranza) e quelli – come Roversi appunto – che si sono impegnati fino in fondo, sistematicamente, nella creazione di una canzone “alternativa” alla produzione corrente, raggiungendo oltretutto il grande pubblico.
Certo è bello (e rassicurante) pensare che a far nascere la canzone d’autore in Italia siano stati un manipolo di letterati e poeti “impegnati” e aperti alla cultura popolare; ma forse su questo schema bisognerebbe riflettere meglio. Il lettore che segue il racconto di Pantalei è portato a pensare che le canzoni di Calvino, di Arbasino o di Moravia avessero un peso rilevante nella scena musicale del tempo; ma non è così. Le canzoni di Cantacronache o quelle scritte per Laura Betti avevano una circolazione a dir poco ristretta, e anche quando erano mosse da intenti “popolareggianti” raggiungevano comunque un pubblico d’élite. Quanto all’influenza diretta di questa produzione “alternativa” sulla nascente canzone d’autore, ho qualche dubbio. È vero, come documenta Pantalei, che Francesco Guccini ascoltava i dischi di Cantacronache, e risulta persino che Luigi Tenco abbia avuto qualche sporadico contatto con il Nuovo Canzoniere Italiano (che peraltro non portò a niente), ma se consideriamo le loro canzoni ci accorgiamo che la logica che le informa è lontanissima da quella della canzone “letteraria” del tempo. Anche Guccini, che può sembrare il più “letterato” dei cantautori, si muove su tutt’altro piano, e La locomotiva è legata più alla tradizione socialista ottocentesca che ai modi della contemporanea canzone “impegnata”.

C’è dell’altro. Quasi tutti quelli che si sono occupati della nostra canzone “letteraria” hanno dato per scontata la qualità “superiore” dei testi prodotti dagli scrittori rispetto a quelli dei normali “parolieri”. Ma andiamo a leggere la già citata traduzione che Caproni dà di Le déserteur di Boris Vian: “Da che son nato qui,/papà ho visto morire,/i miei fratel partire/e il mio figliuol soffrir// Uccisa dal dolor,/mia madre è nella tomba/e nessun verme o bomba/più impressionarla può”. Il risultato – qualcuno avrà il coraggio di ammetterlo? – è imbarazzante. Vola colomba in confronto è Dante. Senza nulla togliere a quel grande poeta che è Caproni, qui viene in luce quanto fosse difficile, anche per autori di rango, superare le magagne della canzonetta corrente. Anche in una delle più celebrate canzoni di Calvino, Oltre il ponte, ci si imbatte in goffaggini stilistiche come questa: “O ragazza dalle guance di pesca,/o ragazza dalle guance d’aurora,/io spero che a narrarti riesca/ la mia vita all’età che tu hai ora”. Calvino versificatore sacrifica alla rima (pesca:riesca) la linearità del dettato, e invece di scrivere “io spero di riuscire a dirti” mette su quel bruttissimo verso, che nessuno ha mai avuto il coraggio di segnalare. Perché Calvino non si tocca: è bravo per definizione, anche quando stona.
La maggioranza degli scrittori italiani di quegli anni danno l’impressione di essere dei parolieri “della domenica”, e di avere ben poco da insegnare a chi la canzone la fa per mestiere. Le eccezioni sono – dal mio punto di vista – essenzialmente tre: Pasolini, Fortini e soprattutto Roversi. I testi di Pasolini in romanesco sono lontanissimi dalla poesia stucchevole della canzonetta. Purtroppo, i compositori non sono in grado di assecondarli: in Macrì Teresa detta Pazzia, scritta per Laura Betti, la musica di Piero Umiliani mette in scena un jazz di maniera che fa pensare a un telefilm americano più che a una borgata romana. Nei testi per musica di Fortini si sente il mestiere del versificatore, e anche una certa adesione al genere “minore” in cui si muove. Ma il poeta che più di ogni altro ha rivoluzionato la scrittura per musica, influenzando i cantautori emergenti negli anni Settanta e Ottanta, è Roberto Roversi. I suoi testi sghembi, asimmetrici, del tutto ignari degli schemi canzonettistici, hanno costretto Lucio Dalla (allora non ancora cantautore, solo musicista) a uscire dalla tradizionale forma-canzone, con i risultati che conosciamo. Dopo la loro rottura, nel 1976, Dalla si decise a scrivere le parole delle proprie canzoni; nell’Lp Com’è profondo il mare, l’impronta di Roversi è lampante. Quello del poeta bolognese mi sembra l’unico caso di un’influenza diretta e decisiva della poesia “colta” sulla canzone (non solo su quella di Lucio Dalla), e bene ha fatto Pantalei a dedicargli l’ultimo, intenso capitolo di questo libro.
In copertina, Beale Street Blues, Fred Becker.
