Fabio Pusterla: ma chi è Truganini?
“Tremalume è una parola che ho inventato io”, dice Fabio Pusterla a proposito del titolo della sua ultima raccolta di poesie uscita da Marcos y Marcos. “È apparsa sulla pagina – continua – mentre provavo a scrivere una poesia un po’ strana, e mi è balzata agli occhi come il titolo migliore per il mio nuovo libro. Tremalume: un neologismo in cui il tremore, la minaccia e la preoccupazione non eliminano affatto la piccola sopravvivenza di un lume, di una minima luce a cui affidarsi”.
Chi, come me, da anni conosce e ama la poesia di Pusterla – in genere abbastanza piana e “normale” sul piano lessicale – sa che può comunque aspettarsi improvvise accensioni e invenzioni “sperimentali” come quella del titolo. In questo libro trovo, tra le altre, il sostantivo malanimamento (“le spighe del tormento,/del malanimamento”, Canzone delle acque ripide) e soprattutto il verbo spensare (“Veglio e spenso/ e spensando proteggo queste miti/ figure della notte e del dolore”, Requiem per una casa di riposo lombarda, III), un neologismo che va ben al di là della bizzarria linguistica, e si impone come una creazione necessaria e suggestiva, integralmente poetica.
Nella bandella, la poesia di Pusterla viene definita “luminosa, molto comprensibile”, i suoi versi “sempre più limpidi”. Questa qualifica – che ha senz’altro le sue motivazioni – a me lascia qualche dubbio. A una prima lettura, i testi di Tremalume mi sono sembrati tutt’altro che trasparenti. Un esempio fra gli altri, tratto dalla serie Frammenti di Truganini (nella sezione Cielo dei vinti), che occupa molte pagine nel cuore del libro:
Con ninnoli crestine
con paroline stucchevoli
tutto è stato distrutto
tutto è stato rubato.
Truganini non può dire io
Truganini non può ricordare nulla
perché io non esiste non è più neanche un altro
e la memoria è fuori corso senza parole
le cose della memoria non sarebbero riconoscibili
come cose vere tangibili.
Il mondo di adesso è fatto di cose diverse
non vuole ricordare quelle di prima.
Il lettore (o diciamo il sottoscritto, che è un lettore programmaticamente sprovveduto) è portato a chiedersi: ma chi è Truganini?
Lo so, in poesia domande simili suonano fuori luogo: la regola sarebbe lasciarsi andare alla suggestione del testo, alla sua enigmaticità. Ultimamente, fatico a farlo. Mi rendo conto, ogni giorno di più, che in tanti anni non sono ancora diventato un lettore di poesia come si deve. Di fronte a una pagina come questa mi chiedo, come farebbe qualsiasi profano: ma di chi si sta parlando?
All’inizio mi ero messo in testa che Truganini fosse il cognome di un signore, di un personaggio un po’ bislacco come se ne incontrano nella poesia di Fabio Pusterla (e in questo libro, in particolare). È bastato rileggere più attentamente, facendo caso a qualche dettaglio (li metto in tondo nel testo in corsivo), per capire che si trattava di una donna: “Bim bum bam/ Truganini nella spam/Truganini nella merda/che maltempo la disperda”; “Truganini Truganini/coi zampetti dei gallini/con i baffi e con gli artigli/ senza uomo e senza figli”.
Una donna, va bene: ma perché se ne parla prima con partecipazione e poi con tanta ostilità? È una vittima, o una sorta di strega? Insomma, chi è? Avendo – come ho detto – una lunga familiarità con la poesia di Pusterla, ho rotto gli indugi e sono andato a colpo sicuro nella sezione delle Note, in fondo al volume. Lì, come speravo, il mistero si è svelato: Truganini è il nome dell’ultima aborigena della Tasmania, l’ultima a morire dopo il genocidio del suo popolo verso la fine dell’Ottocento. In una foto d’epoca – ci informa il poeta – appare orribilmente agghindata in foggia occidentale.
Riletti alla luce della nota, i versi cambiavano completamente aspetto; l’oscurità “di primo grado” (chiamiamola così) lasciava il posto a un’altra oscurità, quella derivante dalla libera rielaborazione poetica dei dati informativi. Lo spunto doveva risolversi e quasi dissolversi nella trama del testo poetico.
Quasi tutte le poesie del libro richiedono per essere comprese, almeno a un primo livello, il ricorso alle note (l’eccezione – abbastanza curiosa – è stata per me Kalemegdan: lì il riferimento mi è stato subito chiaro, avendo scritto anch’io – per puro caso – una poesia ambientata nel parco di Belgrado che dà il titolo al testo). D’altra parte, mi è tornato in mente che nelle sue letture pubbliche Pusterla fa precedere di solito a quella della poesia l’esposizione (spesso molto coinvolgente, e ampia) dell’aneddoto, della notizia, del personaggio che ne sta all’origine. Le sue note, insomma, a dispetto della loro disposizione tipografica, sembrano avere un po’ la funzione che hanno le razos dei provenzali, o le parti in prosa della Vita nova di Dante. Non mi sembra fuori luogo, allora, consigliare al lettore di partire dalle informazioni sull’occasione di partenza per meglio gustare, poi, la loro rielaborazione-trasfigurazione in versi.
Tremalume è un libro complesso e articolato, sia sul piano dei temi sia su quello della forma, ma in quasi tutte le sue sezioni e sottosezioni si ritrova quel senso di trattenuta inquietudine che caratterizza la poesia di Pusterla. In molti testi si attraversano paesaggi desolati e insieme seducenti, carichi di minacce ma anche di tenui promesse, ci si inoltra in luoghi misteriosi, dove (come in Gabbie) “si presente un orrore/ o un ardore”, dove “forse è capitato qualcosa”.
Il libro di Pusterla allude a un disastro incombente, senza mai esplicitarlo del tutto. Lo sguardo sul mondo in bilico è demandato spesso alle presenze animali (numerosissime, dai cinghiali all’aquila, dalle formiche ai cigni), come la mucca che in Fotogrammi, 4 osserva il mondo umano:
Ma una giovenca più nervosa o curiosa
resta ritta sul ciglio della strada, lontana
da tutte le altre. Non bruca, non riposa:
guarda le auto, le moto e i ciclisti
che sfrecciano sgargianti verso il piano,
certi gridando forse di gioia
o d’impazienza.
Li osserva la vacca
e nessuno può dire se con sentimento,
con quale interesse o pietà.
Nessuno saprà
cosa vede.
Sul piano compositivo, si osserva in Tremalume una grande varietà di soluzioni. A prevalere è il poemetto breve, articolato in snelli passaggi numerati (fino a sedici in Lugangeles) o separati da asterischi. La metrica è molto libera, mai però arbitraria, mai troppo dissonante o prosastica; qua e là spuntano dei novenari in quartine (Ruina Belfort) o altri schemi strofici regolari (tre strofe di un endecasillabo e due settenari), come in Sotto il Monte Maggiore, con Giovanni, 1. Anche la rima mi sembra più presente rispetto ai libri precedenti. A sorpresa si affacciano, come abbiamo visto nei Frammenti di Truganini citati, delle filastrocche più o meno sbracate, o delle stridenti parodie come quella del Dies irae che troviamo in Requiem per una casa di riposo lombarda, dove la rima ribattuta in -illa dell’originale (Dies irae dies illa/Solvet saeclum in favilla/ teste David cum Sybilla) si sfigura in “Ripugnante camomilla/ Calda orina che sfavilla…”. Il divertimento parodistico si ritrova – con toni meno eclatanti – nel passaggio n.12 di Lugangeles, dove le strofe di decasillabi rimati (ababc, l’ultimo tronco) richiamano il canto popolare Il feroce monarchico Bava (del generale Bava Beccaris e dei suoi massacri, tra l’altro, si parla in Graziantonio).
Tra gli autori del Novecento che risuonano nelle pagine di Tremalume il primo è senz’altro Vittorio Sereni. Gli scambi tra i due interlocutori nel secondo passaggio di Botta e risposta sulle ombre sembrano un esplicito omaggio al poeta degli Strumenti umani. Molto sereniane – a parte l’ambientazione – sono anche Una lettura in carcere, dove si avvertono echi di Una visita in fabbrica, e la già citata Sotto il Monte Maggiore, con Giovanni, dove l’uso del si impersonale alla toscana (“ma noi si colgono le asparagine (…) noi si cammina come uomini…”) non può non far pensare a un famoso testo di Frontiera, Canzone lombarda: “E noi ci si sente lombardi/e noi si pensa…”.
Come in altri libri di Pusterla, in Tremalume si avverte una tensione caratteristica tra le situazioni e i paesaggi più ordinari e familiari (“Supermarket di quartiere poi dismesso/in sala giochi”, Lugangeles) e “un fremito di praterie/ sconfinate, stellari, inaccessibili” (Figurine di antenati). Sempre più spesso il poeta evoca un tempo immemorabile, presenze arcaiche, primigenie, che sembrano a volte dotate di un potere salvifico; in qualche caso (come in Canzone delle acque ripide) le vittime della civiltà occidentale (qui incarnate dall’aborigena Truganini) prendono la parola per scagliare maledizioni e profezie apocalittiche:
(…)
Sono tornata a gridare
che questo non si può fare
che voi l’avete fatto
e siete maledetti.
(…)
nasceranno spighe nere
che non vorrete vedere
e invece ci saranno
le spighe di malanno
(…)
Saremo il deserto la terra bruciata.
Voi dimenticherete e sarete dimenticati
sarete la voragine.
Noi saremo il niente voi sprofonderete”.
Versi come questi fanno davvero tremare. Ma, come dice il titolo, il libro di Pusterla non vuole solo questo. Assieme all’angoscia e all’orrore si affaccia qua e là una speranza, un barlume. Come nei versi di Hohokam, riportati in quarta di copertina:
Se il tempo è come un’onda
come una macchia d’olio nello spazio
e la sua curva porta in direzioni
vaghissime e possibili
potremo svanire anche noi
per ritornare segni di passaggio.