Umberto Fiori, perdersi per ritrovarsi

22 Dicembre 2024

Non tutti amano i clown, specie i bambini che guardano a volte sconcertati le loro gag ed evoluzioni sotto il tendone del circo arrivato in città. Non sanno che in realtà ce ne sono di due tipi: il “clown bianco”, chiamato anche il Pierrot, e quello “buffo”, l’Augusto e che queste due figure nella tradizione circense sono complementari.

Non può esistere l’una senza l’altra. Il Pierrot è severo, preciso e patetico ed è di solito il primo ad entrare in scena – spesso con un violino in mano –, l’Augusto è invece incapace, pasticcione e rumoroso e, con il suo trombone, infastidisce il primo.

Umberto Fiori ne parla in un saggio su Franco Fortini, intitolato Il Bianco e l’Augusto e contenuto in La poesia è un fischio (Marcos y Marcos, 2007), a partire da una riflessione che Fortini fa sull’esecuzione della poesia in pubblico in La poesia ad alta voce (Taccuini di Barbablù, 1986). Fiori ripercorre la riflessione fortiniana secondo la quale la poesia e la sua corporeità, nell’esecuzione ad alta voce (ma già forse sulla pagina), prevedono sempre una copresenza intrinseca tra l’entrata seria e patetica del clown bianco (Pierrot) e l’irruzione invadente e spernacchiante dell’Augusto.

Fiori ricorda ancora che Fortini «propone di esporre sistematicamente il sublime, lo straordinario (la poesia), alla sfida dell’ordinario, del comico. Il poetico – ci suggerisce – è autenticamente tale solo se è in grado di reggere il suo contrario, se è capace di neutralizzarlo, di incorporarlo, di assimilarlo».

È dunque in questo esporsi del comico per arrivare al sublime che si compie in definitiva la poesia.

Non c’è dubbio che Fiori abbia fatto propria questa lezione: in lui infatti il bambino serio e quello maldestro, il Pierrot e l’Augusto, convivono in una sottile e sempre precaria armonia, così come è la poesia.

Il poeta è allo stesso tempo sia l’Augusto sia il Pierrot: il bambino che con foga e scompostezza guarda e fa esperienza di sé e del mondo, e il bambino che, nel bel mezzo del gioco e del riso, «diventa / sempre più serio, sempre più severo» (Al circo) nell’atto di dare forma a quel mondo con le parole.

Come ha ben evidenziato De Angelis dieci anni fa in occasione dell’uscita del volume mondadoriano (Tutte le poesie 1986-2014), quella di Fiori più che dell’essere o del divenire «è una poesia dell’accadere». È da sempre una poesia che avviene camminando per la città (si pensi al flâneur baudelairiano), una poesia in situazione che proprio nel farsi non prova a suggerire alcuna vocazione didascalica, tantomeno moralistica. Piuttosto c’è in essa una più piana e immediata inclinazione che si attua tramite l’esempio impersonale, generico e quotidiano e per questo – ribaltando la concezione di Heidegger del si impersonale come evidenza dell’inautentico – condiviso.

Tutto ciò che accade e che si registra è infatti già in scena, su un palco; fissato su un pannello, su una tela o in una fotografia, come avviene per esempio per la durezza e la severità dei muri nei dipinti di Sironi, per i soggetti delle fotografie della Milano degli anni ’80 scattate da Basilico e infine per quelli delle sequenze di Petrus, che tanto ricordano gli sfondi delle poesie di Fiori.

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Da questo fondale emergono una certa serialità, o meglio ripetitività delle situazioni, così come la loro ovvietà, registrata da Fiori a partire dalla messa in scena del mondo di tutti i giorni, dove la frenesia e la divisione rendono, sulla linea Baudelaire-Montale, l’inferno certo: le persone per strada di fretta, un muro cieco, i lavori in corso, il traffico, i cantieri, le discussioni tra due che vorrebbero capirsi ma non ci riescono mai. Verrebbe da dire, con le parole del protagonista di Opinioni di un clown di Böll, che il poeta dichiari senza dirlo direttamente: «Sono un clown […] e faccio raccolta di attimi».

Tutto è infatti circoscritto in una spazialità e in una temporalità minime e urbane: si veda l’uso consistente dei deittici qui e e le generiche indicazioni di tempo (un giorno, una volta, quando, ogni mattina). Eppure su questo tappeto di ovvietà, su questa superficie che si diffonde per micro-eventi, la poesia di Fiori non è solo riconoscibile ma è sin dalla prima lettura anche memorabile.

A questa memorabilità contribuiscono almeno due elementi. Il primo è l’uso della lingua: piana, comune, secondo la lezione di Sbarbaro, con certe parole chiave (casa, albero, nuvola, cane, bambino, mondo), che però non mancano mai di mostrare il loro rovescio, cioè come nella lingua di tutti i giorni, nel dettato quotidiano si apra di continuo una precarietà, un balbettio, un’interruzione, un non detto che restano al fondo. Il secondo è la scelta di una retorica anti-retorica che trattenga il sublime, cercando di restituire ciò che ha stupito ed emozionato, ma senza urlarlo. Da qui l’uso, come ha sottolineato Marchesini, di un «canto senza enfasi»: rime comuni e ipermetre, interne o imperfette, assonanze tenui e discrete, secondo i modelli di Saba e Penna. Poi ancora la predilezione per la similitudine che, rispetto alla contrazione della metafora o dell’analogia, utilizza un’immagine per chiarirne un’altra, mantenendo così autonomia e copresenza tra le due immagini avvicinate. Come ha ricordato lo stesso Fiori: «In ciascuno degli elementi della similitudine il mondo è lì per intero. Il mondo si specchia nel mondo. Il mondo è simile». Nel serbatoio figurale della similitudine poi particolare importanza lo assume il mondo dei bambini. I loro gesti, i loro bronci, i loro giochi e soprattutto la loro postura – distratta e partecipe allo stesso tempo di fronte alle cose e al mondo – sono forse e in definitiva, sembra intuire e suggerire il poeta, il vero esempio da recuperare, da seguire.

Dunque la poesia, o meglio se la sua offerta comunicativa e il suo rischio si attivano e vengono accolti, lascia soli di fronte a un’alterità che chiama e che, come ha detto ancora De Angelis, «ci costringe all’incontro»: ci mette di fronte un muro o una facciata di una casa, una faccia (quella di un altro o, più difficilmente, la propria), un rumore (un fischio), una lite o un silenzio. O ancora, per dirla con Kafka, lascia soli davanti alla legge.

«Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia». Così Fiori parlava alcuni anni fa della stagione dei propri esordi, avvenuti a metà degli anni ’80 nel bel mezzo di una crisi politica, collettiva e anche personale, dopo la fine delle esperienze di cantante e autore del gruppo rock e poi prog Stormy Six e la fine dell’attivismo politico tra le fila della sinistra extraparlamentare.

Questa, per lungo corso, è stata la spinta della produzione di Fiori, soprattutto dei primi tre libri (Esempi, Chiarimenti, Tutti); poi però, progressivamente si notano quelli che si potrebbero definire continui tentativi di recupero di sé tramite gli altri. Infatti, soprattutto nei più recenti libri Il Conoscente (2019) e Autoritratto Automatico (2023), anche se accenni c’erano già stati almeno a partire dal poemetto La bella vista (2002) e poi da Voi (2009), la perdita di una biografia dà il là per un suo recupero.

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Nel Conoscente, una sorta di autofiction o dramma in versi ambientato agli inizi degli anni ’80, cioè nel pieno di quella crisi prima accennata, appaiono così due personaggi in antica contesa, il Conoscente e il conosciuto. Quest’ultimo viene chiamato dal primo per nome e cognome: Umberto Fiori. Poi, in Autoritratto automatico, si fa addirittura un passo più in là, anzi sarebbe più giusto dire un passo più indietro, retrocedendo in direzione di una coincidenza tra chi dice io in poesia e l’autore. Si va dunque sempre più verso una forma privata e personale della propria identità, di fronte alla quale il protagonista diventa anche biograficamente Umberto Fiori. Questo avviene soprattutto nella prima parte del libro, Verso la faccia, che raccoglie poesie seriali sulla collezione delle proprie fototessere scattate per oltre quarant’anni come rito serio e divertente (ancora il Pierrot e l’Augusto); ma anche nel bellissimo dialogo (quasi filosofico-leopardiano) del Colloquio fra il Ritratto e un giovane Visitatore, in cui le due voci (i due personaggi) sviluppano una riflessione intorno alla collezione, al suo significato e più in generale alla ricerca della propria identità e perché no, della propria biografia.

Perdersi per ritrovarsi. Si potrebbe riassumere così il movimento del soggetto poetico nel corso di una produzione che, per fedeltà e tenuta, si mostra coerente e coesa.

Anche per quanto riguarda la presenza degli altri, nelle poesie dagli esordi a oggi, il discorso è simile: si passa dalle esistenze che sono più che altro cose tre le cose o attori messi in scena quasi del tutto mancanti di personalizzazione (uno, due, qualcuno, un tizio, nessuno, un passante, un vigile, tutti) dei primi libri, a personaggi più caratterizzati (paesaggistico-naturali, come La bella vista; o umani, Il Conoscente, Umberto Fiori), fino ad alcuni tu, affetti cari, delle sezioni finali dell’ultimo libro, in particolare in Seconda singolare (il padre, la zia Carla, l’amico musicista Tommaso Leddi, il fratello Andrea).

Tra questi, il personaggio più insolito e sicuramente quello più ambiguo, minaccioso e terribile è il Conoscente. Questa figura non appare tanto come uno dei diavolacci della diabolica decina dantesca in Malebolge che, guidati da Barbariccia e su segnale di Malacoda, scortano via dalla zona dei barattieri Dante e Virgilio. Quelli infatti intimoriscono e spaventano, ma alla fine sanno strappare e strapperanno sempre ai lettori (soprattutto ai più giovani) un sorriso per i loro modi comici, rozzi e goffi e soprattutto per il sonoro avanti-marsc: «Ed elli avea del cul fatto trombetta» (Inf. XXI, v. 139).

Il Conoscente sembra invece di altra schiera: travestito da yuppie, da «un ‘rampante’ perfettamente integrato nell’atmosfera ‘postmoderna’», così come si legge nella nota finale al libro, egli è un diavolo vero e proprio che, come ha fatto notare Dalmas, ricorda più le figure dell’«Avversario [o del] diavolo russo alla Dostoevskij o Bulgakov […] un nichilista totale», arrogante tuttologo che istiga, provoca e sfianca, riuscendo a ridurre tutte le cose alla parte più marcia a squallida della loro essenza. Inoltre, sembra essere l’incarnazione di quello che in Voi rappresentava il pronome di seconda persona plurale, ovvero «l’entità fantasmatica che […] assedia da ogni parte con accuse paradossali […] o con consistenti inviti e – infine proposte di giochi» (Le case vogliono dire, Manni Editori, 2023, p. 88).

Con il personaggio del Conoscente, Fiori sembra ritornare a una riflessione che sin dalle poesie di Esempi (1992) e poi per tutti gli altri libri è centrale: la necessità di riconoscere e distinguere tra ciò che spaventa e ciò che più profondamente angoscia; di scovare i loro diversi segni e realizzazioni. Infatti, a differenza della paura che, come in molte delle sue poesie, urla, strilla, sbraita in faccia all’altro, come un cane che ringhia e latra per difendersi, il male, che lascia «vuoto, scarico, molle» (Il Conoscente, n. 79), che lascia senza difese, che fa scoppiare a piangere, ha un altro volume, più segreto e nascosto. Il male, proprio come fa il Conoscente quando vuole castigare qualcuno, sussurra all’orecchio, colpendo singolarmente chi è preso di mira, separandolo così ed escludendolo da ogni possibilità di aiuto e conforto degli altri.

Il male isola e lascia soli. Inoltre, l’angoscia è moltiplicata dal fatto che il male, il Conoscente, non sembra avere un nome, dunque non è mai fino in fondo conoscibile. Questa è sicuramente un’idea fissa, una scoperta fatta propria fino ad averla interiorizzata a partire dalle letture di Kafka che, come mostrano anche le note critiche del bel libro La poesia è un fischio e del più recente Il metro di Caino (Castelvecchi, 2022), sono un riferimento sicuro e momenti di riflessione portanti e addirittura trainanti nella poetica di Fiori.

In fin dei conti, come si sarà intuito, non serve certo questo nuovo invito alla lettura dell’opera di uno dei poeti più sicuri della nostra contemporaneità, dopo i già molti e felici che sono stati scritti negli anni da De Angelis, Marchesini, Afribo e Zuliani (per fare solo alcuni nomi).

Ci si chiede, allora, parafrasando Saba, che cosa resta da fare ai lettori?

Nulla di più semplice, concreto e onesto, così come è la poesia di Fiori: riprendere in mano la sua opera – raccolta finalmente per Garzanti, con le aggiunte degli ultimi libri, dopo dieci anni dall’uscita del volume mondadoriano – e riscoprire che dopo aver letto (magari anche ad alta voce) le sue poesie, non si può più guardare alle cose attorno con gli stessi occhi: un muro cieco illuminato dal sole, la facciata di una casa che lascia intravedere interni sicuri ma separati, due che si scontrano sul marciapiede (Incontri), l’alone ancora tiepido della sbarra afferrata sul tram (Trasporti), le parole urlate durante una lite per strada, un tizio che grida il tuo nome e che ti vuole spacciare la verità (Il Conoscente), non sono più solo imprevisti banali ma diventano, per i lettori e le lettrici, situazioni acute, «piccoli guasti», come ha detto Afribo, riconoscibili e condivisi, capaci dunque di mettere in contatto con il mondo, con gli altri, di strappare un sorriso o «una smorfia da scimmie» (La frase idiota) sulle nostre facce di tutti i giorni sempre così tirate.

Pertanto, se è vero che la poesia non insegna, non dimostra mai nulla, ma può soltanto, quando è vera, mostrare, allora quella di Fiori ci mette di fronte alla possibilità di guardarsi di nuovo intorno, di «perdere tutte le bravure» e provare di nuovo a guardare per la prima volta il mondo («Le ombre che ci sfrecciano accanto / hanno una faccia, una voce» Il Conoscente, n. 55), i suoi spazi e i suoi eventi minimi, dove accadono per davvero le cose e noi con esse, dove le voci e le facce sono allo stesso tempo singolarità assolute ma anche potenzialità universali, scommesse comunicative che tornano a farci stupire, come il bambino «lanciato in alto, / che ride tutto, dalla testa ai piedi» (Le belle giornate).

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