Le donne di Ravensbrück: poesie
La recente pubblicazione, per i tipi dell’Enciclopedia della donne, dell’antologia poetica dal lager femminile di Ravensbrück curata da Anna Paola Moretti non dovrebbe lasciare indifferenti due categorie di lettori: gli appassionati di poesia e coloro che si pongono domande sulle dinamiche sociali e storiche – del Novecento, ma anche dei nostri anni, nella misura in cui certi fenomeni di violenza, disumanizzazione, discriminazione (di genere e non solo) di quel secolo sembrano talvolta proiettare echi o ombre anche sul tempo presente.
Boschi cantate per me, questo il titolo della raccolta, ci presenta circa cento poesie (tra cui quella della polacca Zofia Górska, che ha suggerito il titolo) scritte da cinquanta donne di molti paesi d’Europa – in maggior parte polacche, francesi, austriache, tedesche, ma anche olandesi, danesi, spagnole, sovietiche, italiane – che furono imprigionate nel Frauen Konzentrationlager (FKL) di Ravensbrück, il più grande campo di concentramento femminile del Terzo Reich.
Le poesie attingono a un più vasto corpus di 1200 testi raccolto dalla studiosa Constanze Jaiser e sono proposte in lingua originale (o, nei pochi casi in cui non è stato possibile risalire all’originale, in francese e inglese) e in ottime traduzioni italiane a fronte. Molte delle poesie furono scritte durante la prigionia, e in questi casi se ne riporta la data di composizione; altre immediatamente dopo, sotto l’urgenza della volontà di comunicare un vissuto quasi indicibile; altre ancora a maggiore distanza di tempo, per il bisogno di rielaborare l’esperienza o per volontà di continuare a testimoniare pubblicamente (secondo dinamiche comuni ad altri prigionieri-scrittori, per esempio Primo Levi), magari all’interno di un contesto propenso all’oblio quando non a negare i fatti, oppure moralisticamente giudicante nei confronti dell’esperienza femminile della deportazione.
Al corpus poetico la curatrice fa seguire una sua “postfazione”, che è in realtà un approfondito e partecipe saggio storico e critico. Moretti vi tratteggia la storia del campo, le vicende (interessantissime e talvolta sorprendenti) della trasmissione dei testi, quelle individuali e collettive delle prigioniere, la natura e la genesi delle poesie, il valore di questo mezzo espressivo come strumento di resistenza all’annientamento e quasi di sostegno alla sopravvivenza.
Preziose per la comprensione dei testi e del contesto, ma anche – scrive la curatrice – “atto di cura” e “restituzione dell’individualità”, le schede biografiche delle donne che hanno scritto. Le schede seguono le loro vicende di vita prima e in moltissimi casi (per fortuna) oltre l’esperienza del lager.
Aperto nel 1939, a ottanta chilometri da Berlino “sulle rive del lago Schwedt circondato da betulle e dune sabbiose; un luogo a prima vista ameno”, Ravensbrück era destinato a “rieducare” giovani tedesche classificate come asociali: testimoni di Geova, donne che avevano violato le norme sessuali naziste ma soprattutto oppositrici politiche: militanti comuniste, socialdemocratiche o in genere di opposizione. Nel corso della guerra nel lager affluirono donne dai paesi occupati, in gran numero dalla Polonia e dalla Francia. Molte di loro furono vittime dei rastrellamenti avviati (dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti: dicembre 1941) nell’ambito di un’operazione che la macchina repressiva nazista, attenta a quella che oggi diremmo “comunicazione”, aveva minacciosamente chiamato “Nacht und Nebel” (notte e nebbia). Un nome ispirato da una scena del wagneriano Oro del Reno in cui il nano Alberich sparisce per magia in un turbine di fumo.
In realtà, le internate di Ravensbrück a volte finivano davvero in fumo nei crematori del campo; se invalide al lavoro o malate, oppure, nelle fasi finali della guerra, quando affluirono nel campo prigioniere ebree trasferite da Auschwitz, evacuato sotto l’incalzare dell’Armata Rossa.
Ravensbrück non era, programmaticamente, un campo di sterminio (anche se delle 130.000 persone che vi transitarono, 90.000 persero la vita), ma sofferenze e atrocità erano all’ordine del giorno. A partire dal 1942 il medico personale di Himmler, Karl Gebhardt (impiccato a Norimberga) avviò su alcune prigioniere dolorosi esperimenti biologici; i neonati, figli delle deportate incinte, subivano una sorte miserevole. Il campo era però soprattutto, negli anni di guerra, il luogo in cui le donne erano costrette a un lavoro schiavile al servizio della macchina bellica tedesca.
A Ravensbrück operava infatti un impianto della Siemens Werke che produceva materiali elettrici e nei suoi sottocampi si lavorava ai missili V2. (A margine: nel dopoguerra la Siemens proseguì l’attività, così come la proseguì – sotto nomi di marchi diversi – la famigerata IG Farben, comproprietaria dell’azienda che riforniva di Zyklon B le camere a gas (i suoi consiglieri d’amministrazione, condannati come complici nel genocidio, erano già tutti liberi nel 1952).
Le vicende storiche del campo, a lungo trascurate da una storiografia poco attenta allo specifico della deportazione femminile (ma raccontate invece, tra gli altri, da Lidia Beccaria Rolfi, che compare anche nell’antologia) e le caratteristiche delle sue detenute sono un elemento di contesto indispensabile per comprendere la genesi e la natura delle poesie.
In particolare, le biografie presenti nel libro sono in tal senso molto indicative. Per esperimento abbiamo provato a scorrerle, seguendo l’ordine alfabetico: France Audoul: famiglia di artisti, studia belle arti, attiva nella resistenza a Tolosa; Anne-Marie Bauer: laureata in lingua e letteratura inglese con una tesi su Emily Brontë, si unisce alla resistenza e diventa responsabile del sistema per il lancio notturno di paracadutisti sulla Francia occupata; Lidia Beccaria Rolfi: maestra elementare, staffetta in una brigata Garibaldi a Saluzzo; Astrid Blumensaadt: membro del Partito comunista danese, svolge attività politiche durante l’occupazione nazista; Teresa Bromowicz: scrive prose e versi da quando aveva otto anni, laureata in filosofia, insegnante di scuola superiore, attiva insieme al marito nella resistenza in Polonia; Antonia (Toni) Bruha: giornalista a diciotto anni per giornali operai cechi a Vienna e Praga, comunista, attiva dal 1934 in gruppi antifascisti; Rosa Cantoni: figlia di un tipografo, sarta e poi operaia, in fabbrica scrive in friulano, e diffonde, poesia contro il fascismo. Staffetta in una brigata Garibaldi e fondatrice di un giornale clandestino, “La donna friulana”, il 25 luglio distrugge un ritratto del duce sulla parete dello spogliatoio. E si potrebbe proseguire.
A Ravensbrück si trovava anche Germaine Tillion (la cui vicenda è stata ben raccontata su questa rivista), etnologa e militante politica, che ebbe la forza di comporre, nel campo, una operetta satirica: la sua “salvazione del riso”, secondo una espressione usata da Primo Levi.
Il quale, in una pagina di I sommersi e i salvati registrava, salvo casi isolati, la mancanza di solidarietà tra i deportati di Auschwitz, “monadi sigillate” e una diffusa assenza di speranza e di volontà di resistere. Osservava però che “i credenti vivevano meglio”, inserendo nella categoria non solo i rabbini, i sacerdoti, i testimoni di Geova, ma anche i militanti politici, e ammetteva che “il dolore, in loro e intorno a loro, era decifrabile e perciò non sconfinava nella disperazione”.
La situazione relativa a Ravensbrück era diversa da quella descritta da Levi, proprio alla luce della presenza di “credenti”. Il saggio di Anna Paola Moretti mette in evidenza, pur tra difficoltà legate alla differente provenienza delle prigioniere, che tendevano a formare gruppi di connazionali che comunicavano poco l’uno con l’altro, una diffusa volontà di resistere, di tenere viva la speranza, e una efficace rete di relazioni solidali, magari in una forma di “solidarietà ristretta” tra vicine di letto, di lavoro ecc. Giocava certo un ruolo importante anche la formazione politica di molte prigioniere, come abbiamo visto scorrendo le biografie.
Sono diversi gli episodi di resistenza ricordati nella postfazione: dal sabotaggio della produzione e dal rifiuto di una specie di “gratifica straordinaria” da parte dei dirigenti della Siemens (“Un regalo!” racconta Mirella Stanzione “Volevano darci […] un sacchetto di sale come regalo, ma poi decisero di darci due marchi […] Ci siamo messe in fila […] e abbiamo detto: Nein! Non accettammo niente”) agli scambi di numero di matricola delle candidate agli esperimenti medici (le “conigliette”, nel mostruoso gergo del lager) con quelli di donne già morte; dalla formazione di embrionali comitati di resistenza, alla stesura di un appello (nella primavera del 1944, tra le sue ispiratrici Maria Rutkowska, autrice anche di alcune poesie) che recitava: “Vogliamo che i nostri figli considerino la vita umana libera come il bene supremo […] Nella convivenza tra i popoli, l’uguaglianza sociale e la giustizia devono sostituire ogni tendenza al dominio”. Straordinaria e toccante una distribuzione di doni per il Natale del 1944 ai bambini superstiti: bambole, palloni ricavati da stracci, dando fondo alle cassette per il cucito. Una anonima austriaca trasse da questo episodio una splendida ballata che nel metro e nelle cadenze popolari ricorda certi componimenti di Heine o di Brecht e che sarebbe un peccato non riportare anche solo parzialmente qui:
In trentadue blocchi si levò un mormorio,
In trentadue blocchi si accese lo stupore
guarda, i cuori delle donne, avevano ancora la forza
di creare nella fortezza dell’odio una festa d’amore:
un Natale per i bambini, un piacere per i bambini.
Là si placa la disperazione, là si solleva il petto,
ritorna l’immagine di un’infanzia felice
nel campo di concentramento di Ravensbrück.
E c’erano anche molti sgherri, sì, ma non abbastanza,
si sognarono bambole e nani,
dimenticando la maledizione del presente.
Si arrangiarono regali di nascosto e tutte si davano da fare
malata, paralizzata o sofferente, nessuna qui voleva riposare.
Cassettine del cucito, bamboline e animaletti – c’erano così tante cose,
e le ragazze della Cecoslovacchia cucirono di nascosto
duecento palloni per bambini
per la festa di Natale a Ravensbrück.
(traduzione di Daniela Maurizi)
Non meno interessante è scoprire i modi in cui le poesie sono arrivate, materialmente, a noi. Alcune sono state ritrovate – insieme a lettere, documentazioni di crimini e disegni – in un barattolo di vetro sepolto nella foresta di Neubrandeburg su iniziativa di prigioniere polacche attive in attività di resistenza. Altri testi risultano trascritti in libretti confezionati clandestinamente da prigioniere cecoslovacche: fogli di carta rimediata ove possibile e protetti da copertine fatte di stracci di biancheria. Secondo le testimonianze di deportate, i libretti sarebbero stati decine e decine, molti, purtroppo, perduti.
Spesso i testi erano composti oralmente, trascritti appena possibile nel campo e tramandati a memoria da altre prigioniere. È il caso della poesia Wymarsz (Marcia della libertà) di Krystyna Żywulska, scritta ad Auschwitz ma diffusa a Ravensbrück prima del trasferimento della sua autrice grazie ad altre detenute trasferite che l’avevano memorizzata attraverso un miracoloso passa-parola.
Il fatto è che le poesie erano una parte importante della vita delle prigioniere. Scritte in segreto, “erano spesso composte durante l’appello, alla chiamata al lavoro o nelle baracche prima di addormentarsi; i versi venivano recitati insieme e memorizzati […] anche tradotti in altre lingue”. La francese Violette Maurice racconta che ogni mattina cercava di resistere guardando il cielo e ripetendosi poesie. Un’altra francese, Claudine Fourel, autrice della poesia Bouquet de roses, racconta di averne pensato il senso e le immagini e poi di aver impiegato molto tempo “per trovare le parole, le rime, il ritmo, il numero. Piedi che contavo coscienziosamente”.
Di questo testo, in terzine di due alessandrini più un settenario, con incatenamento di rime, riportiamo l’inizio:
Cette nuit, j’ai rêvé d’un bouquet de roses.
Et ces roses ont mis en mon âme engourdie
Une fraîcheur nouvelle
Cette pure vision m’a doucement ravie
Et me poursuit encore, comme une belle chose
Que j’aurais vue, réelle.
Stanotte ho sognato un mazzo di rose.
E queste rose hanno trasmesso alla mia anima intorpidita
Una nuova freschezza.
Questa visione pura mi ha dolcemente incantata
e ancora mi insegue come una cosa bellissima
che abbia visto, reale.
(traduzione di Maria Luisa Vezzali)
Le rêve, insomma, da solo non bastava all’autrice: perché la aiutasse a superare l’annientamento c’era bisogno che si cristallizzasse in precise e scandite parole, con ritmo e rima che si imprimessero nella mente, sua e delle compagne.
La poesia tornava così, paradossalmente, alle sue origini quasi naturali: parola organizzata in modo speciale per essere ricordata e ripetuta nella voce o nella mente di molte.
Sono diverse le testimonianze che richiamano esplicitamente questa dimensione collettiva e per così dire “biologica”, vitale delle poesie di Ravensbrück. Per esempio quella di Zofia Górska: “Che cos’è la poesia? – È quello che qualcuno ha saputo mettere in parole che altri condividono. Lei parla a loro nome. È una parola che aiuta a sopravvivere. Collettiva. Rimata e ritmata il più possibile per aiutare la memorizzazione, per arrivare da un Blocco all’altro e oltre il filo spinato. In modo che il mondo sappia dopo di noi. Rima e ritmo esistono anche per la bellezza, ma soprattutto per ragioni mnemoniche, come all’inizio, come al tempo dei bardi”.
Per le donne di Ravensbrück, il famoso caveat di Adorno, per il quale sarebbe stato impossibile fare poesia dopo i lager (avvertimento del resto ridimensionato dallo stesso filosofo) sarebbe apparso poco comprensibile. Strumento che aiutava a vivere, a esprimere fraternità (diversi testi sono doni amicali per altre prigioniere), la poesia aiutava anche a delineare il futuro e a esprimere la fede ostinata in un avvenire diverso. È il caso della Lettera a mia figlia (1942) di Felicie Mertens, di cui riportiamo un estratto:
Mi ricordo di quando ti hanno strappato
brutalmente dalle mie braccia e ti ho detto:
non piangere, piccolina, davanti agli uomini in nero!
Allora con il dorso della mano ti sei asciugata le lacrime
guardando verso di me!
E io di fronte a quel gesto, mi sono dovuta controllare.
Ho sentito il mio cuore di madre tremarmi in petto,
poi ti ho detto: Scappa! Corri dai nostri amici
e di’ che stamattina hanno arrestato tua madre,
e ho visto la tua fragile figura scomparire dietro l’angolo
mentre quei bruti cercavano
sul mio viso il dolore
provocato dalla tua partenza,
ma non l’hanno avuta vinta.
Io non ho pianto.
Ascoltami, figlia mia, ho fede nell’avvenire,
ma da questa dura lotta
potrei non tornare mai più.
E allora, piccola mia, non devi mai dimenticare,
e quando sarai donna, dovrai fare il tuo dovere,
perché cose simili non possano mai più accadere.
(traduzione di Jessy Simonini)
Leggendo questa poesia, è difficile non ritrovarvi gli accenti diffusi nelle Lettere di condannati a morte della resistenza europea (Einaudi, 1963). Nella Prefazione (1954), Thomas Mann opponeva la loro carica di speranza a una situazione che descriveva così: “Viviamo in un mondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso e avido di persecuzione si accoppia al terror panico; in un mondo alla cui insufficienza intellettuale e morale il destino ha affidato armi distruttive di raccapricciante violenza […] L’abbassamento del livello intellettuale, la paralisi della cultura, la supina accettazione dei misfatti di una giustizia politicizzata, il gerarchismo, la cieca avidità di guadagno […] prodotti, o in ogni caso promossi, da due guerre mondiali, sono una cattiva garanzia contro lo scoppio di una terza, che significherebbe la fine della civiltà”.
Parole sorprendentemente attuali che possono accompagnare anche questa antologia.