Equiseti, le code di cavallo dei boschi
Corrado, il solitario e rancoroso protagonista della Casa in collina di Cesare Pavese, è un insegnante di scienze appassionato di botanica. Gli piace camminare nei boschi tra le essenze selvatiche. Quando all’osteria delle Fontane ritrova Cate, la sua prima fiamma giovanile, nelle esplorazioni naturalistiche porta anche Dino, figlio di lei (e forse anche suo), sperando di coinvolgerlo su un terreno comune, e ingraziarselo.
Una cosa che lo esaltava erano i mostri preistorici e la vita dei selvaggi. Gli portai altri libri illustrati, e giocavamo a immaginarci che in quella conca sul sentiero del Pino, tra i muschi e le felci, in mezzo agli equiseti, fosse la tana dei megateri e dei mammut.
Pavese sceglie un’ambientazione perfetta per quel gioco: come le felci, gli equiseti sono i dinosauri della vegetazione ma, a differenza dei rettili giganti, non si sono estinti e sono giunti sino a noi benché in scala ridotta rispetto ai loro progenitori che, alti come alberi, popolavano le foreste del Devoniano. Sono piante primitive, della divisione delle pteridofite – pare sia in disuso il termine crittogame – si riproducono infatti tramite spore e non per seme come le Angiosperme. Prediligono zone umide e sabbiose, sponde di fossi e corsi d’acqua, ombrose depressioni boschive. Così ce ne parla Alberto Nessi, poeta ticinese di spiccata sensibilità naturalistica, nella prima strofa di Aconito, equiseto, frassini e altre piante (La seconda bellezza. Poesie vegetali, Interlinea 2022):
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Dal ventre della terra si fa strada
l’acqua, dall’Orimento e dalla Crotta
l’acqua è più saggia di noi, non conosce
frontiere. E passando si rinnova
guarda i pensili nidi sulle coste
– Casima Monte Campora Bruzella
Cabbio Caneggio Morbio Sopra Castello –
ascolta le storie dei paesi, nascosta nel verde
le accoglie nel concerto del suo organo
cupo nei giorni di tempesta
orbettino lucente a primavera,
vede l’azzurro aconito, la felce
l’equiseto che viene dal fondo dei secoli
e fiorisce sul sangue dei suicidi.
Non so che centrino i suicidi. Ma quel «fondo dei secoli» è espressione poeticissima.
In verdi, uterini anfratti, nell’imo originario della natura, li situa in modo opportuno anche Marina Cvetaeva. Nella furiosa poesia La donna pantera alla guerra d’amore, tratta da Versi per l’orfano (1936), si immagina un rifugio dove nascondere l’amato, avvolgerlo nel mantello rorido, nel molle ventre della terra per sottrarlo all’accadere del mondo:
Se potessi prenderei
nell’utero della caverna:
nella caverna del drago,
nell’anfratto della pantera
con queste zampe di pantera,
se potessi prenderei.
In seno alla natura, nel letto della natura.
Se potessi questa pelle di pantera mi sfilerei…
La affiderei all’anfratto: che serva allo studio!
Del folto, dell’edera, dell’equiseto e del fiume,
là, dove nel sopore, nel buio e nella lotta,
si intrecciano i rami in vani matrimoni…
Là, dove nel granito, nel tiglio e nel latte,
si intrecciano le mani in perpetui legami
come i rami e i fiumi…
Nella caverna senza luce, nell’anfratto senza orma.
Nel folto, nel verde, e nel verde come in un mantello…
E non il vasto mondo, e non il pane nero:
nella rugiada e nel folto, nel folto come in un vincolo…
Purché alla porta non si bussi,
alla finestra non si gridi,
purché più non si verifichi,
purché nei secoli non si concluda!
Ma è poco una caverna,
è poco un anfratto!
Se potessi prenderei
nella caverna dell’utero.
Se potessi
prenderei.
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Se Pavese, Nessi, Cvetaeva mostrano un’avvertita attenzione botanica, non si può dire altrettanto di una brava poeta contemporanea, Anna Lamberti Bocconi. Le si perdonano volentieri peccati vegetali, pur non veniali, come quelli che s’incontrano in questi suoi versi:
Ti paragono all’ombra delle piante
che non so neanche i nomi; ti somiglio
all’equiseto dalla larga foglia,
infiorescenza a ombrello. Sei inventata,
in questo gioco, in questo giorno, come
una quercia imperiale, carolingia
un pruno che si imprime sugli stemmi.
Ti paragono al sole sulle piante
che fa del bosco un Duomo trapuntato
pioggia di luce verde dappertutto
sui nostri volti attoniti e silvani,
luce che con gli zuccheri di linfa
mette in appretto gli abiti dei nani
li fa carini per andare a nozze.
Ti paragono all’acqua alle radici,
l’acqua la quale colma ogni coppella
diamantina e segreta. Vorrei bere,
o soltanto guardare. Vorrei avere
padronanza del mito che ti ha fatto,
corrente e ruscellante, per muschiarmi
le vene con il solo tuo pensiero.
Ti paragono a certe grandi piante
spoglie nell’invernale gelo nero
ghiacciate con i rami ai quattro venti
scheletrica distesa, quando passa
come una primavera di terrore
che in un momento ti schianta la scorza
e gemma tutto perché ti somiglio.
Dell’equiseto, Lamberti Bocconi, pare sappia il nome che, certo, suona assai musicale, ma è legittimo chiedersi se lo applichi all’erbacea perenne corrispondente al regesto botanico. Gli equiseti, ahimè, non hanno «larga foglia», né «infiorescenza a ombrello». Licenze, si dirà, di fantasia poetica. E va bene. Ma per la nostra scheda descrittiva urge benevola correzione.
Di loro esclusiva pertinenza è la famiglia delle Equisetaceae, e il nome del genere è composto dal latino equus e saeta (pelo, crine di cavallo), dovuto all’aspetto dei fusti sterili, da qui il nome popolare di “coda di cavallo”. Sul nostro territorio nazionale sono presenti una decina di specie, svernanti e non, delle trenta conosciute, senza tener conto degli ibridi che con facilità si formano in natura quando specie diverse si trovano a convivere.
Mi soffermo su quelle da noi più diffuse, ma un cenno merita l’Equisetum giganteum originario del Messico e del Sudamerica, che può raggiungere i cinque metri d’altezza e stupire per la versatilità ornamentale. Se andate a Oaxaca, visitate il meraviglioso Jardín Etnobotánico, presso il convento di Santo Domingo, ne ammirerete di straordinari.
Ma accontentiamoci dei nostrani: come tutti i congeneri l’Equiseto dei campi (Equisetum arvense) è una pianta geofita rizomatosa che, annualmente, dal fusto sotterraneo (rizoma) mette radici e steli avventizi, sia fertili sia sterili. I primi, alti circa 10-20 centimetri hanno breve durata, privi di clorofilla sono di colore biancastro, con guaine ad ogni internodo dai piccoli denti bruni, lanceolati (foglie modificate, più propriamente dette microfille), e una spiga terminale (strobilo) dall’apice ottuso ricoperta di piccoli scudi rossicci (gli sporofilli) che, a maturità, tra marzo e maggio, liberano le spore. Assolto così il loro compito fecondante, avvizziscono e muoiono lasciando il posto ai fusti sterili. Questi, ben più alti (50 cm), sono verdi, cavi ed eretti, dalla superficie ruvida, a ogni internodo mostrano guaine con piatti dentini acuti, rami verticillati di sezione triangolare o tetragonale, più brevi verso il vertice del fusto. Più raro e attraente è l’Equisetum sylvaticum dai lunghi fusti sterili piumosi d’un bel verde acido e luminoso che non sfigurerebbero sulla tesa di un cappello di gala. A differenza del campestre si rinviene solo nelle nostre regioni settentrionali e sviluppa pressoché in contemporanea entrambe le tipologie dei fusti.
I fusti sterili degli equiseti sono ricchi di silicio oltre che di acido ossalico e sali di potassio perciò, fin dall’antichità, erano usati come rimedio per curare edemi e ferite ma anche per lucidare pentole o levigare legni e metalli. Ancor oggi entrano nei composti farmaceutici e fitocosmetici per le proprietà antisettiche, rivitalizzanti e remineralizzanti, diuretiche e depurative. I germogli dei fusti fertili, raccolti prima che induriscano, possono essere consumati crudi in insalate e cotti in svariate preparazioni.
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Se in giardino avete un angolo umido con luce filtrante, magari uno stagno, e se amate le canne d’un bel verde intenso, tenaci anche d’inverno, ottime per una quinta scenografica, quelle dell’Equisetum yemale fanno al caso vostro. Ma anche coltivate in vaso, in idrocoltura, conferiscono agli ambienti un’eleganza nipponica. Capaci di resistere a temperature rigide (-20°), hanno fusti omomorfi alti fin quasi due metri, dritti e poco ramosi, assai scabri per l’alta presenza di papille silicee, corte guaine anellate di nero alla base terminanti in bruni strobili: in massa se ne apprezza l’essenziale, leggera verticalità.
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