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Rossana Campo: Intimità e resistenza narrativa

23 Marzo 2025

Il quinto appuntamento della nostra rubrica bimestrale di conversazioni psicosociali ci conduce a Roma, dove incontriamo Rossana Campo, scrittrice vincitrice del Premio Strega Giovani 2016, femminista e queer “prima che il queer fosse inventato”, come afferma Daria Bignardi. Sin dai suoi esordi, con In principio erano le mutande (1992), la sua scrittura ha esplorato vite fuori dagli schemi, corpi e desideri fluidi, personaggi che sfidano le categorie rigide imposte dalla società. Da qualche settimana, è in libreria con il suo nuovo libro Libere e un po' bastarde.

In che epoca stiamo vivendo?

Siamo sicuramente in un'epoca complessa e difficile. Oggi, se osserviamo la società, ci accorgiamo che molti valori e codici tradizionali sono cambiati. L'intimità e il concetto di privacy, che un tempo definivano il nostro modo di interagire con gli altri, sembrano svaniti. Ora, tutto è diventato pubblico, e non mi riferisco solo alle informazioni che condividiamo sui social, ma anche alla perdita di una certa riservatezza. Le persone si sentono libere di esprimere ogni pensiero, senza preoccuparsi delle implicazioni, e questo, a mio parere, ha generato una confusione generale. Tuttavia, come accade da sempre, le generazioni più anziane tendono a lamentarsi dei giovani, dicendo che non sono più quelli di una volta, che la morale e l'educazione sono andate perdute. Eppure, nella storia, cambiamenti simili si sono verificati in ogni epoca. Pensiamo agli anni di Tangentopoli o ai vent'anni sotto Berlusconi, periodi difficili che hanno segnato profondamente il nostro paese. Nonostante tutto, è interessante notare che ogni periodo ha le sue sfide, e ciò che oggi ci sembra terribile non è affatto un fenomeno nuovo.

Qual è, quindi, il vero problema di oggi?

Il rumore.

La rapper italiana Marya scriveva nei primi anni 2000 che siamo “bombardati dall’effetto rumore”.

Il rumore e la sovrabbondanza di opinioni non ponderate, sono un caos che sembra impossibile da domare. I media e i social ci mostrano una società in continua accelerazione, dove ogni tabù sembra abbattuto, ma allo stesso tempo si perde il senso dell’intimità e della privacy. Un tempo c'erano confini più netti tra ciò che era pubblico e ciò che rimaneva privato, e ora questi confini si sono fatti sempre più sfocati. Non voglio fare un discorso moralista, ma è innegabile che qualcosa è cambiato profondamente. Tuttavia, queste riflessioni non sono nuove. Ogni generazione ha il suo 'grido di allarme' per il cambiamento dei tempi.

Come stai vivendo questo cambiamento? E come lo percepisci nella letteratura?

Nel campo della letteratura è particolarmente evidente! Quando sono nati i social media e con essi le recensioni online, ho avuto una crisi. Mi ricordo che leggevo recensioni su libri che per me erano sacri – come quelli di Virginia Woolf o I fratelli Karamazov – e mi dicevo: 'Ma cosa sta succedendo? Perché c'è tanta superficialità?' La velocità con cui ognuno può esprimere un'opinione, senza alcuna preparazione o consapevolezza critica, è disarmante. È come se la lettura fosse diventata un esercizio superficiale, un atto di distrazione più che di riflessione profonda. Sì, c'è una sorta di 'rumore' costante che ti mette a disagio, ma che è anche il segno di una società che ha smesso di pensare in profondità.

Mi sembra che questo "rumore" che descrivi sia proprio il cuore della nostra epoca. Ma in questa confusione, possiamo ancora trovare un luogo dove 'coltivare l'anima'?

Questa è la grande domanda. In effetti, oggi sembra che stiamo correndo sempre più velocemente verso la superficialità, ma credo che ci sia ancora un grande bisogno di trovare uno spazio autentico per riflettere, ascoltare, comprendere. E forse, nonostante tutto, è proprio in questo caos che possiamo cercare nuove forme di intimità e connessione, più profonde, più vere. La sfida oggi non è solo 'sopravvivere' in un mondo che cambia, ma riuscire a coltivare l’anima in mezzo a questa tempesta. Non è facile, ma penso che la ricerca di spazi di riflessione e di connessione profonda sia più che mai necessaria.

Tu parli spesso di "fare anima" nella scrittura. Cosa significa per te e come lo vivi?

Per me, "fare anima" è un processo profondo che riguarda il contatto con il nostro mondo interiore. La scrittura è uno strumento privilegiato, una porta che permette di entrare in connessione con la parte più autentica di noi stessi, lontano dai ruoli sociali che dobbiamo interpretare ogni giorno. Credo che la letteratura, come la psicoanalisi e altre forme di arte, ci permetta di esplorare queste dimensioni sotterranee dell'anima. Non lo vedo come un atto di auto-esplorazione fine a se stessa, ma come un tentativo di entrare in dialogo con la vita, di capirla e di sentirne le radici. Non si può fare anima quando siamo impegnati nelle convenzioni sociali o nei ritmi frenetici della vita quotidiana, ma quando siamo in uno spazio di solitudine e riflessione. Questo è il luogo dove la scrittura, come ogni altra arte, può rivelarsi un potente strumento di connessione con noi stessi e con gli altri.

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In un’epoca in cui tutto sembra esposto, condiviso, reso pubblico in un istante, in un mondo sempre più rumoroso e affollato di voci, cosa succede alle persone?

Oggi tutto si muove a ritmi accelerati. Il dibattito pubblico si riduce spesso a un’arena digitale dominata dal narcisismo e dalla necessità di appartenenza. I social media hanno amplificato questa dinamica: abbiamo dato un microfono a miliardi di persone, molte delle quali lo usano senza consapevolezza critica. Non solo ci siamo abituati a mostrare tutto, ma abbiamo anche smarrito la distinzione tra intimità e pubblico. Un referto medico, una foto dal letto d’ospedale, il dolore esibito con un click: la sofferenza diventa contenuto e, paradossalmente, si svuota di significato. Mi colpisce molto vedere quante persone condividano dettagli intimi della loro vita, come malattie, lutti o dolori profondi, sui social. Non è tanto il fatto che se ne parli pubblicamente che mi sconvolge, quanto il modo in cui viene fatto.

Che alternativa proponi?

Quando attraversiamo momenti difficili, credo che dovremmo ritirarci un po' in noi stessi, cercare di entrare in contatto con le nostre fragilità in modo intimo e privato, per poterle affrontare davvero. Esporre queste sofferenze pubblicamente, postando foto o referti medici, toglie a questi momenti la possibilità di essere vissuti come esperienze profonde e personali. La differenza, per me, sta nel fatto che se siamo onesti con noi stessi, non abbiamo bisogno di mostrare a tutti ciò che stiamo attraversando per sentirci validi o compresi. Dobbiamo imparare a rispettare il nostro dolore, a dargli uno spazio che non sia sotto i riflettori del mondo esterno.

La perdita di intimità è una questione generazionale, o c'è qualcosa di più profondo?

Da un lato, è vero che ogni generazione tende a guardare con nostalgia a un passato che appare migliore, più 'puro'. Ma, dall’altro, c’è anche la consapevolezza che viviamo in un mondo dove tutti sentono il bisogno di dire la propria opinione su tutto, senza un vero impegno critico. Questo può essere esasperante, specialmente per chi ha vissuto epoche in cui le cose non venivano così facilmente 'urlate' al mondo. Tornando all'intimità, credo che il punto centrale sia che il nostro rapporto con il privato sta cambiando radicalmente, e questo genera confusione. Abbiamo perso una certa educazione alla discrezione. La questione dell’autenticità diventa allora centrale. Se fare anima significa coltivare un rapporto autentico con se stessi e con gli altri, allora la sovraesposizione digitale sembra andare nella direzione opposta. Esporsi continuamente, cercare validazione attraverso i like, significa spesso eludere il confronto con le proprie parti più fragili. Significa: non riesco a stare con me stesso/a, ho bisogno di voi che mi dite qualcosa per annegare la mia solitudine.

Tu non condividi molto di te stessa sui social.

Perché dovrebbe interessare agli altri vedere la foto della mia colazione o i dettagli della mia vita quotidiana? Non scrivo mai dettagli troppo privati. Quando condivido qualcosa, lo faccio solo con le persone che conosco bene, i miei amici. I social, a volte, possono sembrare un riflesso troppo distorto della realtà, e io non vedo il motivo di farne parte. Eppure l'autofiction oggi sembra una necessità, come se ogni scrittore dovesse fare un atto di auto-esposizione totale per essere riconosciuto. Ma scrivere per me è sempre stato un atto di elaborazione, non di esibizionismo.

Quindi la scrittura per te non è una mera catarsi?

Scrivere è un modo di elaborare ciò che mi succede, ma non è solo un processo terapeutico. È una scelta letteraria, una necessità per aggrapparmi alla vita. Come scrittore, devi cercare qualcosa di più di una semplice confessione. La scrittura è ritmo, è la lingua che crea vita e movimento nei personaggi. Io voglio che ogni parola abbia il suo peso, che i miei personaggi abbiano un'anima. Se ho attinto alla mia autobiografia, l’ho fatto perché è un mezzo per arrivare a qualcosa di universale. Non è mai soltanto una storia personale, ma un vero e proprio lavoro letterario.

Un lavoro letterario in cui i tuoi personaggi – o meglio, le donne che racconti – non sono mai la stessa persona, non sei mai tu, eppure, in qualche modo, sono profondamente te?

Non sono mai la stessa persona, anche se ci sono dei tratti in comune, ed è proprio questo il mio modo di giocare con l'autobiografia. Questo è il cuore della mia arte: una mescolanza di autenticità e distacco.

Daria Bignardi ha scritto che i tuoi personaggi erano queer prima che questa definizione diventasse di uso comune. Ha ragione?

Il concetto di "queer" è qualcosa che è sempre stato presente nella mia scrittura, ma non come etichetta. Non mi sono mai chiesta se fossi "moderna" o "queer". Mi sono semplicemente raccontata e ho raccontato le storie che conoscevo, quelle che appartenevano alla mia vita, alle persone che frequentavo. I miei personaggi non si conformano alle definizioni di genere tradizionali, e questo non era un tentativo di essere provocatoria, ma semplicemente un riflesso di ciò che ho vissuto. E anche se i miei riferimenti letterari venivano da autori come Simone de Beauvoir o Virginia Woolf, che raccontavano storie di donne complesse, io cercavo sempre un legame con la mia realtà. Non era una questione di appartenenza a un movimento, ma di sentirsi liberi di vivere e amare come ci viene naturale.

Poi, con Dove troverete un altro padre come il mio, il tuo registro è cambiato. E hai vinto il Premio Strega Giovani.

Quando ho iniziato a scrivere di mio padre, subito dopo la sua morte, si trattava semplicemente di dare uno spazio e senso al dolore. Non avevo neppure l’intenzione di farne un libro. Ho raccolto frammenti: le sue parole, i suoi detti, i suoi gesti—tutto ciò che mi mancava e che lo definiva. Da quel dolore, però, sono nati dei personaggi. Ho cercato di andare oltre, di trasformare quei ricordi in storie capaci di trovare il loro posto nella letteratura. Non stavo soltanto raccontando una sofferenza personale, ma dando forma a qualcosa di più ampio, che potesse risuonare in chi legge.

Quello che hai fatto potrebbe avvicinarsi a ciò che noi junghiani chiamiamo immaginazione attiva—un processo ben diverso dalla condivisione digitale, che spesso viene scambiata per connessione ma, in realtà, svuota di significato il privato. Questa è una delle grandi illusioni del nostro tempo, non trovi?

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Dobbiamo trovare nuove forme di intimità, di racconto, di esperienza condivisa che non siano ridotte a merce di scambio digitale. Dobbiamo recuperare il valore del silenzio, della parola che non ha bisogno di essere immediatamente postata, dell’esperienza che resta nostra prima di essere trasformata in contenuto. E forse, in questo spazio che resiste alle logiche del consumo, possiamo ancora trovare un modo di fare anima.

Questo è ciò che Carl Gustav Jung fece inizialmente, annotando i suoi pensieri in quelli che oggi conosciamo come I Libri Neri, per poi trasformarli nel magnifico Libro Rosso. Entrambi sono esempi straordinari di autenticità. Ma l’autenticità è davvero solo una sfida individuale?

È anche un atto culturale, un modo di resistere a una società che tende a omologare le esperienze e a trasformare tutto in merce. Nella scrittura, come nella psicoanalisi, questo significa non limitarsi a raccontare ciò che si è, ma trovare un modo per dare forma a qualcosa di più universale, capace di toccare il lettore in profondità. La scrittura, sono convinta, è sempre un atto letterario, non una semplice esposizione di sé. Ed è qui che si gioca la vera resistenza.

Resistenza?

Sì! La letteratura come spazio per l’anima!

Cosa intendi?

Se l’anima avesse ancora un posto nella società contemporanea, quel luogo potrebbe essere la letteratura. Leggere e scrivere permette di accedere a una dimensione più profonda, di immergersi in un ritmo che non è quello frenetico dell’attualità, ma quello delle radici della vita stessa. Infatti, quando scrivo, sento che sono in autentico contatto con me stessa. Non per un ripiegamento narcisistico, ma per un atto di apertura. La letteratura permette di creare ponti tra le esperienze, di far risuonare voci diverse, di esplorare contraddizioni senza ridurle a slogan.

Un po’ come nelle tue storie, dove le protagoniste sono cresciute insieme a te, attraversano le età della vita senza nascondere le trasformazioni del desiderio, del corpo, del dolore, della consapevolezza…

Dobbiamo imparare a stare dalla nostra parte. Questa è una delle lezioni più importanti che emergono dai miei libri, soprattutto per le donne, spesso educate a mettere gli altri prima di sé. Questa idea di resistenza passa attraverso il linguaggio, attraverso il coraggio di raccontare storie autentiche, senza la necessità di definirsi, etichettarsi, aderire a un modello preconfezionato.

Grazie Rossana e in bocca al lupo.

Viva la pupa!

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