Luigi Zoja: cosa sta succedendo oggi?
Il quarto appuntamento della nostra rubrica bimestrale di conversazioni psicosociali ci porta a Milano, dove incontriamo Luigi Zoja, il più influente psicoanalista junghiano italiano e già presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica. Antonio Scurati lo definisce «uno dei pochi autentici pensatori italiani contemporanei».
Zoja ha completato la sua formazione presso il C. G. Jung-Institut di Zurigo, città in cui ha vissuto e lavorato per molti anni. Oltre ad essere uno psicoanalista di fama internazionale, è anche un prolifico saggista e scrittore, che ha esplorato temi quali la paternità, la violenza, l’alienazione sociale, le dipendenze e la paranoia collettiva. Tra le sue opere più significative vi è La morte del prossimo (2009), un’analisi profonda del progressivo distacco emotivo e morale che caratterizza la società moderna, con la perdita del senso di comunità e della relazione con l’‘altro’. Un altro testo fondamentale è Paranoia: La follia che fa la storia (2011), dove indaga le dinamiche paranoiche collettive, mostrando come l'irrazionalità e il sospetto possano plasmare il corso della storia e della politica. Un tema centrale nelle sue ricerche è anche la paternità, che esplora nel libro Il gesto di Ettore: Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), in cui analizza l’evoluzione della figura paterna attraverso le epoche e i cambiamenti che ha subito nella società contemporanea. Il suo ultimo libro si intitola Narrare l’Italia: Dal vertice del mondo al Novecento (2024).
SC: Ciao Luigi, grazie per aver accettato ancora una volta il mio invito. Sembra quasi che, ogni volta che il mondo va un po' a rotoli, ci ritroviamo a parlare di cosa sta succedendo. Mi viene in mente la famosa citazione di Amleto: 'The world is out of joint.' Luigi, cosa sta succedendo oggi? Come possiamo definire l’epoca che stiamo vivendo?"
LZ: Per comprendere meglio la situazione, è necessario adottare una prospettiva esterna, qualcosa che io cerco di fare spesso facendo un passo indietro e applicando ciò che Levi-Strauss chiamava Le regard éloigné. Questo concetto rimanda al metodo antropologico di osservare le culture e le società da una prospettiva distaccata, oggettiva e comparativa. È come ampliare il campo visivo con un grandangolo, anche se ci rendiamo conto che la nostra capacità di osservare resta limitata. Detto questo, la nostra comprensione del mondo, in particolare del ventesimo e ventunesimo secolo, cambia rapidamente. Ogni decennio porta rinnovamenti tali che forse dovremmo smettere di parlare di secoli e concentrarci più sulle generazioni. Non in modo semplicistico, come le classificazioni americane che suddividono le generazioni in base a decenni o alla classe media, ma considerando l'influenza della cultura globale, soggetta a pressioni di ogni tipo.
SC: Ci puoi fare un esempio?
LZ: Pensiamo, ad esempio, alla reazione confusa che l'Occidente sta avendo riguardo al conflitto israelo-palestinese. Il panorama attuale del conflitto israelo-palestinese ha sollevato nuove domande, non solo in Medio Oriente, ma anche in Occidente, dove i tradizionali allineamenti sembrano sfaldarsi. Ciò che un tempo era percepito come un fronte comune di posizioni laiche e progressiste, spesso provenienti dagli ambienti accademici statunitensi, oggi appare sempre più frammentato. Da un lato troviamo i difensori di una visione democratica tradizionale, in cui molte comunità ebraiche hanno un ruolo di primo piano. Dall’altro lato emergono gruppi che, nel loro impegno verso cause globali come la decolonizzazione, hanno sviluppato una critica più radicale nei confronti di ciò che viene percepito come Occidente, includendo in questo rifiuto sia Israele che i paesi tradizionalmente suoi alleati, come Stati Uniti e Regno Unito.
Questa polarizzazione ha creato una confusione profonda, alimentata anche dall’idea di una "guerra asimmetrica". Tale concetto, ben diverso dal confronto nucleare o ideologico della Guerra Fredda, si esprime oggi attraverso sabotaggi tecnologici e attacchi non convenzionali, spesso giustificati come "rivincite degli oppressi". Questo ricorda i metodi di liberazione utilizzati dai movimenti anticoloniali del passato, ma con una nuova dimensione, in cui le armi non sono più soltanto fisiche, ma anche digitali.
Questa escalation di tensioni porta con sé notevoli pericoli, specialmente quando si somma alle sfide interne all'Occidente, come il cambiamento climatico. Mentre la Russia continua a sfruttare le sue risorse naturali per consolidare il proprio potere, il suo approccio estrattivo e le guerre locali che alimenta contribuiscono ulteriormente al degrado ambientale. Il confronto globale, che include ormai anche le questioni ecologiche, non ha precedenti chiari cui ispirarsi, e ciò complica ulteriormente la ricerca di soluzioni.
In questo contesto di incertezza, è cruciale riconoscere che le risposte, seppur difficili, dovranno essere trovate all'interno dell'Occidente. La "super società" occidentale, pur con le sue contraddizioni, resta il contesto in cui abbiamo le migliori risorse e le conoscenze per affrontare sfide come il cambiamento climatico e la crisi geopolitica.
SC: Abbiamo vissuto per 20, 30, forse anche 40 anni sotto l'influenza di una globalizzazione capitalista che ha guadagnato sempre più potere. Questo fenomeno è stato descritto in modo efficace dalla sociologia, anche se meno dalla psicoanalisi; il nostro caro Andrew Samuels ha contribuito in parte a questa discussione. Oggi, potremmo trovarci di fronte a una situazione simile a quella che seguì la Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, ciò che distingue il nostro presente da cento anni fa è che conosciamo già il corso degli eventi storici di allora e possediamo una prognosi potenziale, non solo una diagnosi. È un paradosso: siamo consapevoli dei rischi e delle conseguenze, ma sembriamo incapaci di evitare che si ripetano. Che ne pensi? Quali lezioni possiamo trarre dal passato e come possiamo applicarle alla nostra realtà contemporanea?
LZ: Hai richiamato il termine "populismo", semplificando un concetto complesso che richiede una riflessione più approfondita. È interessante notare come questo termine si intrecci con le idee del politologo inglese Colin Crouch sulla "post-politica" e "post-democrazia," un fenomeno che ha trovato una particolare risonanza in Italia. Qui, si è assistito a una transizione significativa tra la Prima e la Seconda Repubblica, accompagnata da una fragilità democratica che affonda le radici nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale. Nonostante l'Italia fosse emersa come una Nazione vincitrice, si verificò un crollo della democrazia che ha lasciato tracce nel nostro tessuto politico.
Il mio recente lavoro sull'Italia affronta queste fragilità, che sono sia secolari che millenarie. Da un punto di vista sociopolitico, è difficile contrastare le reazioni impulsive e paranoiche della base, ovvero di un'opinione pubblica spesso disinformata. Anche se formalmente la democrazia continua a esistere e una certa percentuale di elettori partecipa alle elezioni, le opinioni prevalenti sono frequentemente quelle di chi è meno informato. Questo diventa evidente anche tra le nuove generazioni, che, pur essendo più consapevoli, faticano a comprendere la complessità dell'Unione Europea.
Spesso proiettiamo la nostra condizione privilegiata, quella che viviamo in Europa, su un contesto globale, ignorando le sfide e i disastri che si trovano oltre i nostri confini. Siamo in un "paradiso" che, paradossalmente, sembra che stiamo facendo di tutto per distruggere.
Riflettendo sulla storia, possiamo notare che l'Ottocento ha segnato una prima netta fase di globalizzazione, in gran parte associata al colonialismo e all'imperialismo europeo. Tuttavia, come ben sanno gli storici spagnoli, la prima vera globalizzazione si è verificata durante il secolo d'oro della Spagna, quando i galeoni navigavano per il mondo, anche se questa fase fu interrotta dall'emergere di potenze concorrenti.
Nel corso del tempo, l'Europa ha vissuto un periodo di eurocentrismo, specialmente nel Cinquecento e nell'Ottocento. La Prima Guerra Mondiale ha scosso quest'equilibrio apparente, in un contesto in cui le potenze mondiali cercavano di mantenere il controllo. A differenza della Guerra Fredda, caratterizzata da una minaccia nucleare bilanciata tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l'Europa del passato presentava una pluralità di poteri e un'assenza di una minaccia atomica diretta.
Ho trattato nel mio studio sulla paranoia come, durante i momenti critici precedenti alla Prima Guerra Mondiale, ci si aspettava una risoluzione diplomatica delle crisi. L’omicidio dell’erede al trono asburgico nel giugno del 1914, seguito da settimane di incertezze, rappresenta un esempio di come le tensioni si accumulino fino a sfociare in conflitti aperti. Le crisi attuali in Ucraina e in Medio Oriente mostrano un'analogia preoccupante: quando le situazioni non si risolvono, si affida sempre più potere ai militari, complicando ulteriormente le possibilità di diplomazia.
SC: Prima di chiederti se sia possibile coltivare l’anima oggi nella “super società,” vorrei riflettere sul tuo bellissimo libro, Coltivare l'anima pubblicato nel 1999 da Moretti&Vitali. Tu hai fatto un viaggio indietro nel tempo, esplorando le radici della nostra cultura greca e romana.
LZ: Quella era una serie di conferenze non pubblicate, e mi sono accorto di fare ampio uso del modello junghiano, non limitandomi a evocare archetipi fumosi, ma attingendo ad archetipi che si sono realmente incarnati nella nostra tradizione classica, come le divinità e i processi che riflettono sia l'immaginario collettivo sia eventi storici che li hanno concretizzati.
SC: Cosa significava coltivare l’anima in quel contesto?
LZ: Coltivare l'anima era l'occupazione di ciò che oggi chiameremmo il letterato, il pensatore, l'intellettuale, secondo la definizione di Cicerone. Era un’attività riservata a coloro che possedevano un certo livello di istruzione e uno status socio-economico.
SC: E oggi? Cosa significa coltivare l’anima in un contesto così complesso e in continua evoluzione?
SC: Oggi questa dimensione si è progressivamente persa, in parte a causa della diminuzione del tempo libero, ma anche perché, se torniamo a riflettere sulle generazioni attuali, vediamo che sono attivissime e cresciute nell’era digitale. Il digitale, infatti, ci abitua a favorire tempi sempre più brevi, e questa compressione temporale è in contrasto con la coltivazione dell’anima.
SC: In che senso?
LZ: La tecnologia avanza in modo incrementale, aggiungendo sempre nuove funzionalità, ma a scapito del tempo a nostra disposizione. Infatti ritengo che più si sta attaccati al telefono, più si rischia di perdere lucidità. In effetti, passare troppo tempo sullo schermo, evitando anche una semplice telefonata per comunicare, è diventato l’eccezione piuttosto che la norma.
SC: La tecnologia avanza rapidamente, e i giovani sembrano sempre meno abituati ad aspettare. È dunque diventato difficile coltivare l’anima in questa super società? Oppure hai una ricetta?
LZ: Non ho una ricetta né una risposta definitiva... Ma ultimamente, dopo aver terminato il mio ultimo libro, ho viaggiato molto. Ho preso aerei nazionali e intercontinentali, autobus, treni, e ho incontrato molte persone. Viaggiando, mi piace osservarle. Mi capita spesso, la sera tardi o di notte, di notare chi tiene accesa la luce della cappelliera in treno o in aereo. Sono pochi. La maggior parte dorme, guarda un film o scorre il telefono. Questo ormai è normale. Ma mi colpisce sempre chi ha la luce accesa: riconosco in loro qualcuno che legge un libro o un giornale.
Forse dovremmo tornare a questo: alla lentezza del libro, in contrasto con la velocità del film o della serie. Preferisco i libri ai film perché, mentre guardando un film siamo passivi, leggendo diventiamo attivi. Il cinema offre una facile identificazione: anche chi non è alfabetizzato può sedersi al cinema e lasciarsi trasportare dalla storia. È proprio ciò che accadde in Italia durante il grande boom del cinema neorealista: anche chi sapeva leggere poco andava al cinema e si immergeva nei film di Antonioni o Fellini.
Chi guarda uno schermo oggi, sia esso il tablet o quello dell’aereo, entra in un mondo di prodotti di intrattenimento, non di testi. Il cinema commerciale non richiede lo stesso sforzo mentale della lettura, poiché offre una semplice identificazione con personaggi spesso stereotipati. Le serie, poi, amplificano questo processo: conosci già i personaggi, li hai già visti, quindi ti identifichi senza fatica. Non c’è bisogno di usare l’immaginazione o la creatività come invece accade con un libro. Quando leggi, il personaggio non è già pronto davanti a te: lo devi costruire nella tua mente. Se una spiegazione complessa richiede tempo, ti fermi, chiudi gli occhi, rifletti, poi riprendi. Sei attivo, partecipe, e vivi la storia non come spettatore, ma come protagonista.
SC: Quindi, come ci dicevano i nostri genitori e maestri: "Bisogna leggere di più"!
LZ: …Ma non solo leggere di più, leggere meglio. Si legge troppo poco, ci muoviamo in contenitori di immagini preconfezionate che non sono narrazione, non sono cultura, sono solo intrattenimento. E la distanza tra cinema e videogioco si riduce sempre più, mentre quella tra racconto scritto e visivo dovrebbe avvicinarsi.
SC: In qualche modo, bisogna tornare a Cicerone, ma anche a Berkeley, che affermava che tutti hanno opinioni, ma pochi realmente pensano.
LZ: In treno, in aereo, in autobus, tutti cercano la via più facile. Le persone che leggono sono pochissime, forse una su cento. Un dato sconfortante, specie in una grande cabina illuminata da così poche luci.
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