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Gli adolescenti non vogliono essere capiti
"Gli adolescenti”, scrive Winnicott, “non vogliono essere capiti. L’adulto deve tenere per sé ciò che riesce a comprendere dell'adolescenza". Affermazione paradossale, in netta controtendenza rispetto al clamore suscitato ai giorni nostri dalla sofferenza adolescenziale, che genera richieste di aiuto, sia da parte dei ragazzi stessi che da parte degli adulti che se ne occupano. Oggi, gli adulti, non solo non tengono per sé ciò che comprendono dell’adolescenza, ma assistiamo a un proliferare di teorie, studi, specialisti che cercano di decifrarne i comportamenti.
La recente pubblicazione di Loredana Cirillo nasce da un osservatorio privilegiato della cura, che vanta una pluriennale esperienza nel campo: il centro milanese Minotauro fondato dallo psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet, clinico e teorico del disagio adolescenziale. Cirillo, al suo primo testo come unica autrice, parla di un dolore muto, che non si esprime più attraverso manifestazioni eclatanti di ribellione o autolesionismo, ma in modo silenzioso e non per questo meno invalidante. In crisi, dunque, è la capacità di mentalizzazione: un deficit del linguaggio permea la cultura del nostro tempo.
Pierre Hadot individuava un compito per i terapeuti, vista l’epoca di grande disorientamento, un compito da aggiungere agli altri, e cioè quello di cercare di aiutare a “trasformare la percezione del mondo”. La pratica psicoanalitica, che spazia dalla psicoterapia psicodinamica alla filosofia intesa come cura, mette al centro l’importanza del linguaggio simbolico come espressione della psiche e come potente strumento per attivare questa trasformazione.
Il dolore degli adolescenti riguarda tutti perché impone una questione fondamentale: il “desiderio” non ha più un orientamento autentico. Risposte sbagliate a bisogni fondamentali amplificano un desiderio che si riproduce all’infinito, svuotato, e che provoca sentimenti di inadeguatezza, mancanza e disgregazione. Per questo il terapeuta che si occupa di giovani mira a costruire una rete di significati e di simboli, attraverso la quale aiutare ragazze e ragazzi a comprendere loro stessi e il mondo, annodando la dimensioni individuale a quella storica. Scrive Cirillo: “Il dolore mentale rappresenta un prezioso e importante segnale, è come il messaggero di una crisi, di un’urgenza trasformativa che pervade il nostro mondo interno. La sofferenza connessa alla crisi evolutiva può rappresentare un’occasione di crescita, anche quando si presenta profondissima e senza apparente via di scampo". Come affermava Jung: “Non c’è rinascita senza morte”: attraverso il dolore è possibile trovare nuove priorità nella vita che risultano più autentiche.

Quello che emerge attraverso un percorso “riuscito” è la verità del vissuto in tutta la sua potenza simbolica, che trasforma la propria percezione perché apre alle forme della trascendenza: verso la verità contro l’autoinganno, verso gli altri e verso il mondo.
A volte però, scrive Cirillo, “gli adulti animati da buone intenzioni si raccontano che un modo per affrontare i drammi della vita sia tacere, fare finta che il dolore non esista, rimuoverlo, se non addirittura negarlo, come se così potesse non esistere davvero”.
È il caso di Ifigenia, nome scelto perché, in comune con il mito, ha il tema del sacrificio di Sé a favore dei bisogni dei genitori. Si tratta di una sedicenne apparentemente modello, con buoni voti, amicizie e una vita “perfetta”, ma che soffre di ansia e manifesta disagio psicologico. Nonostante la mancanza di problemi visibili, la ragazza insiste per essere ascoltata da una psicologa. Durante il primo incontro con i genitori, questi descrivono Ifigenia come serena e ben adattata, pur riconoscendo una storia familiare complessa: il padre non l’ha riconosciuta alla nascita per pressioni materne, e i genitori convivono solo da pochi mesi. Emerge una narrazione priva di una qualsivoglia elaborazione emotiva da parte dei genitori, che minimizzano la portata delle implicazioni affettive conseguenti alla loro storia familiare e di coppia. Nel colloquio individuale, Ifigenia esprime rabbia e sofferenza per le pressioni subite, come la pallavolo imposta dalla madre, e per la superficialità dei rapporti con entrambi i genitori. Si sente inascoltata e incapace di esprimere i propri bisogni. Il suo corpo riflette il disagio, con segni di autolesionismo, e l’ansia deriva dal conflitto causato dal bisogno di separarsi emotivamente dai genitori e dalle loro aspettative.
Il lavoro con lei – racconta Cirillo – ha richiesto delicatezza nel sostenere l’elaborazione della rabbia e del dolore, senza forzare soluzioni rapide o rassicurazioni superficiali. È stato necessario un accompagnamento che permettesse a Ifigenia di integrare le esperienze passate e presenti, restituendole il diritto di esprimere i propri desideri senza timore di deludere o ferire chi la circonda. Il mito di Ifigenia, con il suo tema del sacrificio del Sé per compiacere il volere degli altri, offre una lente per comprendere la sua vicenda. Proprio come nella tragedia greca, il percorso di crescita di Ifigenia può emergere dalla rottura di vecchi schemi e dalla scelta di riscrivere la propria storia, superando il peso delle aspettative e dei legami che la imprigionano.
Il testo scorre fluido tra rielaborazioni teoriche dei capisaldi della teoria charmetiana e esemplificazioni cliniche di alcune conduzioni di cure con gli adolescenti.
Per chi pratica il mestiere di cura, un libro sul dolore può sembrare scontato. Tuttavia, l’autrice precisa che oggi, “nella società algofobica, questa scelta rappresenta una presa di posizione che va oltre la professione clinica”. C’è una meditazione sui temi del dolore, del disagio adolescenziale e del rapporto tra giovani e mondo adulto, contestualizzati in una società che tende a mistificare le emozioni scomode e a negare le fragilità. Nel periodo della pandemia e del post pandemia si è assistito a una crescita esponenziale della domanda d’aiuto in tutti i servizi, pubblici e privati, ma, al di là della numerosità, si è osservato che era cambiata anche la qualità e l’intensità del dolore: sono arrivati in consultazione sempre più ragazzi con stati d'ansia che in realtà erano delle vere e proprie crisi di angoscia, sintomi estremamente invalidanti come autolesionismo, disturbi alimentari in forma acuta, fantasie suicidarie e, soprattutto, si è registrata la presenza imponente di sintomi dissociativi, depersonalizzazione, derealizzazioni. Si è riscontrata, complessivamente, una grande fatica dei ragazzi a stare con sé e a trovare un senso, un significato al proprio malessere.

La sofferenza emerge come elemento sociale e culturale. Gli adolescenti del nostro tempo crescono in un contesto che idealizza la performance, trascurando la cura della fragilità insita nell’essere umano. La pressione causata dal dover soddisfare le aspettative altrui rischia di generare nei giovani ciò che Winnicott definì “falso Sé”, una dinamica che impedisce l’espressione autentica di sé e ostacola la possibilità di elaborare e integrare le esperienze difficili nella crescita individuale e sociale.
L’ascolto, allora, si rivela una possibilità: per rispondere alla frase di Winnicott in apertura, essere ascoltati non significa essere compresi. L’ascolto proprio di una cura analitica è un ascolto silenzioso, singolare. In La direzione della cura Lacan parla di ascolto di intendimento, che è qualcosa di diverso dall’ascolto di comprensione. Nella comprensione c’è un attaccamento ai contenuti, una caccia al significato inteso come universale, univoco e sintetizzabile. L’ascolto di intendimento, invece, non si ferma ai contenuti coscienti e oggettivi, cioè a ciò che l’altro intende dire, ma permette di aprire all’inconscio, cogliendo, ad esempio, come certi significanti si ripetano, come si articola la catena inconscia del soggetto, qual è il mito o il fantasma inconscio che orienta il soggetto al di là del suo discorso esplicito.
Comprendere troppo facilmente il soggetto che viene a consultare un analista, rischia di far sì che il curante trovi in lui qualcosa che sa già. A rischio è l’alterità dell’altro. Per questo le teorizzazioni, quando divengono ridondanti e dogmatiche, rischiano di mancare l’obiettivo del cogliere la soggettività. Ogni dolore è indice di una sofferenza più ampia, sociale, culturale, esistenziale e intrapsichica.
La domanda è se questo libro segua l’onda di un proliferare di studi orientati alla “comprensione” o sia testimonianza di un diverso modo dell’ascolto: se la parte clinica testimonia di una presenza presente dell’analista, quella teorica riesce meno nel lavoro di introdurre qualcosa di nuovo nelle teorizzazioni sull’adolescenza. La riflessione più ampia a cui porta riguarda la necessità di un cambiamento profondo nelle dinamiche relazionali tra giovani e adulti, che passi attraverso una trasformazione culturale e che non si limiti a interventi individuali.
In copertina, illustrazione di Flupieland.
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