Autobiografie dell’inconscio
C’è una differenza sostanziale tra la coltivazione del sapere come pura speculazione intellettuale e il tentativo di trasmettere una conoscenza che vibra. Nicolò Terminio si mostra all’altezza del compito di individuare questa differenza, nell’interessante saggio pubblicato insieme a Duccio Demetrio “Autobiografie dell’inconscio. Psicoanalisi, scrittura e trasformazione”.
Psicoanalista e docente di una scuola di specializzazione in psicoterapia, Terminio procede con lo spirito del ricercatore nell’esplorazione di territori che difficilmente si incontrano come autobiografia, filosofia e psicologia. La motivazione è alta, perché “se dell’individuale non c’è scienza, nell’universale non c’è vita”, nel senso che “la scienza senza vita è vuota, esiste solo come un’ombra fantomatica”, mentre “la vita senza scienza non è saputa” né sufficientemente elaborata e soggettivata, come scrive R. Màdera, Il metodo biografico come formazione, cura, filosofia, Cortina, 2022, p. 12).
La ricerca che attraversa questo libro ci pone di fronte a una scelta etica e ci pone un interrogativo implicito: com’è possibile sganciare ciò che pensiamo di sapere dal contesto in cui viviamo e lavoriamo, dalle circostanze della nostra esperienza autobiografica? E fin qui, nulla da obiettare, ma Terminio si spinge oltre: ciò che sappiamo non può sganciarsi nemmeno dal filtro di influenze anche molto intime e private, che hanno a che fare con i nostri affetti, con le vicissitudini e le occasioni della nostra formazione, perché, come scrive Duccio Demetrio, “scriviamo di noi anche quando ci nascondiamo dietro l’alibi della terza persona, di una teoria, vantando un improbabile esito oggettivo”.
Il messaggio che ci giunge è dunque un invito a prendere seriamente in considerazione questo background, interrogarlo e cercare di trarne un insegnamento o perfino farne un’occasione creativa di espressione di sé. Un sapere vibrante, appunto, il vero sapere direbbe Pavese (in Leggere, articolo pubblicato su L’Unità di Torino, 20 maggio 1945), capace di raggiungere il cuore del nostro interlocutore, in quanto “i libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato”.
Il viaggio che intraprendiamo nel testo inizia da un incontro fecondo di Terminio che avviene inizialmente attraverso la lettura del libro di un autore fino a quel momento sconosciuto. L’autore non è uno psicoanalista, ma un pedagogista e filosofo, che apre dunque a linguaggi e prospettive diverse rispetto alla psicoanalisi.
Freud in tutta la sua opera ha sempre fatto dialogare la teoria psicoanalitica con altre discipline in numerosissimi ambiti, spaziando dall’arte all’antropologia, alla neurofisiologia, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, all’archeologia, e così via. Così Lacan, fino a Fachinelli e Recalcati, si potrebbe dire che tutti i più grandi autori in psicoanalisi hanno dialogato incessantemente con altri saperi, per interrogare, arricchire, ampliare, rettificare il proprio lavoro.
Si tratta di una disponibilità sempre più rara e quanto mai preziosa, a dialogare con l’Altro, l’estraneo, lo straniero. Una disponibilità che si rende ormai sempre più necessaria anche in termini di militanza culturale e sociale, per fronteggiare l’incedere dello scientismo e del tecnicismo nella polis. La posta in gioco è opporre una resistenza consapevole a fenomeni di disumanizzazione e de-soggettivazione, sia nell’ambito della cura che in quello educativo (a questo proposito meritano degli approfondimenti i testi di M. Benasayag, l’ultimo da poco recensito su Doppiozero).
Come in tutti gli incontri significativi – non voglio anticiparne il racconto ai lettori – ciò che colpisce è l’esito: dopo non è più come prima. Il proprio sapere, la propria storia, il proprio lavoro, dopo l’incontro assumono significati nuovi. Ma perché ciò sia possibile è necessario mettersi in ascolto: “Oggi i temi del silenzio, della scrittura e della autobiografia sono diventati parte della mia ricerca e della mia vita” (p. 20).
Il riconoscimento del debito simbolico con un autore a noi caro è una responsabilità etica che forse risulta essere all’antica, nell’accezione usata da Duccio Demetrio, ma il prezzo da pagare nel pensarsi senza radici, senza storia e senza interconnessione con gli altri è troppo alto. Un’illusione contemporanea ci vorrebbe soli e sganciati, autosufficienti nelle nostre isole di sapere, in un progressivo inaridimento culturale ed esistenziale pericoloso e insensato. “Essere all’antica vuol dire fare esperienza del tempo dell’inconscio, di quel tempo in cui i nomi e le cose, i nomi e i nostri vissuti iniziano a trovare una corrispondenza” (p. 23).
Nel primo capitolo del libro Terminio mostra le coincidenze, gli intrecci, gli arricchimenti, in altre parole gli esiti fecondi su un piano teorico e clinico dell’influenza demetriana sul suo sapere psicoanalitico lacaniano. È forse il capitolo che maggiormente necessita di un particolare virtuosismo del lettore, che riceve pillole di sapere lacaniano e nel contempo la proficua contaminazione ricevuta da Demetrio; sarà qui favorito chi naviga già in acque psicoanalitiche. Come non ricordare a questo proposito l’opera di divulgazione della psicoanalisi lacaniana da parte di Massimo Recalcati, a cui Terminio ha già dedicato dei testi, opera incessante e sempre più riconosciuta che permette la circolazione tra un pubblico eterogeneo della psicoanalisi.
Il secondo capitolo è dedicato alla scrittura autobiografica come pratica ed esercizio di cura. L’autobiografia è una narrazione di sé utilizzabile, nel senso più democratico, da tutti, con delle potenzialità espressive e individuative a cui Demetrio lavora da anni sia sul piano teorico che formativo. Può essere uno strumento per operatori con formazioni poliedriche, provenienti da molti settori della cura.
Attraverso la scrittura autobiografica si pone il problema della soggettivazione sul piano del senso e della sua emergenza storico-simbolica. Nella storia del soggetto c’è il senso che cerca di emergere, un senso imprigionato nelle sue oggettivazioni discorsive, un senso che esige la sua liberazione simbolica. La parola diventa così il luogo principe del cammino della soggettivazione. È la parola piena direbbe Lacan, la parola che conferisce senso alla vita:
“Non è facile andare lì, eppure la pratica della scrittura portata alle sue estreme conseguenze ci fa incontrare quella condizione perturbante dove ancora la nostra esperienza non è stata annodata ad alcun significato. (…) è questa una delle ragioni per cui la scrittura può diventare anche una pratica di soggettivazione che conduce ciascuno a rivedere le forme di alienazione sociale a cui si è docilmente consegnato per ripararsi dall’angosciosa sensazione di smarrimento che il silenzio assoluto può far vivere” (p. 53).
La narrazione autobiografica come metodo può avere una sua funzione anche al di là dell’apertura alla dimensione psichica inconscia, come illustrato nel terzo capitolo, con ampi riferimenti all’opera autobiografica di Marsha Linehan Una vita degna di essere vissuta (Cortina, 2020). Diventa chiaro come in alcuni casi, estremi e non, l’accesso all’inconscio possa essere precluso o difficoltoso; ciò impone tuttavia al terapeuta di cercare una via per tendere una mano al paziente: “Forse la storia di Marsha può insegnarci che il riconoscimento simbolico che viene dall’Altro, per restituire la sensazione di una vera trasformazione, deve toccare necessariamente la verità che emerge dalle cicatrici del soggetto” (p. 78).
Avere la possibilità di parlare del trauma in alcuni casi può essere già una cura, perché comporta il dare senso e parola all’indicibile. La narrazione della propria storia può essere un preliminare alla terapia analitica, a cui non tutti vogliono o possono accedere. Marsha scrive che “un giorno, in cui si trova ancora una volta da sola nella sala del pianoforte, rivolge il suo appello disperato a Dio ma a un certo punto, senza sapere perché, smette di domandargli aiuto e gli giura che si tirerà fuori da quell’inferno e che, una volta fatto questo, ritornerà all’inferno e porterà fuori altre persone. Da allora quel giuramento guida la sua esistenza” (67). Ecco, direi, un esempio di parola piena.
Molto interessanti anche le considerazioni di Terminio sulla scrittura del caso clinico da parte degli allievi della scuola di psicoterapia: “L’esperienza della scrittura, per lo scrittore di casi clinici, deve essere un’esperienza dell’inconscio, altrimenti è solamente un’esperienza giustificativa e non psicoanalitica. Nella scrittura del caso clinico ci sarà qualcosa che non si potrà né dire né dimostrare (…). Questo qualcosa di non dimostrabile potrà essere soltanto mostrato con la propria voce e costituirà ciò che rende effettivamente trasmissibile una ricerca psicoanalitica” (p. 91).
Questo libro, come scrive Ombretta Prandini nella prefazione, ha anche una portata politica in quanto apre mondi anziché chiuderli, costruisce ponti, trova nessi; ci invita a portare avanti questo un lavoro etico di dialogo con l’alterità, prima dentro di noi, a livello intrapsichico, e poi fuori, a livello interpersonale e interdisciplinare.