Sensibili o irritabili?
Essere sensibili è un valore?
Come premessa per articolare al meglio la sua risposta, Svenja Flaßpöhler, l’autrice del libro Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti dell’accettabile (ed. Nottetempo), ci propone un gioco mentale, mettendo a confronto due coetanei: Johan, cavaliere medievale europeo dell’XI secolo e Jan, insegnante di tedesco che vive nella Germania contemporanea, classe sociale media-superiore.
Nel frattempo sono passati mille anni e il mondo è (per fortuna!) cambiato.
Johan è un uomo duro, rozzo, crudele, addestrato alla violenza fin dall'infanzia per divenire un combattente. La sua quotidianità è scandita da comportamenti che ignorano le norme igieniche ed estetiche, possiamo dunque immaginarlo mentre divora avidamente la carne prendendola direttamente dal vassoio con le mani, biascica mentre mangia, approfitta sessualmente delle cameriere, defeca per strada senza vergogna della sua nudità.
Altrettanto lecito è per lui uccidere, violentare, torturare durante i saccheggi. L’unica cosa che teme è di essere sconfitto da un uomo più forte di lui. Non conosce la contemplazione, perché la bellezza del mondo è oscurata dalla temibilità dei pericoli che esso nasconde. Non conosce la compassione.
Mille anni dopo ecco Jan, forse non è a caso che il nome sia un diminutivo di Johan, come se si trattasse della stessa persona depotenziata: sensibile, colto, raffinato. È sposato e ha due figli che vanno alle elementari, che educa con grande fiducia nella parola, senza mai picchiarli, così come lui non è mai stato picchiato.
La descrizione di Jan oscilla tra comportamenti esemplari, come il fatto che lui cucini la sera perché la moglie rientra a casa tardi dal lavoro, e altri al limite del ripiegamento depressivo, come il fatto che lui e la moglie dormano in stanze separate perché dopo le gravidanze la moglie ha avuto un calo libidico e lui ne ha rispettato le esigenze di ritiro: “Quando la sera a letto le accarezza leggermente un braccio e il suo gesto non è corrisposto, si limita a dirle teneramente ‘buonanotte’. Dopotutto, chi è lui per non rispettare la volontà di sua moglie?”.
Quando legge ai suoi figli la fiaba di Pippi Calzelunghe omette la “N Word”, sostituendola con “Re dei mari del Sud”.
Per motivi etici è vegetariano, pensa che gli animali siano creature in grado di provare dolore e dotate di sensibilità.
Mentre insegna, in classe, utilizza lo schwa, un modo per non identificare né maschile né femminile, sia nello scritto che nel parlato della lingua tedesca, per includere anche gli studenti che si identificano come persone non binarie, ovvero né maschi né femmine.
Jan è solidale con il movimento MeToo per convinzione e compassione, pensa che sia opportuno affrontare la mascolinità tossica e garantire protezione alle donne.
C’è però un lapsus nella scrittura del libro, o nella traduzione, sfuggito evidentemente anche all’editore, a un certo punto a pagina 35 mentre si sta parlando di Jan si scrive Johan.
Sarebbe come dire che in ogni Jan c’è un Johan e viceversa?
Certo, le due persone sembrano completamente opposte, ma nella complessità umana le caricature sono spesso inesistenti, è tutto decisamente sempre molto più tortuoso, nel più brutale degli esseri umani c’è una traccia di sensibilità soffocata, come nel più sensibile e rispettoso individuo c’è una violenza inespressa il cui residuo non solo è ineliminabile, ma verso cui è doveroso mettersi in ascolto e farsene carico. Già Freud constatò come anche Eros, in fondo, abbia una componente di aggressività. Una vita totalmente priva di aggressività “buona” sarebbe ai limiti della devitalizzazione.
La descrizione che emerge di Jan è già in nuce un paradosso della civilizzazione: secondo l’autrice non assistiamo a un processo ascendente e lineare verso la nobilitazione degli aspetti più crudamente pulsionali dell’umano, ma piuttosto siamo di fronte a un indebolimento, a una perdita di incisività, a una perdita di vitalità.
L’esempio è lampante nell’anticipare la tesi che Svenja Flaßpöhler articola sapientemente nel suo testo: come evitare che il raffinato processo di raggiungimento della sensibilità diventi sinonimo di introflessione, passività e ritiro? Come far sì che sensibilità e forza vadano a braccetto, aggiungerei in un mondo ideale?
Una bella domanda, che tiene il lettore in sospeso fino alla fine.
L’autrice procede in un excursus ambizioso e ampio, che spazia da riferimenti storici che si intersecano con alcuni sviluppi del pensiero filosofico, sociologico e psicoanalitico, fino ad alcune considerazioni riguardo a movimenti politici, culturali e sociali del nostro tempo.
Sta di fatto che se il processo di sensibilizzazione della società è un fattore essenziale per il progresso civile, è necessario secondo Flaßpöhler distinguere fra due facce della sensibilità, una attiva e una passiva, una propositiva e l’altra suscettibile, quest’ultima sinonimo di immaturità e impreparazione ad affrontare la vita.
Per sviluppare la questione l’autrice propone alcuni quesiti: “Una sensazione è soltanto una questione privata? A che punto il contatto fisico diventa una molestia? Quale grado di vicinanza è gradito e dunque lecito? E dove si stabilisce il limite del dicibile? Quale tipo di linguaggio viola la dignità umana e quale la tutela? Bisognerebbe abolire l’uso del maschile sovraesteso? La ‘N Word’ è inaccettabile anche quando è usata come citazione?”. E prosegue: “Le forze di destra reagiscono con suscettibilità alle trasformazioni sociali, come nel caso della presunta ‘ideologia gender’, e non di rado rivolgono intenzionalmente parole offensive ai loro bersagli o ricorrono addirittura alla violenza fisica”, motivo per cui “chi si identifica nelle opinioni della sinistra progressista, quando viene messa in discussione la sua idea di sviluppo sociale, risulta a sua volta molto suscettibile”. Insomma siamo di fronte a un circolo vizioso che non promette nulla di buono. Un trincerarsi dietro alla reciproca suscettibilità che anziché generare avanzamenti della civiltà provoca isterismi e logiche della difesa anziché del dialogo.
È pur vero che ci sono persone che subiscono dei soprusi, ma il sentimento dell’empatia serba, secondo l’autrice, dei terribili lati oscuri, come per esempio tenere le persone prigioniere nella posizione di vittima, assumendo una postura paternalistica e protettiva nei loro confronti e dichiarando al loro posto quali siano le parole che li discriminano.
E se invece il segreto della resilienza umana, leggiamo, risiedesse in un impulso vitale arcaico? Ovvero in una inconscia forza propulsiva che interviene nei momenti di maggiore impotenza per scongiurare una minaccia di annientamento?
Del resto in certi casi, se l’irruzione è troppo violenta, la psiche ne risulta gravemente danneggiata.
Che cosa rende, dunque, traumatico un evento? Inevitabile la riflessione dell’autrice sul fatto che il concetto di trauma sia divenuto ormai troppo inflazionato, a tal punto che nella mentalità collettiva si ricerchino sempre più spesso le cause della sofferenza in fattori esterni inaccettabili, dai quali il soggetto deve essere protetto.
Si potrebbe obiettare che c’è un’enorme differenza tra l’uso della parola trauma nel linguaggio comune, dove spesso viene impiegato come sinonimo di evento fortemente ansiogeno, e l’utilizzo di questa parola in ambito clinico, dove il trauma ha ben poco a che fare con un evento perturbante facilmente ricostruibile attraverso il pensiero e la parola.
Ma la questione, secondo l’autrice, sembra un’altra: il problema starebbe nel fatto che stiamo crescendo generazioni di ragazzini sensibilissimi, cosiddetti snowflake, bambini iperprotetti che si sciolgono facilmente in lacrime di fronte alla prima difficoltà, come si scioglierebbe appunto un fiocco di neve. Sensibilissimi diviene qui sinonimo di fragilissimi.
Tuttavia, come direbbe Margherita Hack: “Non è necessario avere una religione per avere una morale. Perché se non si riesce a distinguere il bene dal male quello che manca è la sensibilità, non la religione”.
Questo per dire che forse il vero problema non ruota intorno alla sensibilità, che è poi cosa ben diversa dalla suscettibilità.
Il vero problema resta nel discernimento tra il bene e il male, e oggi abbiamo diversi strumenti per comprendere quali errori evitare nel sistema educativo, scolastico, relazionale, affettivo. Pedagogisti e psicoanalisti ci mettono in guardia da tempo sulle storture della contemporaneità, sulle derive prodotte dalle logiche capitalistiche che permeano il nostro tempo.
La stessa citazione di Marco Belpoliti scelta dal Ministero dell’Istruzione per il tema di maturità di quest’anno, fa riferimento alle pericolose derive del mondo che stiamo costruendo, dove non è più contemplato il tempo dell’attesa, della procrastinazione, della noia. La frenesia del tutto e subito è un prodotto della società a capitalismo avanzato, dove la competizione richiede rapidità. In ultima analisi ciò che temiamo nell’attesa è l’incontro con il nulla, ovvero la morte.
È ormai di dominio collettivo quanto valore benefico abbia la frustrazione, la necessità di procrastinare la soddisfazione immediata come strumento educativo necessario. L’essere sordi a questi avvisi è un problema di ipersensibilità o di ottusità?
Insomma il problema è complesso, per concludere Svenja Flaßpöhler fa appello agli aspetti più costruttivi della sensibilità legati alla resilienza, come auspicio affinché il lungo e tortuoso cammino della civilizzazione avanzi.
La sensibilità è indissolubilmente legata al potenziale creativo e trasformativo, ma la sua fragilità intrinseca ci fa sentire a rischio, in vertiginosa prossimità con un punto di rottura, che va custodito e curato per evitare la frammentazione. Sarebbe pericoloso e depistante respingere la propria fragilità come elemento ostile e indesiderato, la pena sarebbe vederla ritornare indietro centuplicata sotto forma di sintomi. Ben diverso è brandire la propria sensibilità come scudo o, peggio ancora, come alibi per non affrontare la propria fragilità.
Un libro sovversivo, sfidante, provocatorio, che aiuta a pensare.