Speciale

Gli adolescenti e il male

3 Settembre 2024

Non è facile addentrarsi nei labirinti del male senza perdersi, senza un contraccolpo di repulsione e di giudizio. Come ci insegna Hannah Arendt il male può essere così banale da risultare ancor più raccapricciante, ma questo non deve farci desistere dal tentare di comprenderlo, perché, come scrive nel suo libro sul totalitarismo, “comprendere significa affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia”.

La Arendt affermò che guardando in faccia Eichmann era stata colpita da qualcosa di “particolarmente attuale”; dalla realtà di un essere umano che non assomigliava ai malvagi e ai grandi criminali. Niente a che vedere con gli assassini delle tragedie di Shakespeare, che perlomeno di notte soffrivano di insonnia. L’imperturbabilità, il modo di difendersi, o anche di non difendersi, di Eichmann era qualcosa di totalmente diverso e inedito. Di qui nacque una riflessione che occupò tutto il resto della sua vita sul luogo del pensiero: dove siamo quando pensiamo? Se pensare è avere il coraggio di tradurre in parole ciò di cui facciamo esperienza, secondo la Arendt siamo chiamati a pensare secondo una misura personale. 

È da qui che prende avvio il lavoro che Mauro Grimoldi conduce con giovani autori di reato: entrare in relazione, e, a partire da questa relazione, aiutarli a pensare, a divenire consapevoli delle proprie azioni e dei propri pensieri, in modo da non ripetere. Il suo è un lavoro di ascolto e di ricerca di trame di senso, di biografie personali e socioculturali che ripercorrono ogni volta le possibili origini del male.

Mauro Grimoldi in Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti, edito da Cortina, procede per capitoli che narrano storie, a metà tra il giallo e il saggio di psicologia, una forma di racconto che onora la professione di cura psicologica e risponde al tentativo di renderla trasmissibile e leggibile anche ai non addetti ai lavori.

Un’azione criminale può essere commessa da un adolescente senza il minimo di consapevolezza e di responsabilità, come nel caso di Luana, che, insieme a due amiche, ha scelto una coetanea a caso, durante una fiera di paese, picchiandola fino a procurarle diverse fratture e un ricovero in rianimazione; la ragazza, leggendo in seguito alcuni articoli di giornale sui casi dell'assistente sociale che l'aveva in carico, ha commentato: “Ma che brutto lavoro fate, voi conoscete gente davvero cattiva”. Scrive Grimoldi: “La cattiveria come connotazione etica dell’azione orientata al male non è una prerogativa che Luana riconosce come attribuibile a sé, poiché ancora non si è appropriata delle parole per dire della propria decisione di agire quel reato, che ancora, in quel momento, è percepito come un accadimento esterno, ‘come la pioggia’. Non ha ancora ammesso, nemmeno a se stessa, di esserci stata”.

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Un crimine, per un minore, può essere un agito indotto dal gruppo, perché, per un adolescente, “essere dentro” è un imperativo superegoico che costringe a qualunque cosa pur di sentirsi accettato e parte della famiglia sociale dei coetanei. Troviamo nel testo un interessante ritratto dei “branchi” – di dimensioni variabili da due a dodici elementi – di ragazzi autori di reati sessuali incontrati da Grimoldi nella sua carriera professionale: gruppi isolati socialmente e culturalmente, la cui comunicazione con il mondo degli adulti sul tema della sessualità risulta povera e stereotipata, sono più a rischio di degenerare in agiti come abusi di gruppo sulle coetanee; le vittime, sempre ragazze, possono avere un'età compresa tra gli undici e i quattordici anni, la preadolescenza è dunque il periodo evolutivo in cui si è più a rischio sia di commettere che di subire un abuso di gruppo. Scrive a questo proposito Grimoldi: “L'idea che l'abusante adolescente si distingua per una particolare voracità pulsionale, per un desiderio particolarmente impellente o rapace, è ingenua e ampiamente contraddetta dall'esperienza clinica”. Emerge infatti che gli adolescenti potenziali abusanti si sentono lontani dalla possibilità di accedere al rapporto sessuale come scelta, incapaci di intavolare un tipo di relazione con l’altro sesso che possa portare a un'intimità condivisa, impotenti, incapaci di seduzione. È a partire da questa inferiorità che riesce a far leva la spinta del loro gruppo a ostentare una presunta potenza di uomini in fieri. 

Un reato in età minorile può essere anche qualcosa di sintomatico nel senso più analitico del termine, che in quanto tale va decifrato come una vera e propria formazione dell’inconscio. Come nel caso di Riccardo, appartenente a una gang che per un certo periodo ha spacciato discrete quantità di sostanze stupefacenti sulla riviera del lago di Garda. Dagli incontri con lui emerge che il padre vive separato dal nucleo familiare da diversi anni, a causa del divorzio fra i genitori, e che ciò che più spesso il padre gli ripete è: “Sei un debito”, facendolo sentire una spesa sospesa, una colpa, un errore, soprattutto nei momenti di trasgressione del ragazzo. Tuttavia, Riccardo ama il padre, lo stima, lo idealizza, pur non essendo ricambiato. Il padre entra costantemente in competizione con lui, lo svaluta, non lo apprezza. Grimoldi sottolinea come non piacere al proprio padre è sempre fonte di sofferenza, ma non piacere a un padre fortemente amato può diventare un problema ancora più grande: “oggi Riccardo aderisce al pensiero paterno, è lui ora quello che ‘non si piace’ e che non sa più chi essere, come diventare un buon esemplare di uomo adulto. Oggi a Riccardo la vita appare ‘una merda’, in cui ogni momento è buono per chiedersi se si è o no in grado di fare qualsiasi cosa… ‘e dire che a volte sono talmente spaventato che mi ritrovo a fare le prove anche solo per chiedere una sigaretta’”.

Nella relazione terapeutica Riccardo può dipanare il senso dei suoi reati: l’iniziale sfiducia del padre nei suoi confronti; la frustrazione e la mortificazione per il mancato affetto e riconoscimento da parte del proprio padre; la soluzione sintomatica del poter avere accesso a guadagni rapidi e cospicui tramite lo spaccio come un modo, tramite l’indipendenza economica, per poter apparire agli occhi del padre un figlio all’altezza delle sue aspettative. Ma come ogni soluzione sintomatica, anziché realizzare un desiderio fa inciampare sul dolore originario; l’essere incriminato e processato riporta Riccardo alla radice del suo dolore: sentirsi una merda, uno scarto, non all’altezza delle aspettative dell’Altro.

Mauro Grimoldi non si accontenta di fare una ricostruzione investigativa, il suo testo testimonia come ogni volta, per un minore autore di reato, l’incontro con un adulto animato da sincero interesse verso la sua vita possa fare la differenza: “da sempre, quando incontro più o meno per caso un minore autore di reato, mi incuriosisco. Lo studio, da lontano. Spesso sorrido. Poi, se mi si presenta l'occasione, ci parlo, anche se non è un ‘mio’ caso. Cerco di indovinare qualcosa, magari il reato commesso, quasi avessi una sfera di cristallo da mago. È un gioco che in fondo non è troppo distante dal senso ultimo del lavoro dello psicologo che lavora con i ragazzi del penale: dire chi è, qual è il suo reato, perché lo ha commesso, come andrà a finire la sua storia”.

La cura qui viene intesa come una forma ampia di intervento, dove le dinamiche intrapsichiche del ragazzo si intrecciano con il contesto sociale e culturale, rendendo inscindibili questi piani fra di loro. Attraverso la sua narrazione, Grimoldi ci insegna l’importanza del partire da sé, dalla propria motivazione, dalla propria curiosità, per condurre un buon lavoro. È questo il senso più profondo della vocazione, di cui Grimoldi dà a più riprese testimonianza nel suo testo. Il suo lavoro ci aiuta a rendere nominabile il male, a dargli un volto e una forma, per comprenderlo, che è poi l’unica chiave di accesso per poterlo trasformare, anche grazie a una relazione terapeutica.

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Illustrazione di Flupieland.

Negli anni Settanta lo psicoanalista Donald Winnicott fu un pioniere nel descrivere la delinquenza giovanile come un sintomo; nel suo testo La delinquenza come sintomo di speranza mise le basi per una lettura del comportamento antisociale minorile come un appello al mondo degli adulti. La parola speranza, usata provocatoriamente dall’autore, indica il grido di aiuto implicito del giovane che commette reati. Un interlocutore sensibile e attento può raccogliere questo appello e condurre il giovane verso una svolta del suo percorso esistenziale.

Grimoldi, in questa direzione, mette in luce la dimensione di appello, riporta il linguaggio degli adolescenti protagonisti di crimini, frasi e modi di dire che permettono di scattare delle istantanee, dei ritratti, a volte raccapriccianti. Non c’è giudizio, c’è piuttosto, come affermava la Arendt, una lucida e spregiudicata presa di coscienza della realtà. Come nel caso di Agata, con i capelli rosa e i jeans strappati, che si presenta a tutti i colloqui con un chewing-gum in bocca. Si definisce ‘straspontanea’, ‘tranqua’, ‘scialla’, a tal punto da ammettere con tranquillità il reato, raccontandolo senza veli, senza filtri di alcun tipo, né di natura etica né tantomeno logico-razionale. Accennando a un caso di cronaca in cui un ragazzo è stato picchiato a morte in carcere, si lascia sfuggire l'espressione eccitata ‘stra-bello’, lasciando trasparire un facile cedimento alla pulsione aggressiva senza la mediazione della rimozione o della sublimazione. Infantile, fragilissima, anaclitica nella relazione, Agata si presenta come una giovane adolescente in grave difficoltà.

L’incapacità di riflettere, che a livello delle masse è diventata quasi un pregio, rende difficile ogni percorso che vada verso l’assunzione di consapevolezza e di responsabilità, che sono elementi basilari per maturare libertà di scelta e individuazione. Libri come questo ci mostrano che, grazie a curanti autenticamente impegnati, certe biografie, che sembrano segnate fin dall’adolescenza, possono scriversi con pagine nuove e inedite, sfuggendo al destino di segregazione ed emarginazione sociale a cui porta la delinquenza. Perché questo avvenga, bisogna che la rivoluzione parta dagli adulti, anzitutto dagli operatori, perché solo loro possono alzare la posta in gioco, indicare altri percorsi possibili rispetto alle culture e ai contesti sociali di provenienza di questi ragazzi, che hanno contribuito a farli inciampare. Poi ci sono anche gli adulti della società di appartenenza, in cui i ragazzi vivono, che hanno la responsabilità di credere nella possibilità del cambiamento e favorirne l’inserimento sociale e lavorativo. Occorre infine che qualcosa si risvegli nei ragazzi, che ci sia un impegno serio nel cambiamento, avendo a proprio favore l’età adolescenziale come un tempo di grandi potenzialità trasformative. Ben vengano allora libri come questo, che aprono alla speranza di un mondo migliore possibile, che va costruito insieme guardando in faccia il minore deviante, conoscendolo per quello che è, aiutandolo ad affrancarsi da ripetizione del male e conseguente emarginazione.

In copertina, illustrazione di Flupieland.

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