Bompiani e Thanopulos: affetti
È confortante occorrenza, nell’era dominata dall’algoritmo, che possa circolare una riflessione sull’“intesa” tra affetto e pensiero, che a scriverne siano due amici e che la forma scelta sia quella epistolare: il libro di Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos, Il pensiero affettivo (Feltrinelli, 2024), è una “camminata” filosofica e poetica nei paesaggi trasversali del ragionare e del sentire.
Cadenzata sulla corrispondenza scritta come “pratica dell’amicizia”, la partitura del testo sceglie di “staccare i discorsi” e valorizzare la differenza degli autori in due tempi distinti. Incontriamo, dunque, in apertura, l’epistolario intitolato “Il pensiero affettivo” con le dodici lettere a firma di Bompiani; e, a seguire, il carteggio appellato “L’illusione” con le dodici risposte di Thanopulos.
L’artificio letterario di suddividere la corrispondenza in due parti distinte risulta efficace anche nella sua reversibilità: si può leggere il testo seguendone la struttura – prima un’autrice poi l’altro – con ricezione diacronica delle rispettive traiettorie e degli impliciti rimandi; ma si può disobbedire all’impianto e fare la spola tra una lettera e l’altra dei due scriventi, cogliendone con immediatezza la concordanza e i contrappunti. Una libera “pratica di lettura” s’intona, del resto, alla plasticità degli argomenti in campo e soprattutto al modo in cui sono qui “palleggiati” attraverso la dimensione pulsante del ritmo epistolare. Come scriveva, proprio in una sua missiva, Emily Dickinson: “In che altro consiste l’Estasi, se non nell’affetto e l’Affetto non è forse l’Embrione di questo breve Biglietto? Una lettera è una gioia terrena - Negata agli Dèi”.
Come nasce, dunque, questa “conversazione provvisoria” in forma scritta tra una scrittrice e uno psicoanalista? Tutto ha inizio con l’“idea fuggevole” che un giorno visita Bompiani: “l’affetto è una forma del pensiero”. L’idea, tuttavia, non fugge, “si rintana” nella sua mente e si impone con la forza dell’“evidenza”. Di qui il desiderio di condividerla con un destinatario elettivo. Per verificarla forse, certamente per costeggiarla insieme senza fretta e senza brama classificatoria. “Pensiero e affetto sono un unico intrico” scrive nella prima lettera, “non è possibile separarli, per lo meno all’origine: nel loro spontaneo gemmare, disteso e infuocato, scorrono come una lava fino a diventare pietra”. Seguono altre metafore suggestive assieme ai riferimenti letterari, psicologici e filosofici scelti dall’autrice ora a sostegno, ora a coraggiosa messa in dubbio, di quella iniziale intuizione. E soltanto in après-coup, quando si siano lette anche le risposte di Thanopulos, appaiono la trama, l’ordito e il gesto stesso della tessitura del libro, di questa “flânerie di due passeggiatori che adattano ciascuno il passo a quello dell’altro”.
Impossibile visitare tutti gli snodi della strada percorsa in quasi due anni di corrispondenza tra “svolte, deviazioni laterali, ripensamenti, riposizionamenti”. Ma certo la viva correlazione tra pensiero e affetto, e il ruolo fondamentale che in questo nesso giocano l’illusione e il lavoro del lutto, meritano un tentativo di mappatura attraverso alcuni prelievi dal testo e qualche amplificazione.
“In psicoanalisi è un dato di partenza che all’inizio della vita affetto e pensiero coincidano” scrive Thanopulos nella prima risposta a Bompiani. Questa coincidenza originaria “è l’archè della nostra esperienza soggettiva dell’oggettività”, “il nucleo profondo, essenziale della nostra concezione della realtà”. In quanto nuda vita, ancora priva di “sapienza costruita”, “è l’affetto, in noi, che pensa” e che conferisce rappresentazione e forma al “gusto” delle prime esperienze sensoriali. Ma come non tradire, si chiedono gli autori, la radice corporea del pensiero quando il linguaggio evolverà nell’oggettivazione? È possibile custodire, nel corso della vita, quella dimensione “animata” del pensiero che giunge con la forza emozionale di una “chiara sorpresa”? Ci si interroga, in sostanza, sulla possibilità di non lasciare “la coscienza priva di aiuti” (Gregory Bateson): gli aiuti della poesia, del sogno e di ogni pratica simbolica capace di far vivere le parole “oltre la loro funzione di significanti”, di liberarle da quella condizione spettrale che assumono quando restano “chiuse nella semantica” (Thanopulos).
Torna alla mente, su questo crinale sottile dei processi conoscitivi ed esperienziali dell’umano, l’opera di Maria Zambrano, la filosofa spagnola che all’esercizio della “ragione poetica” ha dedicato una vita. “La parola – dichiarava in Dell’Aurora – si architetta nell’intersezione del vuoto e del silenzio” e affinché la conoscenza non divenga prepotenza “ostinatamente sistematica” ha bisogno di penombra e chiaroscuri; altrimenti “l’affannato uomo di oggi e di un tempo confida unicamente nell’azione e a essa consegna la sorte del giorno e la propria anima. Così diviene spettro”. È la deriva che Bompiani e Thanopulos ravvedono nella “ossessione della concretezza” in quanto “pensiero desolato, sprovvisto dell’affetto, che ha smarrito il presagio e la scoperta” e che, nella metafora del tiro con l’arco, “costruisce sempre varianti di una freccia ficcata in partenza nel suo bersaglio”. Troviamo così scandagliate, secondo diversi punti di osservazione, le premesse dell’intenzionalità e del finalismo. “Se il pensiero razionale, il pensiero che viene dopo l’affinamento della capacità di significazione, si impadronisse della corda, l’intero dispositivo arco/corda/freccia, sempre in equilibrio stabile/instabile, si distruggerebbe. Il suo posto lo prenderebbe l’algoritmo” che rende le cose immobili “e le distribuisce in spazi calcolati, previsti” (Thanopulos).
Per decidere qualcosa secondo “pensiero e affetto”, cioè con ispirata “ragionevolezza”, occorrerà sentire i pensieri e pensare i moventi senza reificare gli uni e senza devitalizzare gli altri. L’etimologia della parola “affetto”, nota Bompiani, risale al latino ad ficere, “fare qualcosa per”. Già, ma “per” cosa? È ancora una radice etimologica a suggerire la risposta per via di metafora: la parola “pensiero” viene forse da “pensum, peso, per cui pensare vorrebbe dire ‘pesare la lana’; il pensum era un certo quantitativo di lana da passare alle filatrici (…) Dunque l’affetto sarebbe un fare qualcosa e il pensiero la materia grezza con cui lo farà (…) La forma della lana si ottiene filandola”. Onde evitare quella eccessiva finalizzazione che condurrebbe l’azione, e la sua comprensione, a un punto cieco, occorrerà “annusare la meta” senza smarrirne l’intelligenza, vedere con “sguardo sapiente” e con “sguardo vergine” come insegnava Foucault. “Senza emotività”, scrive Bompiani citando Damasio, “non ci sarebbe niente da decidere. Senza affettività il pensiero è inerte. Il pensiero affettivo è il pensiero in movimento: raccoglie i saperi, i dati di conoscenza, la conoscenza di sé e li mette in moto”. E d’altra parte, per non scivolare temerariamente nell’indefinito, bisogna differenziare l’attenzione animata dal cieco spontaneismo. Se nella pratica psicoanalitica, per esempio, è necessario “mettere a fuoco con il pensiero i luoghi in cui si sosta” (Thanopulos), è altrettanto importante non trasformare l’ancoraggio razionale in un dispositivo definitorio e normativo di tipo macchinale. Custodire la tensione tra pensiero e affetto implica, quindi, una disciplina amorosa del discernimento, un tipo di attenzione saggia che ha permeato di sé, in tempi e forme differenti, le grandi tradizioni del pensiero simbolico come la psicoanalisi, la poesia e la cultura orientale. Bompiani ricorda la vibrante compagnia che ha rappresentato, nella sua ricerca, il pensiero indiano, le Passioni d’Oriente (Giuliano Boccali e Raffaele Torella) in cui desiderio (raga) e conoscenza (vidya) si abbracciano in una “aspettativa appassionata” dell’anima che respira e concepisce il cosmo. È la coloritura spirituale della riflessione sul “pensiero affettivo” che rende intime e urgenti le questioni ultime: “Vi è qualcosa al più profondo di noi che non ci appartiene? Un’estranea intimità? (che sia questa l’oikeiosis, il fine ultimo del vivente)”?
Sul rapporto tra desiderio e conoscenza, sullo spazio potenziale e poetico che li accoglie, li tiene in relazione e li differenzia, Thanopulos tratteggia infine quell’area ampiamente risignificata dalla psicoanalisi che è l’illusione quale “componente costitutiva del pensiero affettivo”. Illusione da non intendersi, qui, freudianamente, come autoinganno “da cui dobbiamo guarire per incontrare la realtà” (Bompiani); ma, sulla scia di Winnicott, l’illusione è qui evocata come potenzialità, come “ciò che espande la nostra esperienza al di là della sua linearità”. “Al momento della prima poppata (teorica)”, scrive Winnicott, “il bambino è pronto a creare, e la madre gli dà la possibilità di avere l’illusione che il seno, ciò che il seno significa, è stato creato dall’impulso che deriva dal desiderio”. Solo successivamente, aggiunge il pediatra e psicoanalista britannico, il bambino può fare il passo “verso il riconoscimento della solitudine fondamentale dell’essere umano” (D.W. Winnicott, Sulla natura umana). Si tratta, nelle parole di Thanopulos, dell’“illusione come visione ‘onirica’ del mondo” che “amplia il campo dell’esperienza umana” e che attraverso il presentimento della diversità dell’altro, configurabile anche in sua assenza, prepara al lutto, all’uscita dall’unisono originario. La “conoscenza sapiente”, in tale prospettiva, “è sempre in via di acquisizione per poter essere acquisita ed è acquisita per essere in via di acquisizione”. Ciò costituisce un “limite per la nostra onnipotenza”, un argine per le “passioni tristi”, una misura ritmica del pensare e del sentire: perché “senza elaborazione del lutto la poesia svanisce”. La poesia unita alla ragione mostra i modi insaturi in cui “l’illusione si prende cura della realtà” veicolando il desiderio: come la “precisione dell’amore” di Chandra Candiani o il “raggio della cordialità” di José Ortega y Gasset, posture e prospettive psichiche e relazionali che segnano il divenire creativo di una trasformazione pensante e sempre affettuosamente in atto.