“La pace non ti avverte”. Chandra Candiani, poesia del disarmo

2 Novembre 2023

“Ho preso partito, in via sperimentale, per una saggezza che, nella sua apertura al ‘momento’ e di fronte all’angoscia della morte, si pronuncia per una spensieratezza che non rappresenta affatto una fuga e che, anziché sollevare la questione del tempo (…), la riassorbe in ciò che potrebbe essere il silenzio di un Cielo-natura” (F. Jullien, Il tempo. Elementi di una filosofia per vivere, Luca Sossella, Roma, 2002, p. 8). La postura meditativa qui evocata da Jullien ci aiuta ad avvicinare in punta di piedi, e con la necessaria discrezione, l’ultima raccolta di poesie di Chandra Candiani, Pane del bosco. 2020-2023 (Einaudi, Torino, 2023). Un titolo e un sottotitolo che giustappongono, senza fomentare antagonismi, temporalità cosmica e cronologia umana.  Da un lato, infatti, il bosco di Candiani è “vita che se ne infischia” del finalismo dei parlanti e il suo pane non lievita il tal giorno e alla tal ora ma secondo stagioni e “senza perché”:

(…) 
è il tempo degli alberi
che contano
incidendosi
nel tenero,
circolari,
gli anni” (p.71)

Dall’altro lato il sottotitolo nomina un triennio in cifre, 2020-2023, strettoia ammessa e accolta di accadimenti personali, e globali: il trasferimento dell’autrice su un alpeggio piemontese e lo sfondo di una congiuntura epocale di contagi, tra virus e guerre.

Alla dimensione contemplativa, “dove nessun pensiero ha il cappio” e dove può “tornare più pieno il rumore della vita”, Candiani ci ha già iniziato, per affacci e trasalimenti, in tutti i luoghi della sua precedente produzione, in poesia e in prosa. 

Vivian Lamarque la coglieva rivolta “verso quel punto celeste-terrestre dove vivi e morti sono inquilini di uno stesso condominio” (V.Lamarque, prefazione a C. Candiani, Bevendo il tè con i morti, viennepierre edizioni, Milano, 2007, p. 9-10):

Il tempo minuto 
di noi cosiddetti vivi 
s’infrange provinciale
contro l’aria urgente
che l’assenza sprigiona
e quella minuziosa misericordia
che copre di tenero infinito
la contemplazione della mente (Bevendo il tè con i morti, p.103).

Non è, però, la mortificazione del tempo umano che Chandra Candiani ci invita a frequentare ma lo smascheramento gentile del suo “bugiardo perdurare”. Come quando racconta che, bambina, si scoprì velocissima nel correre: “il mio segreto era che non volevo schiene davanti, puntavo al vuoto, volevo solo spazio davanti a me, allora non era più che corressi, ero corsa, scivolavo in avanti a petto spalancato verso un’apertura”. E aggiunge leale: “Quando la ripetizione o la forzatura o peggio la competizione hanno cercato di prendere il posto di questa esperienza, ho perso ogni gioia e non ho saputo più correre così forte, perché non sapevo di aver perso il vuoto” (C. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino, 2018, p. 123).

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Riconoscere la tentazione rivalitaria, in poesia, nella spiritualità e in ogni abitata “inclinazione” alla cura, equivale a un esercizio costante di generosità e disarmo identitario:

(…) La pace non ti avverte quando
ti presenta alla vastità,
arriva a piedi nudi
ti sfiora la testa e ti mastica,
sbocconcellata, sparita a te stessa
sorridi, lo sapevi da sempre: finché
ci sei tu non c’è pace (p.92)

È questo l’esercizio che promana da Chandra Candiani – dalla sua poesia, dalla sua vita: preferire, a “un pantano che la sta ad ammirare”, la propria “Condizione scalza” (Emily Dickinson). Qualcosa che Mario Luzi riscontrava nell’effetto benedicente dei discorsi pubblici di Krishnamurti a Saanen: “Qui la magia consiste nel convergere di un gran numero di persone su un centro il quale rimanda la polarità nel profondo di ciascuno come un’autorivelazione, mentre nella cerimonia poetico-istrionica è il poeta che assume su di sé gli impulsi che provoca e che gli ritornano dall’uditorio” (M. Luzi, Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano, 1974, p. 57). Mollare la titolarità autoreferenziale del carisma è magistero poetico di ogni profezia di pace e significa anche non fingere di poter scotomizzare l’alveo biografico di partenza: è dalla “bambina pugile” che s’invola la “bambina uccello” perché è pur sempre

Commovente dire io
come parlare del proprio cane
o del gatto della loro imprevedibilità
ma anche come dire città
paese firmamento qualcosa a cui appartengo
ma non mi appartiene,
e albero casa e vento
come un affetto antico e lontano 
come perdonare tutto
in nome di una perdita
inconsolabile (p. 108).

Lasciando scorrimento, sempre, al punto di vista sofferente dell’origine, “non c’è casa nell’infanzia che non sia bruciata viva” (p.57), Candiani medica-medita le differenti temporalità del trauma umano: “La poesia è la possibilità di un ascolto, di un interlocutore. E permette di fare della cronaca storia, e quando è davvero grande anche mito, storia di tutti, storia gigante. (…) Il diritto alla paura che la poesia mi ha consegnato mi ha portato a essere fiera dell’infanzia conservata, del suo sapere selvatico e mai in vendita, e non solo di essere sopravvissuta” (C. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino, 2018, pp.90-91). Tornano qui alla mente le parole di una voce sorella della poesia contemporanea, quelle di Ida Travi, quando scrive che “quel che accade nella casa ha un vincolo di sangue con i più oscuri retroscena della storia” e “nella stanza contemporanea, stipati secondo un ordine antico, ci sono i nuovi eventi, sì, ancora immersi nello stesso terrore” (I. Travi, La corsa dei fuochi. Poesie per la musica, Moretti&Vitali, 2006, p.12). 

Merita attento disinnesco, dunque, la “tagliola dell’infanzia” (Roberto Carifi) e solo questa lavorata confidenza con il pericolo da cui si proviene “disegna i passi” verso l’aperto: “essere amata da un bosco è una lunga strada” (p.87). Qui, in occorrenti transizioni, “credo di danzare/ma è la Verde Maestà che mi solleva/dalla terra del pensiero” (p.19) affinché “non sia rabbia la mia vecchiaia né delusione” (p. 23) ma “sgretolarsi di compiutezze superflue” (p.22), “disciplina della scomparsa” (p.10). 

“Il punto in cui si smette di cercare/e ci si dispone a essere trovati (…). Caduta, ripresa” (p.130): momenti della poesia vivente che non si determinano per inizio e fine ma per la loro qualità: in ciò, dice Jullien, i momenti “assomigliano alla stagione”. E le stagioni si innovano e si ereditano a vicenda in questa raccolta di Candiani come pagine da scandagliare e non da saccheggiare, ritmo di una conversione alla disponibilità in luogo della appropriazione. 

Ci troviamo in quella falda della “storia gigante” in cui l’opera della parola anela ad unirsi al “pane del bosco”: “Il ciliegio si è sposato/i rami abbottonati di petali bianchi” (p.124). Chi potrà mai dissuadere la poesia dall’innervarsi, a getti minuscoli e invisibili, alla faticosa trasformazione del mondo?  Candiani torna a sussurrare che “una preghiera corre per tutte le stanze” (p.98):

“(…) Che siate visitati dagli animali custodi
che i fiumi siano in piena confidenza
con le lacrime, ci sia un pensiero
che ci pensa e rammenta
come tener salda la terra
nel mondo che si abbuia” (p.117).

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