Scrivere pace in mezzo alla guerra

29 Agosto 2022

Ci sono scritture luminose che resistono alla disomogeneità tra storia e sogno di una coesistenza umana non-violenta: parole in marcia per la pace. Scritture diverse per genere e area vocazionale di cui l’antologia curata da Moreno Montanari e Sara Oliva Boch Verrà la pace e avrà i tuoi occhi. Piccolo vademecum per la pace (AnimaMundi, 2022), mette in fila una selezione attenta e invita ogni lettore a unirsi al corteo; per scoprirvisi non in coda, ma in testa, perché, “caro lettore, la pace sarà possibile solo se i suoi ideali cammineranno sulle tue gambe, se sarà il tuo passo ad aprirgli la strada e a tenere la rotta, avendo sempre l’umanità come propria stella polare” (Montanari, p.207).

Quarantasei i brevi testi, tra prose e poesie, che non solo offrono “una mappa cartografata” della pace, “di chi l’ha tracciata e sperimentata in prima persona, aprendo strade tuttora percorribili”; ma anche configurano, così radunati, una sorta di rituale del cordoglio, una pratica collettiva di elaborazione del lutto a fronte degli innumerevoli tradimenti, subdoli o eclatanti, che il sogno di pace da sempre subisce pur nel suo mite e inesauribile risorgere. Perché “la vittoria è solo un rito funebre” avverte Lao-Tzu (p. 158) e perché “dopo ogni guerra / c’è qualcuno che deve ripulire”, ricorda Wislawa Szymborska nella poesia intitolata La fine e l’inizio (p.183): “C’è chi deve spingere / le macerie ai bordi delle strade / per far passare / i carri pieni di cadaveri. / (…) Non è fotogenico / e ci vogliono anni. / Tutte le telecamere sono già partite / per un’altra guerra”.

“Entrare nello stato di pace” d’altra parte, “significa oltrepassare una soglia: la soglia tra la storia, tutta la storia esistita finora, e una nuova storia. Si tratta, dunque, di un’autentica ‘rivoluzione’, del duplice compimento di quel sogno di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti spiriti grandi” (Zambrano, p.100). E che implica, come scriveva Georges Friedmann, una certa intima decisione a “spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome” perché “numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi, quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni» (G. Friedmann in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, 2002, p.29).

Henri Matisse

 

Scrivere intorno alla pace – cioè invocarla, evocarla, sognarla può darsi, allora, come uno dei gesti dell’“essere pace” (T.N. Hanh, Essere pace, Ubaldini, 1989), come un esercizio di preparazione che sceglie “a ogni passo” le parole, avendo cura di misurare lealmente, e instancabilmente, la distanza tra il “bagliore” della solidarietà immaginata e l’“ubiquità della guerra” (Baracchi, pp.129-134).

Una presa d’atto irrinunciabile, del resto, ricorre sotto diverse formulazioni nelle pagine di questo piccolo vademecum ed è quella che mostra, a volte con semplicità disarmante, che in nessun luogo, come nel discorso sulla pace, “il re è nudo”; e che il lento, penoso riconoscimento della violenza presente in noi stessi si impone come il primo e più credibile passo nel cammino di “conversione antropologica” alla solidarietà.

Non a caso il libro si apre con un brano di Tich Nhat Hanh, monaco buddhista che si era attivamente adoperato, durante la guerra in Vietnam, per portare in salvo i feriti di entrambe le parti in conflitto. Egli scrive: “Non voglio veder morire i vietnamiti, ma non voglio veder morire nemmeno i soldati americani (…). Non possiamo limitarci a dare la colpa all’una o all’altra parte. Dobbiamo superare la tendenza a schierarci” (p.12). Ed è il riconoscimento laborioso, in noi stessi, di questa pulsione allo schieramento, che può smorzarne l’impeto cieco e rivalitario e renderci testimoni, anche all’esterno, di piccole e grandi scelte di pace. Un genere raro di testimonianza che rende, perlopiù, impopolari: “La scelta di esercitare indiscriminatamente la compassione” commenta Montanari a proposito di Tich Nath Hanh “gli costò l’ira di entrambe le parti in lotta che non gli perdonarono quella che considerarono una inaccettabile equidistanza” (p.14). Infatti “si può obiettare”, scrive Romano Màdera (pp.104-105) “che il maestro vietnamita appartiene a quella schiera di profeti-apostoli-utopisti della pace che potremmo sardonicamente raggruppare nella ‘gran banda dei falliti della storia’, da Buddha a Isaia a Gesù a Francesco d’Assisi a Gandhi e a molti altri, compresi i suoi amici Martin Luther King e Thomas Merton, o la luce di Etty Hillesum”. O quella del filosofo Aldo Capitini, ideatore, nel 1961, della prima Marcia per la pace Perugia- Assisi, le cui scelte di vita “radicali e perigliose” in direzione del disarmo educativo gli valsero il discredito dell’opinione pubblica del suo tempo: “Il suo pensiero venne bollato – quasi fosse un insulto o una pecca – come ingenuo, utopistico o poetico e in quanto tale relegato ai margini. Non se ne coglieva – o forse se ne coglieva fin troppo bene – la valenza profetica, la forza spirituale” (S. Gasparetti, p. 121). Eppure, scrive ancora Romano Màdera a proposito dell’utopica schiera, “credo sia un approdo serio unirsi a questa banda di falliti perché solo nel loro fallimento, nella loro croce di sconfitta, si può covare la terra della risurrezione”. La responsabilità solidale, insomma, sfugge alla retorica soltanto quando riesce a “testimoniare la pace nella guerra permanente fuori e dentro di noi” (pp. 102). Un tipo di responsabilità che Carl Gustav Jung aveva delineato con chiarezza sconcertante dopo l’ecatombe della prima guerra mondiale: “Hanno bisogno l’uno dell’altro eppure si uccidono a vicenda. Gli uomini impazziscono perché non sanno che il conflitto è dentro di loro, e ciascuno addossa il torto all’altro. Se una metà dell’umanità è in torto, è in torto per metà – ogni essere umano” (C.G. Jung, Il libro Rosso, p.254). Alla medesima conclusione che è poi un nuovo inizio ci conduce Maria Zambrano quando passa in rassegna i “pericoli per la pace” dato che “la questione non è semplicemente che non vi sia la guerra (…) bensì stabilire la vita in vista della pace” (pp.100-101). Ovvero “alimentare la vita” (S.O. Oliva Boch, pp.59-62) con esercizio paziente, quotidiano, artigianale e lungimirante per orientarla alla non-violenza. Una tale saggezza, evidentemente, presuppone il significativo allentamento delle identificazioni unilaterali con gli ideali di giustizia e di verità; oltre alla consapevole dismissione di un utilizzo parassitario e ipocrita della parola “pace” dato che per alcuni, sempre e ancora, essa “significa semplicemente libertà di sfruttare altri senza pericolo di rappresaglie o di interferenze” (T. Merton, p,77). Sarà possibile, allora, abitare questi disastri della convivenza umana esprimendovi anche un costruttivo dissenso? O la pace deve coincidere con “un surrogato della quiete, un traguardo nell’aldilà (…) ultimo e idealizzato”? “Propongo di pensare e vivere la pace come un processo aperto” risponde Paolo Bartolini, “come l’arte di coltivare dei semi creativi nel cuore dei conflitti (…). Chi fugge il conflitto – per rimozione, denegazione o dissociazione – prepara sempre la guerra di domani” (p. 40). La pace come “processo aperto” mostra, allora, che “è la verità stessa a non essere univoca” (M. Diana, p. 149) e che abbiamo bisogno di apprendere un nuovo e diverso metodo dialogico: “Bisogna uscire dall’arena del dialogo dialettico, con la sua oggettività astratta, ed entrare nell’agorà di un rapporto tra persone (…). Un dialogo che esige questa facoltà difficile che è l’ascolto, e che impone sia messo tutto sul tavolo, parlandosi a trecentosessanta gradi e senza fare sconti” (R. Panikkar, p. 146-147).

Le testimonianze di chi ha vissuto la guerra da molto vicino, d’altro canto, aiutano a comprendere la stratificazione dei processi confusivi che la covano e che tendono a opacizzare ogni chiarezza di visione e ad azzerare ogni capacità dialogica: in questi frangenti “ascoltare le ragioni delle diverse parti, raccontare la molteplicità dei punti di vista, espone al sospetto” osserva Nicole Janigro (p. 181). Quello che l’umano “pieno di furia e di dolore” va cercando, infatti, è il “fattore” capace di legittimarlo e disinibirlo nello scatenamento della violenza, nel passaggio allo scontro armato. Se, come insegna l’etologia umana, “conoscere la similitudine del nemico depotenzia il desiderio di combattere” è necessario, allora, infiammare ad arte buoni pretesti per autorizzarne la distruzione. E il propagarsi di queste micce incitose trova fertile alleanza, oggi più che mai, nelle strategie maligne della comunicazione: “Se ci costringiamo a riesaminare gli incubi di questo secolo” scriveva Daisaku Ikeda nella sua Proposta di pace del 2000, “ le purghe, l’Olocausto, la pulizia etnica – scopriremo che sono tutti emersi da un ambiente in cui il linguaggio era stato manipolato per concentrare le menti delle persone unicamente sulle loro differenze, convincendole che queste differenze erano assolute e immutabili, oscurando così l’umanità degli altri (i diversi) e legittimando l’uso della violenza contro di loro” (D. Ikeda, p. 161). Quando il meccanismo della creazione del capro espiatorio deflagra sul piano collettivo e “ci imbattiamo nell’anarchia del fenomeno guerra” tutto sfugge alla comprensibilità. “È l’orrore ‘inutile’ davanti al quale ci si ritrae, qualcosa di non spiegabile, non immaginabile, non razionalizzabile” (N. Janigro, p.180). È “l’inferno dei viventi” descritto da Italo Calvino (p.144), quello “che formiamo stando insieme” e rispetto al quale l’unico balsamo consiste nel “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Scrivere pace, dunque, per riconoscere chi e cosa, in mezzo alla guerra, non è guerra, e farlo durare, e dargli spazio

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