Speciale
Amelia C.: Adulti io vi accuso
Sono molti i libri sull'adolescenza usciti negli ultimi tempi, a testimonianza di qualcosa di profondo che sta accadendo. Psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti cercano di offrire qualche risposta ad adulti che si sentono sempre più spesso persi di fronte all'apparenza aliena degli adolescenti. Tra i libri che permettono a questi adulti smarriti di acquisire una buona prospettiva da cui osservare le trasformazioni dell'adolescenza, ci sono quelli, recentissimi, di due psi dell'Istituto Minotauro di Milano: Adolescenti misteriosi di Gustavo Pietropolli Charmet (Mimesis, Milano 2024) e Soffrire di adolescenza di Loredana Cirillo (Raffaello Cortina Editore, Milano 2024). Due testimonianze di anni di pratica terapeutica, dove si è appreso a riconoscere il dolore muto di una generazione, il loro implicito dissenso rispetto al mondo che gli si è preparato, la necessità di offrirgli uno spazio – autonomo – per articolare il loro proprio senso.
Ecco, in un tempo dove gli adolescenti sono sommersi da aspettative, ingiunzioni prestazionali, necessità di essere all'altezza di qualcosa o qualcuno, impossibilitati a sperimentarsi davvero, autonomia è una parola chiave per chiunque voglia relazionarsi oggi con gli adolescenti.
In un incontro recente sui temi dell'adolescenza, ho dialogato con un'operatrice che, avendo la possibilità di dare uno spazio fisico a un gruppo di giovani, ha chiesto loro che cosa ci volessero dentro, quali attività ci si potessero organizzare: “niente”, è stata la risposta, “vogliamo uno spazio vuoto, vogliamo pensare noi a cosa farci”. Perché gli adolescenti smettano di essere alieni, occorre fare quella semplice e difficilissima cosa che è tacere. E ascoltare. Smettere di presumere che siano barbari incapaci di parlare e di pensare, ma persone che parlano e pensano in modo diverso. Se li ascoltiamo, magari arriviamo a capire che sono loro a considerare alieni gli adulti. Non ci dovrebbe essere difficile – in teoria – operare questo rovesciamento, visto che appartiene alle fondamenta della nostra tradizione culturale: penso a Montaigne, che invita gli europei a dismettere la loro presunzione di superiorità sui cannibali, invitandoli a guardarsi dall’esterno per scoprire finalmente la propria crudeltà, o a Montesquieu, che nelle Lettere persiane assume uno sguardo alieno per osservare le assurdità del proprio mondo. In teoria, dunque, sappiamo cosa bisognerebbe fare; in pratica, poi, è ben diverso: “e allora dai, le cose giuste tu le sai, e allora dai, dimmi perché tu non le fai”, cantava Gaber. In pratica, presso le generazioni precedenti, hanno successo le tonanti lamentazioni di psichiatri e filosofi apocalittici, che consentono di trovare il responsabile della distanza, della solitudine e delle difficoltà degli adolescenti – il mostruoso device; si pensi al successo che ha avuto il libro La generazione ansiosa di Jonathan Haidt, che stabilisce un legame causativo tra uso di Internet e aumento di ansia, depressione, autolesionismo e suicidi, dove invece, come ha scritto Vittorio Gallese, non è dimostrata alcuna relazione causale tra i due fenomeni, ma solo una correlazione, il che dimostra al più che “i giovani che hanno già problemi di salute mentale usano queste piattaforme più spesso o in modi diversi dai loro coetanei sani”.
Un piccolo libro, allora, viene in soccorso agli adulti smarriti.
Piccolo, ma esplosivo, nel senso in cui Michel Foucault scriveva: “vorrei scrivere dei libri-bomba, vale a dire dei libri che siano utili nel momento stesso in cui qualcuno li scrive o li legge. Poi, dovrebbero sparire”. Un desiderio che poi fa sì che quei libri siano destinati a restare. Si tratta di “Vigliacchi! Il mio j'accuse al mondo degli adulti” (Agenzia X, Milano 2024). Lo ha scritto una ragazza di diciassette anni, che si firma Amelia C. Non si può essere seri a diciassette anni, scriveva Arthur Rimbaud, non si può avere la serietà considerata tale dal mondo della norma, la norma degli adulti: a diciassette anni, si è necessariamente eccessivi, al di là del serio, per citare Bataille che sull'eccesso ha riflettuto a fondo. E, proprio per quello, si punta al cuore delle cose, con un gesto diretto, e con piglio punk (e non sarà un caso che il libro sia stato pubblicato da Agenzia X, che con il punk ha un legame genealogico).
Amelia C. e basta, nessun cognome, nessun volto, nessuna referenza. Un anonimato che nasce per tutelarsi da qualsiasi possibile problema a scuola e in famiglia, ma che suona come un nome universale, un nome che sta per un insieme più grande a cui l'autrice sente di appartenere: tutti coloro che non si riconoscono nel mondo creato dagli adulti. Nel mondo creato dagli adulti la visibilità, il bisogno di riconoscimento e di ammirazione individuale, è il valore supremo: e a quello Amelia si sottrae. Si sottrae alla macina mediatica e al mondo lascia le sue parole, perché siano queste a essere prese in considerazione, a essere oggetto di riflessione, a far spostare lo sguardo a quegli adulti chiamati in causa. È una presa di parola, è la parola a prendersi lo spazio, e si fa universale: allora Amelia C. diventa un significante per tutti coloro che non si riconoscono nelle categorie dell'ordine del discorso degli adulti.
Amelia C. ha scritto un'invettiva: “contro gli adulti”, diciamo per brevità, ma dovremmo dire “contro il mondo degli adulti”. Amelia C. sa bene che esistono adulti e adulti. Qualche adulto le ha detto: non siamo tutti uguali, non siamo tutti responsabili. Lei lo sa bene. La sua è un'invettiva, e un'invettiva non fa distinzioni, non fa prigionieri: spara ad alzo zero. Un’invettiva non è un’analisi, è l'esposizione di un sentimento. E a far segno a una necessaria rivolta generazionale non può che essere un'invettiva. Uno dei suoi obiettivi è proprio quello di trovare complici tra gli adulti, adulti che con-sentano col suo sentimento.
È bella l'arroganza adolescenziale che inveisce contro quegli adulti che agli adolescenti lasciano un mondo in pezzi, e tutto quello sanno fare è fargli la morale. Bella la presunzione che qua e là nel libro taglia con l'accetta questioni che pure necessiterebbero di analisi complesse: perché questo libro è una chiamata, come dice Amelia C. È una spada che vuole dividere il grano dal loglio: il grano della responsabilità – che consiste prima di tutto nella capacità di fare domande – dal loglio della vigliaccheria – l'ignavia del Belacqua dantesco e poi beckettiano, gli indifferenti oggetto dell'odio gramsciano. Ecco, credo che a quel giovane sardo questo libro piacerebbe, perché si appella a una responsabilità comune, e al dovere di studiare e agitarsi.
Perché gli adulti, quegli essere anfibi incastrati tra un mondo e un altro, non sanno vedere quello che ai giovani alieni è così chiaro? Non è chiaro a tutti i giovani, certo, molti sono presi negli incantamenti e nelle seduzioni spettacolari e performative della società degli individui. Ma altri – una minoranza forse, come sempre sono minoranza gli insorti, ma una minoranza consistente, e sempre crescente – sanno che questo mondo non lo si può accettare così com'è. Amelia C. è tra questi. E offre agli adulti smarriti una specie di mappa per orientarsi in questo mondo, smettendo di fare la morale dall'alto della propria catastrofe.
Quello di Amelia è un grido che richiama ad assumersi finalmente la propria responsabilità. Ascoltiamola, dunque.
“Io conosco solo persone adulte che si sentono vittime, del sistema, del fisco, della polizia, dei concorrenti, dello Stato, del sistema sanitario, del proprio fallimento professionale, della propria sconfitta sentimentale. Mai uno che dica: è mia la responsabilità. Sono io che ho sbagliato, per volontà, per inerzia, per stupidaggine, per calcolo mirato. No! Tutti innocenti, tutti vittime sacrificali. Sono gli altri i colpevoli. Ma chi sono questi colpevoli? […]. Ma che cazzo di educatori siete? Volete insegnarmi cos’è il bene e il male? E se sono io il male? Che cosa fate? Mi mandate da uno psicologo, aspettate che sfoghi la mia inquietudine, riempiendomi le braccia di tagli, o che smetta di mangiare o che mi abbuffi all’infinito per poi vomitare. Oppure che bullizzi sessualmente una mia coetanea, tanto per comprendere cosa è il sadismo? Io non sono perfetta. Non sono esente da comportamenti cinici e cattivi. Non mi vesto della vostra indignazione ma io sono più vera di voi. Quindi più fragile, più bisognosa di avere qualcuno con cui confrontarmi, di una maschera sincera che mi ascolti. Io ho bisogno dell’assoluto del mare, della finitezza dei laghi, delle vertigini della montagna, del soffocamento che provo prima di risalire a galla. Io ho bisogno di sentirmi, innanzitutto. In difetto, fallibile, errante, incerta, bella, desiderabile, mancante, sola. Non mi fido di voi. So che non siete malvagi per definizione divina, ma credo che la mia generazione dovrà sobbarcarsi sulle spalle molti dei vostri errori, perché voi avete fallito. Dovremo recuperare le parole, costruire un nuovo alfabeto”.
In copertina, illustrazione di © Giselle Dekel.
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