L’un, e l’altro, sapere
Esiste un approccio femminile alla cura e alla diagnosi? E, allargando, esiste un approccio femminile al sapere? È possibile circoscrivere qualcosa come un’energia femminile che sarebbe necessario recuperare e accostare a quella maschile, non soltanto nella stanza d’analisi?
Questa è la domanda che attraversa Immagini, mito e poetica della clinica (Moretti & Vitali, 2024) di Sonia Giorgi e Iolanda Stocchi, psicoterapeute di formazione junghiana. La psicoanalisi è fatta, anche, di nomi di donne, ma non si tratta di provare a isolare quali contribuiti possano aver portato Anna Freud, Sabina Spielrein, Luce Irigaray o Lou Andreas-Salomé – per citarne solo alcune –, quanto ricercare una postura femminile, provare a seguirne le tracce a partire da un assunto: in campo psicoanalitico all’interpretazione si affianca l’immaginazione, al logos si affianca eros, e la psicoanalisi non è un’ermeneutica.
La psicoanalisi è, allora, uno degli strumenti della struttura patriarcale – sono note le critiche rivolte a Freud – o possiamo provare a interrogare, grazie alla psicoanalisi, l’“enigma della femminilità”, questo ombelico irriducibile che prende, in queste pagine, sembianze di sirena o forma di labirinto? “Se volete sapere di più attorno alla femminilità rivolgetevi ai poeti”, questo è, del resto, l’invito del padre della psicoanalisi. Si tratta, allora, di prendere sul serio questo invito. Femminile separato da femmina, donna; femminile come altro modo, come differenza.
Iolanda Stocchi e Sonia Giorgi interrogano la forma dominante – penetrativa, lineare, che seziona per meglio comprendere –, forma che avrebbe “abbattuto persino la memoria di altre possibilità”, e si rivolgono alle immagini – che alludono, evocano – tenendo fermo, nella loro ricerca, il bisogno di trovare un modo per fare del pensiero uno strumento efficace di lettura del reale “autorizzandosi nel contempo a sentire il disagio nel suo uso, quella sensazione di non essere a casa”. Non è un caso che, entrambe, si accostino al lavoro di cura attraverso la terapia della sabbia e il ricorso ai miti: al dire si affianca il giocare e l’espressione si accompagna a gesti e crea figure.
Dalla sofferenza causata da nozioni che non riuscivo a trattenere – libri studiati e sottolineati di cui non ricordavo più nulla a distanza di pochi anni – mi sono difesa, dopo, pensando: “in me il sapere non resta come nozione ma si fa corpo”. Il discrimine tra la sofferenza e il “dopo” è coinciso con la mia analisi personale, ma pure con gli accadimenti della vita, e non so esattamente cosa intendessi con questo: “si fa corpo”. Tuttavia ritornano, nelle pagine di questo volume, immagini che mi riportano lì, rispondendo al mio “si fa corpo” e dandogli sostanza, rendendo dicibile una differenza avvertita e non compresa: “il maschile risponde alla logica dell’aut, il femminile a quella dell’et”; e, ancora, “se per il maschile si tratta di dare corpo al pensiero, per il femminile occorre dare pensiero al corpo”; un pensiero con logos che divide e discrimina e un pensiero con eros che, come un gomitolo, collega; un pensiero carsico, che si trasforma al buio per poi uscire in superficie; conoscenza simbolica, o, con Jung, conoscere in relazione: collegare una percezione a un’altra e costruire una trama di rimandi. E tuttavia Giorgi allarga il sospetto: “Uomo-Padre-Cielo-Spirito-Pensiero-dominatore; Donna-Madre-Terra-Natura-Sentimento-dominata. Si tratta di una divisione di competenze tanto obsoleta quanto ingiusta e inefficace, e come tale deve essere superata, poiché ha condotto alla mutilazione di entrambi i generi, insterilendone le possibilità”.
Stocchi volge lo sguardo indietro, in un arcaico anteriore ad Apollo e alla sapienza greca: la civiltà minoico-micenea. A guidarla le sirene, creature ibride, dei transiti, complesse, che ci insegnano che la realtà umana “è refrattaria ai concetti”. Le sirene, per gli antichi, iniziavano alla morte, alle vie interiori: l’incontro con tali metamorfiche creature chiede di andare oltre la logica, aspira al tertium datur, assume la soglia, il dormiveglia, come possibilità: “la redenzione incarnazione passa per la relazione tra femminile e maschile”, tra lo stato di veglia della parola e lo stato di sogno dell’immagine. La sirena, nei quadri di sabbia dei pazienti, è il femminile che cerca di trovare forma, è figura ponte, evoca una possibilità altra. Stocchi riprende Hillman e il conosci te stesso diventa un conoscere la molteplicità psichica che ci costituisce, le immagini di cui siamo fatti, transitare dalla prosa alla poesia e recuperare un sapere archetipico. L’uomo moderno è ammalato perché è ammalata la sua immaginazione. Le sirene, prima di diventare in epoca medievale esseri acquatici pieni di fascino, erano minacciosi uccelli: la natura ambigua della sirena evoca la natura ambigua del sintomo, che si nasconde, muta, cambia forma, non si lascia codificare universalmente perché è portatore di un altro dire. La sirena, come simbolo e come sintomo, canta, e “solo una coscienza erotica può reggere l’incontro, in quanto capace di coniugare dimensioni differenti dell’essere”. Stocchi sottolinea come la narrazione mitica abbia offerto, delle sirene, una lettura in cui è andato perduto qualcosa che, nelle immagini, si è invece conservato. In questa storia muta, tramandata da capitelli e incisioni, si prova a sovvertire la logica di Ulisse che deve resistere al canto seduttivo delle ammaliatrici, e si racconta, invece, che le sirene – raffigurate talvolta con le ali e altre volte con la coda – chiedono che le si avvicini senza timore, seguendole nel loro mondo senza esserne sopraffatti. Le divinità femminili delle origini, scrive Stocchi, quegli archetipi cui ritornare, avevano ali di uccello e coda di pesce: un’intima connessione che è andata perduta, determinando la netta separazione di spiritualità e sessualità. Il canto di queste creature ibride che sono le sirene, resto di questa antica connessione, è legato a un aldilà: desiderano essere amate e seguite. L’invito, dunque, è a vedere meglio, ad accettare l’altro come differenza: c’è sempre un patto da rispettare per poterle incontrare, “la sirena come simbolo, se accolto, ascoltato da un certo sguardo maschile sia degli uomini che delle donne, può cantare e aprire a una coscienza nuova, mentre se inascoltato grida e diventa sintomo”.
Non è questa la postura analitica? Il soggetto che sa è l’inconscio del paziente, non certo l’analista: i sintomi, dunque, così come le sirene, chiedono di essere ascoltati e non compresi, baciati e non spiegati. È un patto, a rendere possibile l’ascolto: l’analista deve rischiare l’incontro con la follia, senza aver paura di perdersi.
Anche Giorgi guarda indietro: andare avanti implica indagare un passato immemore, ricercare civiltà dimenticate, in cui prerogative del femminile erano poste come sacre: “averle dimenticate ha reso mutilo l’immaginario e l’esercizio della vita”. A indicare questa via sono quelli che definisce gli “junghiani inconsapevoli”: Giorgi traccia la genealogia di un altro pensiero, capace di “mantenere l’enigma”, un enigma necessario, pena lo scadere in una interpretazione normalizzante; pena, potremmo aggiungere, l’illusione di bonificare l’incandescenza viva e stratificata del reale con leggi senza eccezioni: “ho smesso di scartare come organo di conoscenza il sentimento […] e sono stata in grado di conoscermi in una forma di sapere nuova, che si muove nella prospettiva dell’immagine e dell’immaginario”. Giorgi richiama Derrida, Irigaray, Cavarero, Gimbutas, ma soprattutto Luisa Muraro, sottolineando la necessità di recuperare la ricchezza di quella voce antecedente al logos, reintroducendo “attraverso un rinnovato amore per la madre”, il rapporto corpo-desiderio-mente originario, che ha perso autorevolezza: solo in questo modo il pensare potrebbe ritrovare la sua unità originaria al sentire e al contenere. La madre onnipresente e soffocante, così presente nella clinica, sarebbe conseguenza di un radicale misconoscimento della ricchezza dell’archetipo materno, di una messa in ombra della potenza del preverbale, della dimensione erotica, soggettiva e allusiva del linguaggio lì espressa: non natura, dunque, “ma reazione alla negazione delle possibilità di movimento creativo ed esercizio del potere autonomo e aperto”.
Ecco perché, ancora una volta, ritornano le immagini: dei sogni, del gioco della sabbia, del labirinto. Per salvare Teseo non serve la spada che taglia e divide, ma un gomitolo, dono di una donna: la via del ritorno non è lineare, né eroica.
Si tratta, allora, di introdurre nella cura, ma non solo, esperienze capaci di accedere a questo pensiero altro, non immediatamente individuabili da una mente razionale, “in una sottrazione alla coazione a interpretare, in una sottolineatura del clima emozionale, in un rimando continuo allo scambio transferale reciproco, in una attenzione privilegiata al registro immaginale”, come scrive Romano Madera.
Perché le Sirene siano simboli di trasformazione e non di perdizione, insomma, dipende da noi: seguirle in mare senza morirne. Stocchi sottolinea che non guarisce chi ha compreso, ma chi si è commosso. La guarigione, del resto, è un atto d’amore, così scrive Lou Andreas-Salomé in Il mio ringraziamento a Freud.
In copertina, Illustrazione di Laura Berger, Shallow water, 2023.