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Ma tu quando piangi? In dialogo con Pietropolli Charmet

22 Maggio 2024

Violenti, ritirati, aggressivi, fragili, spaventati, indecisi: con un misto di preoccupazione e rassegnazione i discorsi mettono in primo piano il malessere dei giovani. Inauguriamo, con una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet, che non ha bisogno di presentazioni, uno speciale dedicato a questo disagio nominato, commentato, discusso. 

Stefi: Professore, partiamo dall’agio? Quali risorse incontra nella clinica, ascoltando gli adolescenti di oggi?

Pietropolli Charmet: Un’osservazione che faccio di frequente è che mi sembra che, soprattutto i maschi, siano molto più intelligenti di quelli che incontravo una volta, e rispetto a questo avrei avanzato un’ipotesi: mi pare che alla liberazione dei costumi sessuali abbia fatto seguito la liberazione di una intelligenza nella sua concezione più vasta, che rende il primo colloquio con un adolescente qualcosa che rivela una plus dotazione. I primi colloqui sono particolarmente nutrienti per un terapeuta che non abbia riferimenti rigidi e che si lasci incantare dalle capacità narrative, creative, espressive, relazionali anche un po’ misteriose e affascinanti. 

Stefi: Come se, con la messa in questione dell’immagine di uomo potente, la domanda non fosse più: come si fa a esser uomo ma cosa vuol dire essere un uomo? 

Pietropolli Charmet: Mi sembra qualcosa di possibile, mi sembra cioè che tolto il tappo della rimozione, della repressione, e anche della concentrazione sugli aspetti della aggressività e della conflittualità, della contestazione con la legge e con la regola – con il padre, con Dio, con tutto – possano dedicarsi maggiormente a altri aspetti. Qualitativamente era raro, anzi, era quasi entrato nella psicopatologia l’adolescente plus-dotato.

Stefi: E nelle donne cosa vede?

Pietropolli Charmet: Nelle donne questo era qualcosa che si incontrava già: il dialogo, le relazioni e le iniziative psicoterapeutiche, sembravano create per le femmine adolescenti e preadolescenti, che hanno un particolare bisogno di trasformare in parole il corpo, e dunque fanno diventare l’esercizio narrativo, e lo scambio verbale, una necessità da coltivare. Con loro non c’è difficoltà ad avviare una trattativa, difficoltà che con i maschi si incontra maggiormente; i maschi arrivano spesso poco motivati, spinti lì dalle pressioni materne. Le donne colpiscono per l’intelligenza emotiva, la capacità empatica di fornire una descrizione del funzionamento mentale dell’altro: sono cose che non ti aspetti a quindici anni. Mi pare interessante l’attenzione maniacale a quello che l’altra prova, che sperimenta, che era ed è diventata. Questa mi sembra che rimanga una specialità femminile: costruire intellettualmente una mente di coppia, non sulla base del vecchio imprinting materialistico, ma con una nuova concezione difficile da definire e difficile da codificare e da gestire.

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Illustrazione di Flupieland.

Stefi: tocca qui, con questa “mente di coppia”, un tema che mi pare di rilevare sia a scuola, sia nella clinica. Il legame a due, la fedeltà, i triangoli amicali con i loro drammi: sono sempre stati il cuore dell’adolescenza, essenziali alla costruzione identitaria, ma mi pare che la dimensione simbiotica, forse anche favorita da strumenti di controllo, sia esplosa. È così?

Pietropolli Charmet: La relazione con i pari, soprattutto se dello stesso sesso, ha come conseguenza positiva quella di regalare una maggior pesantezza, dare fondamento ontologico alla propria identità. L’aspetto speculare, il fatto di riconoscersi nell’altro, riconoscere che i modelli di funzionamento dell’altro appartengono anche al sé, questo potrebbe essere uno dei vantaggi in termini di accelerazione del processo. Si riscontra in più ambiti, penso a quello dell’identità di genere sessuale perché è forte la necessità di darsi un nome nella sterminata neo-terminologia: la dichiarazione trionfale “sono lesbica” può essere il portato specifico della relazione di coppia simbiotica. È uno scatto in avanti maturativo su un piano che, definendo meglio che cosa intendono fare del loro genere, aumenta la serietà e il senso di responsabilità nei confronti di quello che ritengono di essere, di pensare, di credere. Si sono visti nell’altro e si sono riconosciuti specularmente, simbioticamente, e stanno un po’ meglio. Penso a certe ragazzine, dove l’aspetto della precocità non sessuale ma sociale continua a sorprendere: ragazzine che affrontano da sole situazioni complicate, rischiose anche a volte per la loro incolumità. Ascoltandole si riscontra una forte maturità identitaria: tutto il resto è immaturo, ma non questa contemplazione del sé legata all’autorappresentazione.

Stefi: emergono due temi su cui vorrei tornare: la nominazione e il genere sessuale. Inizio dalla prima domanda. La rete, la disponibilità di informazioni, li aiuta in questo “darsi un nome”: si informano, leggono, sanno, traggono definizioni. Mi chiedo quanto questo li aiuti a comprendersi e quanto li “inchiodi”. Mi riferisco, in relazione alla salute mentale, al ruolo di etichette e diagnosi: “sono border”; “sono anoressica”; “sono bipolare”. Leggono e rispondono, risolvono, le informazioni non aiutano ad aprire interrogativi e a rendere possibile il dispiegarsi di un discorso soggettivo. La costruzione dell’identità passa per le identificazioni, ma mi pare che sia più complicato, in questo eccesso di risposte, il movimento di scollamento da tali identificazioni.

Pietropolli Charmet: Questo è uno degli aspetti maligni della rete, soprattutto le preadolescenti, affamate di sentirsi rispecchiate, effettivamente trovano nella rete un servizio raffinato, pervasivo, che restituisce loro quello che vogliono sentirsi dire e incollano identità che in loro erano fumose e inutilizzabili. Le fanno diventare chiare, evidenti, dicibile narrativamente; in questo senso hanno una prepotenza, una capacità intrusiva. Soddisfano esigenze fase-specifiche molto impellenti. La potenza dipende dal bisogno che hanno di avere risposte definitive: si fa così perché si è così, ecco il decalogo di caratteristiche che devi potenziare, e per potenziarle sono necessarie ginnastiche sociali peculiari. Non è uno scambio educativo integrato, ma ideologico e pervasivo. I siti con la prospettiva di voler aggiornare, mettere a fuoco, spiegare, regalare un’immagine, sono molto efficaci. Non c’è dibattito.

Stefi: E in questo senso vengo alla seconda domanda, riprendendo il tema del genere, mi colpisce che la scelta di nominarsi ricada sulla categoria di “asessualità”. Nominarsi attraverso un alfa privativo, in una non scelta. Ha a che fare con la difficoltà di scegliersi? 

Pietropolli Charmet: credo che possa essere letta, questa scelta, come, da un certo punto di vista, un passo avanti rispetto ai passi prematuri della scelta anoressica. Nella scelta anoressica è in campo la fobia del corpo femminile, della femminilizzazione e dunque della sessuazione. È una risposta convincente alla paura della dipendenza dal maschio. Il no alla sessualità, che ritroviamo nella scelta dell’asessualità, autorizza a una vita molto più tranquilla, esclude l’oggetto come alterità, con una sua autonomia. Resta, come unico rapporto, quello con un oggetto riflettente, un oggetto sé. Questa terminologia si presta a dare un nome a qualcosa di fuggevole, ad ancorarsi e non attraversare alcune questioni. 

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Illustrazione di Flupieland.

Stefi: mi pare che facciano fatica a stare nell’esperienza dell’indeterminazione e forse non li aiutiamo proprio in questo. Ho l’impressione che tendiamo, come educatori, come genitori, a essere fornitori di risposte.

Pietropolli Charmet: Sì, credo che tu abbia ragione, nell’esperienza esplicitamente educativa questo aspetto è importante. Come ti devo chiamare? In fondo il punto non è maschile, femminile, plurale. Per quanto mi riguarda il tema è spostarli da lì: non mi interessa come ti chiami, per me sei una persona. Ma già dire “persona” è chiamarli a una responsabilità. Si dovrebbe smontare l’importanza di questo nome: “ti considero un soggetto psico, sei un cittadino che cerca la libertà, bene, vediamo cosa vuol dire la libertà nel 2024”. Si appellano agli adulti, e è necessario spostarsi dallo svolgere lo stesso ruolo che svolge la rete. 

Stefi: ho l’impressione che tutto questo faccia eco con un altro tema che mi sorprende: l’esigenza che hanno di una relazione paritaria, simmetrica, amicale con i genitori. Portano, nei discorsi, l’amore tra i genitori, come stanno, se soffrono, perché soffrono. Da adolescente non mi ponevo il problema della loro felicità o meno, delle loro preoccupazioni, non parlavo di loro, non vedevo i loro turbamenti. 

Pietropolli Charmet: non saprei dire, perché credo che questo dipenda dai diversi osservatori. Io ho più l’impressione che il genitore reale, la sua funzione, è, come è stato detto, evaporata, e questo non significa che i ragazzi non pensino, non soffrano, non si vergognino, non siano alle prese con la depressione sconfinata che dà il fatto di sentirsi disprezzati o deludenti. Faccio esperienza di adolescenti che hanno il peso di un genitore deluso irrimediabilmente; la perdita di stima del padre è una prospettiva di lavoro. Lavorando nelle comunità i genitori sono fatti fuori dall’autorità giudiziaria, sono fisicamente assenti, se non in forme burocratiche e protette, e allora nello spazio psicologico che rimane mi pare che sia utile tirare fuori la madre nascosta, il padre nascosto, restituire dei connotati abbastanza originali, che sono quelli arcaici e della fantasia, da ricostruire sulla base di spezzoni di vita. Perché da questo genitore ti puoi separare, da quello immaginario non c’è possibilità di individuazione. Nel mio osservatorio assisto a separazioni forzate, drastiche, che tagliano via la possibilità di fare un lavoro più raffinato che va a vantaggio di un sentimento di identità. Quello che dici tu forse ha a che fare con l’ambiente della scuola, classi sociali differenti: la classe sociale che corrisponde a una competenza educativa acquisita è un osservatorio del tutto diverso di quello che si vede nelle aree della povertà educativa e economica, o in quelle di povertà educativa e ricchezza economica, dove si vede spesso una millanteria di stampo narcisistico. 

Stefi: Cosa intende per millanteria di stampo narcisistico? Io, parlando di un contesto che non è quello delle comunità di cui ha detto, ho l’impressione che abbiamo confezionato troppo le parole per loro. Mi chiedo, in questo senso, se non li abbiamo invasi con un sapere, anche quello che nomina il disagio, accessibile a loro. Ho l’impressione che siamo troppo per loro: forse dobbiamo lasciare a loro il lavoro di traduzione? Potrei dirlo così: chiedono il linguaggio della relazione affettiva e non quello della letteratura. Perché? Se io spiego Kierkegaard e parlo dell’angoscia non c’è lo stesso interesse che suscito se parto dall’angoscia, dalla clinica, dagli attacchi di panico, e poi li riporto al filosofo danese. Io ho conosciuto il mio discorso dalla letteratura, ho trovato il mio discorso nella letteratura, e mi pare che oggi conoscano la parola del legame e facciano più fatica a cogliere che la letteratura è di questo che parla. Da insegnante sto provando a spostarmi da questo, dal produrre parole per loro (un ipotetico “loro” che era tutto mio, evidentemente); mi pare che tanto più resto, con il mio desiderio, sulla filosofia, tanto più qualcosa si produce.

Pietropolli Charmet: mi sembra una cosa vera. Nei genitori che passano dalla dimensione di coppia erotica alla dimensione di coppia genitoriale, c’è spesso un eccesso di parola che cerca di stare dietro a una fantasia importante: si vorrebbe costruire Narciso più che mettersi al riparo da questo, dal rischio di un’educazione che sopravvaluti l’importanza dei valori del sé rispetto ad altre questioni. Credo che la difficoltà di ascoltare quello che accade sia legata a un essere sempre o troppo avanti o troppo indietro rispetto alle questioni che si pongono, anche se è necessario sottolineare che la disponibilità dei genitori oggi a fare questo lavoro, in linea teorica, è enorme rispetto al passato: un tempo era necessario inseguire i genitori, adesso chiedono risposte su “come fare il genitore”. Non credo che questo dipenda tanto dal disagio da parte dei ragazzi – vero o millantato a scopo seduttivo e vendicativo che sia –, mi pare che la genitorialità attuale non nasca dalla colpa ma appunto dal desiderio del “meglio possibile”. Ovviamente mi riferisco a quel contesto in cui questo è possibile, in cui è possibile cioè l’esperienza dell’unico, del prezioso, del bello. Io lavoro molto con i genitori, sin dall’inizio: ognuno ha il suo terapeuta e in équipe ci si confronta. L’urgenza richiede il corso di formazione accelerata e questo rischia di far allontanare la prospettiva del sogno e del simbolo: ci si dà da fare per erogare prestazioni materne e paterne che siano allineate a una specie di mansionario, ed è vero che sono slogan pesanti nella realtà clinica. Mi sembra, in effetti, che a forza di enfatizzare il lavoro con i genitori si è dato a questo troppa importanza; è un pensiero recente su cui stiamo riflettendo, che nasce dal confronto con équipe differenti che usano modelli simili, di presa in carico collegiale della famiglia: ci siamo chiesti se ci sia il rischio di non dare un buon esempio, dal momento che non ci si separa dai genitori ma anzi si sta in una relazione, “si fa comunella”, forse, ai loro occhi, a discapito del loro spazio e di questa distanza che è necessario creare. Rispetto a quello che dici sulla non traduzione io credo che sia così: se si parla poco forse le parole le vanno a cercare da chi apparentemente non le vende. Bisognerebbe fare una riflessione su questo. Tante volte mi chiedo, ascoltando la loro musica, se hanno un rispettivo nel pensiero quotidiano, e mi pare strano, ma vale la stessa domanda per le canzoni della mia epoca: sentivamo così e la musica prestava le sue parole, in modo esagerato, a uno stato d’animo collettivo. Anche in questa musica, che non capisco, ci sarà qualcosa che li rappresenta, e, riprendendo quello che dici, preparo delle parole sofisticate ma mi accorgo che in definitiva sarebbe meglio che andassero a cercarle nella savana, pian pianino. 

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Illustrazione di Flupieland.

Stefi: mi impressiona come si sentono davanti alla scelta universitaria, chiedono il prontuario: un prontuario che mi dica cosa voglio fare da grande. Perché abbiamo fatto credere loro che esista un prontuario? 

Pietropolli Charmet: anche io penso che questo sia un appuntamento obbligato; arrivare a qualcosa di sottovalutato dal punto di vista sociale: diventare maggiorenni. Lo celebrano con l’abito da sera ma la società non celebra seriamente tutto questo, questa nuova libertà, questa nuova responsabilità. Bisognerebbe riflettere a partire dal fallimento di questa domanda: gli universitari del primo e del secondo anno, delfini spiaggiati che hanno perso l’orientamento e annaspano, e probabilmente non studieranno mai più ma continuano a stare davanti a un libro aperto che non leggono e che non chiudono. È una situazione disastrosa: spesso compare l’immagine del padre che non ha detto niente, ha blaterato qualcosa rispetto al fatto che la facoltà deve rendere autonomi. C’è, in loro, la delusione: il padre è deluso, e questo produce una paralisi. Siamo molto indietro, i consultori universitari mostrano che sono davvero troppi questi ragazzi che si disorientano e chiedono la risposta. Mi ricordo un corso che avevo fatto alla Bocconi su questo problema, che mi sembrava importante, e lo penso tutt’ora: è un momento in cui arriva addosso il peso del demone dinastico, non sei solo a prendere a questa decisione, ci sono gli avi, la casa, lo studio notarile, la fattoria, i buoi, quelli che ti hanno pensato ancora prima che tu nascessi. C’è una storia mitica che schianta. L’impossibilità credo sia proprio esito della cultura del narcisismo: hanno alle spalle vent’anni di una cultura che dice “tieni da conto il sé”. Questa scelta per il sé è fondamentale, se lo metti troppo dietro o troppo avanti non va bene, e l’idea di non fare gli esami è davvero qualcosa di terribile: è che sono terrorizzati dal libro aperto che hanno sul tavolo e ci vogliono mesi per riuscire a far chiudere quel libro, restano convinti che daranno quegli esami. Il lavoro è provare a dire loro: “Senti, giriamoci dall’altra parte della vita, che se risolviamo i due o tre problemini che hai nella vita di relazione poi possiamo tornare a quelle pagine”. Io credo che le vie ai miei tempi erano segnate in modo così chiaro che la scelta era relativamente semplice, la scuola ti aiutava con un minimo di orientamento – umanistico, scientifico –, poi c’era la famiglia. Adesso c’è una moltiplicazione di facoltà che rende tutto davvero complesso. Credo che questi giovani adulti siano la prosecuzione di una adolescenza incompiuta che non gli consente di avere le idee chiare dal punto di vista del futuro identitario. 

Stefi: Al fondo è sempre una difficoltà di separazione, e persiste l’illusione che ci sia la tua scelta, la scelta per te.

Pietropolli Charmet: loro si aspettano che tu tiri fuori lo spirito guida dalla loro testa, ti dicono che sono importanti i soldi, che sono, in termini di sicurezza, un’illusione: i soldi non sono la sicurezza economica, sono la sicurezza identitaria, il modo in cui nominano la sicurezza di poter tollerare la solitudine. Io, con i soldi, posso sopportare la solitudine.

Stefi: forse, oltre al tema della morte, uno dei grandi innominati è la solitudine. Forse se lasciassimo essere una solitudine ritroverebbero la poesia? Facciamo così: mi dia un suggerimento come insegnante e come clinica. 

Pietropolli Charmet: la solitudine sarebbe il punto di contatto possibile tra i longevi, questa marea di gente che ha la mia età, ottantasei anni: gli adolescenti sono spaventati dalla solitudine, e poi c’è la solitudine dell’anziano. Sono solitudini diverse, io preferisco di gran lunga quella dell’anziano, che non è rassegnato, ma trova naturale di aver passato più tempo in cimitero a seppellire amici e parenti, ed è una solitudine virtuale. L’adolescente solo è veramente solo, il cellulare è il più grosso antisolitudine inventato dall’uomo, e loro non possono separarsene mai. Come fare allora? Io credo che se la tempistica è corretta – una separazione, un tradimento di amici, una paura grande – la domanda semplice, senza premessa, da fare è: “ma tu quando è che piangi?”. È un dire che noi lo sappiamo. Lì c’è il problema della solitudine, che è senza parole. E hai ragione, non si tratta, lì, di inventare parole magiche: bisogna stare zitti. La solitudine diventa in presenza, la solitudine è il nome di quei momenti, è necessario scovarla. 

In copertina: illustrazione di Flupieland.

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