Scuole occupate
L’occupazione è un atto illegale.
Partiamo da qui. Da questa frase, cui continuo a pensare per due differenti ragioni: una che riguarda gli studenti – perché mi pare che troppo spesso non sia loro chiaro, o venga da loro sottovalutato, o non si facciano carico delle implicazioni e delle responsabilità alte che un’occupazione comporta; l’altra che riguarda i docenti – perché mi pare che consenta una facile, e poco utile, equazione: illegale, dunque male, dunque da condannare. Mi pare che la storia ci abbia insegnato i rischi di disciplina e ordine in nome della legge.
Ma ci interessa davvero “condannare”, giudicare, come se fossimo testimoni estranei di quel che ci accade addosso? O siamo piuttosto chiamati a interrogare questi eventi tanto forti, e non percepiti come tali; così forti da affaticare loro stessi, sfiniti dalle notti insonni, dalla pulizia, dai confronti non sempre facili che li hanno divisi, dalle incertezze?
Ho ascoltato quello che è accaduto in questi giorni, le voci di chi sente che la scuola dovrebbe essere anche questo; le voci di chi dice che non gli è stato permesso di entrare in aula; le voci di chi grida il proprio disagio; le voci di chi dice: ‘ce l’abbiamo fatta’.
Ho ascoltato i docenti interrogarsi, mettersi in discussione, incazzarsi e offendersi, prendere le cose sul piano personale – “con tutto quello che facciamo per voi” –, un piano che credo andrebbe tenuto lontano dal modo in cui guardiamo, e valutiamo, quello che sta accadendo. Mi sorprende registrare una lettura di questo evento come offesa all’impegno profuso.
Chi, tra i docenti, ha scelto di percorrere i corridoi occupati non ha fatto l’amico, non ha provato a giocare la partita su un piano orizzontale. Che il rapporto tra docenti e alunni sia, e debba restare, un rapporto asimmetrico, ritengo che sia un punto fondamentale, quello che tuttavia mi domando è: cosa è questa asimmetria? È la legge o è una parola capace di non rispondere a specchio, di spostarsi, di costringerli a interrogare il loro operato; una parola capace di suggerire gli impensati del loro dire, le contraddizioni, i limiti; una parola che sappia riconoscere le risorse, promuovere l’importanza dell’implicarsi, del divenire attivi, del costruirsi come cittadini?
Mi pare, il gesto degli studenti, un gesto maldestro e insieme importante, un gesto che vuole rompere ma non ha chiaro il bersaglio, che un po’ vuole dire un po’ vuole opporsi, che mescola questioni politiche e disagio. Un gesto che dice no al dialogo. Perché hanno detto “no” a una cogestione? Sanno cosa significa, le possibilità a cui aprirebbe? Li abbiamo invitati a immaginare?
Non vogliono mediare: dobbiamo interrogarci su questo.
Credo vogliano dirci il bisogno che sia cosa loro: l’esperienza, la programmazione, questa settimana scolastica di febbraio. Giovedì, al collettivo con Claudia Pinelli sulla strage di Piazza Fontana, da loro organizzato, ascoltavano in silenzio: facevano domande, nessun cellulare. Se lo avessimo pianificato noi, sarebbe stato lo stesso? No. È evidente. E, forse, anche giusto.
Non ci stanno chiedendo soltanto di essere attenti ai loro temi, ma di poter essere loro a fare la scuola, a pensarla. Mi domando se non sia, questo, un invito da accogliere, chiedendo anche a noi uno sforzo di immaginazione, visto che lo spettro più spaventoso che incontriamo nell’adolescenza – lo vedo tra i banchi, lo ascolto nel lavoro clinico – è l’apatia, il non sapere cosa desiderano, la resa, l’assenza di rabbia, la passività.
‘Intanto rompiamo’ – questo dicono. ‘Poi mica dovremo fare altro, no?’
Mi domando: e noi? Sappiamo raccogliere un gesto che così non cambia nulla, lavorarlo con loro, provando a mostrare che una via di dialogo, invece, forse il mondo lo può cambiare? O, quantomeno, se non può cambiare quel grande baraccone che è la scuola, può provare a creare esperienze felici, di messa in discussione di un modello che, forse, se risale a un secolo fa, qualche limite dovrà pur averlo?
Ci stanno dicendo che la scuola non va bene così come è – come dar loro torto –, e lo fanno commettendo un sacco di errori anche per una buona ragione: la scuola è stata poco capace di parlare loro di cosa significa l’assunzione di responsabilità, un po’ perché i genitori proteggono da ogni frustrazione; un po’ perché se non lo fanno i genitori lo facciamo noi; un po’, soprattutto, perché non crediamo che si possano rompere logiche che non funzionano più senza che questo voglia dire perdere il ruolo che siamo chiamati ad occupare, senza per questo ridurci a un piano simmetrico ma, anzi, assumendoci responsabilità molto più grandi, responsabilità che ci chiede la trasformazione sociale in cui siamo immersi.
Ce lo ha insegnato Franco Basaglia: si possono non legare le persone? Certo, solo che bisogna stare svegli tutta la notte per controllare che non si facciano male, e che non ne facciano.
Educare alla responsabilità non passa per reiterare una legge autoritaria che non tiene più, ma perché questo deve essere letto come un non voler insegnare loro la frustrazione e la fatica? Il meccanismo legge-punizione non è forse il meccanismo che più ci lascia infantili? Non sono forse drammaticamente passivi? Non lo siamo drammaticamente anche noi che reiteriamo programmi che non ci convincono più, che siamo liberi in teoria, ma dobbiamo poi farci carico di una maturità che da quei programmi non si distacca nemmeno un po’?
Possiamo veramente, in un tempo in cui il binarismo sessuale è messo così in discussione, con desideri di intervento sul reale del corpo sin dall’adolescenza, non avere il dovere etico e politico di prepararci, e preparare loro, ad affrontare questo tema? E, lo stesso, rispetto ai temi che domandano, dal problema ecologico alle guerre. Sono inadeguati, è evidente, si sentono inadeguati, e sono perfettamente d’accordo sul fatto che la frustrazione sia importante, così come la fatica, ma la frustrazione per qualcosa che desiderano, non per qualcosa che sentono sconnesso al mondo in cui vivono, a una società nella quale le donne devono vedere che, a portare la voce del femminismo, è una giovane imprenditrice completamente immersa – e perfetto rappresentante – di quella società neoliberale in cui tutto si vende e nella quale la parola, la bellezza della parola, della lingua, del sapere, della cultura, è merce tra merci?
L’impegno è il nostro lavoro, credere in quello che facciamo, credere nei contenuti e nello stile, credere nella scommessa di convincere qualcuno che, forse, il sapere è un buon modo per farsi rispettare, per portare la propria voce, per trasformarsi in soggetti attivi. È un buon modo per una vita buona, nel senso di felice, consapevole, rispettosa. Borgna direbbe: gentile. Non è una scommessa da poco nella società neoliberale nella quale viviamo, non è una scommessa da poco testimoniare – nel senso più alto di questa parola – un’altra via. Testimoniarla mostrandosi come soggetti di desiderio, non verso di loro, ma verso le materie che abbiamo scelto, verso i libri che hanno cambiato la nostra vita.
Sono stati chiusi nelle loro stanze per due anni perché è stato detto loro che se si fossero opposti alla legge i loro nonni sarebbero morti, sono stati appiccicati a quel cellulare per due anni perché non potevano essere corpi, e quel cellulare è il modo che hanno trovato di evitare il rapporto – impossibile in adolescenza – con il corpo, lo sguardo, il rifiuto, il sesso. La scuola non dovrebbe aprire al pomeriggio, essere un luogo di corpi non disciplinati ma espressivi, non dovremmo farci carico di questi corpi? O pensiamo davvero di staccarli dai cellulari inchiodandoli dietro ai banchi? E, infine, possiamo chiedere ai professori di implicarsi, di scommettere, di reinventarsi ogni anno da capo, con classi di trenta persone, stipendi inadeguati, e il riconoscimento simbolico del loro operato del tutto assente?