Milano: le mani sulla città
In occasione del 175° anniversario della sua fondazione, nel settembre del 2018 The Economist, settimanale inglese tra i più influenti nella scena internazionale, pubblica un lungo saggio dal titolo eloquente: 1843-2018. A Manifesto for renewing liberalism. Non conteneva novità, ma codificava il progetto neoliberale nella forma che ha trionfalmente preso in Europa dopo il 1989, ancorandosi al paradigma mercatista per interpretare e governare il capitalismo. Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla Prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città. Quando il Manifesto viene pubblicato l’obiettivo di eliminare del tutto o almeno ridurre drasticamente il ruolo della pianificazione urbanistica non era stato raggiunto. Ma nel progetto neoliberale – diversamente che nel progetto liberale – non è previsto di concedere alle città una moratoria, in nessun campo. E affidare al mercato le scelte sulla destinazione dei suoli urbani – e quindi la morfologia fisica della città – è riproposto dall’Economist come un obiettivo irrinunciabile.
Un obiettivo non ancora raggiunto, perché difficile da raggiungere: in Europa le città hanno opposto una decisa resistenza al progetto di affidare al mercato l’evoluzione della loro organizzazione spaziale e della loro architettura. Nelle città che nel corso dell’Ottocento diventano metropoli, stravolte nella loro morfologia fisica e sociale dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, sul terreno della pianificazione urbanistica le democrazie maturano. La storia della città europea degli ultimi due secoli è una storia di grandi progetti di regolazione politica della sua morfologia fisica.
Che parti dell’ordinamento economico possano diventare, e di fatto diventino, nel tempo obsolete o dannose – ‘cerimoniali’, come le ha chiamate Thorstein Veblen – è nelle cose. Per ragioni culturali, tecnologiche, organizzative. Ed è nelle cose che chi governa le elimini o modifichi. Le democrazie sono però vincolate a corroborare la ‘razionalità sociale’ di ogni cambiamento dell’ordinamento economico. Di conseguenza, il punto focale dei loro processi deliberativi è il paradigma teorico utilizzato per valutare l’ordinamento, e classificare questa o quella parte come ‘cerimoniale’, per decidere di ridurre o ampliare la sfera-di-mercato nella società.
In Italia, il paradigma neoliberale stava già diventando il paradigma di riferimento di tutte le maggiori culture politiche mentre cadeva il Muro di Berlino. E da allora, con l’obiettivo di estendere il raggio d’azione dei mercati competitivi, l’ordinamento economico è stato profondamente modificato, con passo lento ma sicuro, attuando l’agenda neoliberale punto dopo punto.
La regolazione dello sviluppo spaziale è tra le prime sfere dell’ordinamento istituzionale a essere modificato. All’inizio degli anni Novanta, cambiamenti normativi circoscrivono lo spazio della pianificazione urbanistica ed espandono lo spazio della contrattazione di mercato. Da una parte, si introduce il dispositivo dell’urbanistica contrattata (1990), una procedura che simula una negoziazione di mercato. Dall’altra, si conferisce al governo della città un carattere manageriale con la figura del Sindaco eletto direttamente e l’autonomia a lui assegnata nella formazione della giunta comunale (1993). Sono cambiamenti introdotti per governare l’eterogenea costellazione di trasformazioni urbane che l’evoluzione della città sociale richiedeva, terminata la fase della crescita estensiva degli anni del ‘decollo industriale’ e iniziata la fase della riconfigurazione per ‘frammenti’ del sistema insediativo. Il suo disegno sembrava capace di garantire, trasformazione urbana per trasformazione urbana, il raggiungimento dell’equilibrio tra interesse pubblico e privato.
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In nessun’altra città italiana quanto a Milano la base economica e la morfologia sociale cambiano così profondamente e rapidamente dagli anni Sessanta ad oggi. La relazione tra città fisica e città sociale subisce un profondo sconvolgimento: la sua popolazione cresce di circa 458.000 unità tra il 1951 e il 1971 e diminuisce di circa 476.000 unità tra il 1971 e il 2011, mentre da città manufatturiera diventa città terziaria per eccellenza. E una parte imponente del sistema insediativo diventa ‘obsoleta’, idonea ad ospitare nuove funzioni riconfigurandone la morfologia fisica.
Milano è un caso speciale per l’intensità del dis-allineamento tra morfologia fisica e morfologia sociale, ma lo è soprattutto perché sceglie come obiettivo strategico la transizione verso il modello della ‘città globale’. Un modello che si fonda sulla internazionalizzazione dei diritti di proprietà e sulla finanziarizzazione del capitale edilizio, e nel quale gli investimenti esteri nella trasformazione della città diventano il motore della crescita economica per i loro effetti diretti (occupazione e reddito) e indiretti (grado di attrattività internazionale). Effetti, che nella narrazione dei sostenitori del modello della città globale, sarebbero sinergici.
All’inizio degli anni Novanta Milano dispone di una grande quantità di suolo ‘sotto-valorizzato’ che potrebbe ospitare ben altre cubature, forme e funzioni; ha una geografia perfetta e un capitale infrastrutturale per la mobilità che la connette allo spazio nazionale, europeo e internazionale (il completamento dell’aeroporto di Malpensa chiude il cerchio); ha un ben definito profilo internazionale in settori produttivi come moda e design, e un capitale umano di prim’ordine. Trasformare Milano in una città globale è apparso una strategia ‘perfetta’, ed è stata perseguita. Verticalizzazione e densificazione del sistema insediativo, standardizzazione architettonica secondo i canoni del mercato globale, eventificazione permanente e orientamento competitivo nello spazio nazionale e internazionale diventano i pilastri di questa strategia di sviluppo, e segnano l’evoluzione della morfologia fisica e sociale della città. Prende forma il ‘modello Milano’.
In nessun’altra città italiana il dispositivo dell’urbanistica contrattata è apparso tanto ‘benedetto’ quanto a Milano: grazie a una procedura adattabile ai singoli casi, si potevano rapidamente realizzare le trasformazioni urbane che il modello della città globale suggeriva, negoziando di volta in volta l’equilibrio desiderato tra interesse pubblico e interesse privato. Ma poi, improvvisamente, scoppia il ‘caso Milano’. Quando la magistratura inizia a contestare all’amministrazione comunale la legittimità giuridica dell’uso fatto del dispositivo dell’urbanistica contrattata. In numerosi casi, la procedura seguita avrebbe impedito che l’interesse pubblico fosse adeguatamente rappresentato nella negoziazione. L’insieme dei costi e benefici associati alle trasformazioni urbane sarebbe stato profondamente distorto: costi sociali ignorati, costi privati socializzati, vantaggi privati maggiorati.
La reazione di chi governa Milano è stata chiedere al Parlamento di promulgare una legge che legittimasse ex-post la prassi negoziale seguita per autorizzare gli interventi di trasformazione urbana. C’erano ragioni evidenti per farlo – per riconoscerne la ‘razionalità democratica’– ed erano le stesse che suggerivano di estendere la prassi amministrativa sperimentata a Milano all’intero territorio italiano. Le norme sulla pianificazione urbanistica erano da considerare troppo rigide, ed era quindi necessario disattenderle per raggiungere una posizione di ottimo sociale. D’altra parte, nel paradigma neoliberale è un capitalismo senza fondamenti giuridici quello che garantisce il raggiungimento di un equilibrio ‘perfetto’ e ‘generale’. Qualsiasi norma formale che vincoli la negoziazione è di troppo.
In assenza di un dibattito pubblico che testimonia quanto fosse condiviso il punto di vista dell’amministrazione di Milano – quanto fosse condivisa dalle maggiori culture politiche l’adesione al paradigma neoliberale –, il processo legislativo ha fatto rapidamente il suo corso. La legge richiesta – la ‘Salva Milano’ per le cronache – è stata approvata dalla Camera dei deputati a larga maggioranza con i voti dei gruppi parlamentari che sostengono il Governo e quelli del Partito democratico che sostiene la Giunta di Milano. E nelle prossime settimane è attesa la sua approvazione definitiva in Senato.
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Il punto focale del ‘caso Milano’ è l’ampia condivisione della tesi dell’insufficiente grado di de-regolamentazione del mercato dei suoli urbani. In definitiva, del ritardo nell’attuazione dell’agenda liberale nella sfera dello sviluppo spaziale. Un tema che, prima ancora dell’élite politica, interroga l’élite intellettuale della città, che lo ha svolto con paradigmatica chiarezza. Poco dopo la pubblicazione del Manifesto dell’Economist – nel quale la de-regolamentazione del mercato del suolo urbano veniva riproposto come un elemento costitutivo del progetto neoliberale – compare sulle pagine del Corriere della Sera, a firma di uno dei suoi più autorevoli giornalisti, un editoriale che esorta a fare di quel Manifesto l’agenda politica della Sinistra. Molti anni prima, nel 2007, per i tipi di un’iconica casa editrice milanese era stato pubblicato un libro di due influenti economisti con un titolo programmatico: Il liberismo è di sinistra. Presentato sulle pagine del Corriere della Sera, di nuovo da uno dei suoi più autorevoli giornalisti, come un contributo che indicava il sentiero da seguire. Non si può dire che l’élite giornalistico-accademica che ha guidato il dibattito pubblico a Milano abbia nascosto quale fosse il suo paradigma teorico di riferimento. E dovrebbe essere accettato come un dato di fatto che con la sua metamorfosi, iniziata pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, la Sinistra italiana è giunta a condividere il progetto neoliberale – persino più di ogni altra Sinistra in Europa. (E comunque, nella sfera dello sviluppo spaziale, allo stesso modo del governo laburista da poco insediatosi nel Regno Unito, che si è affrettato ad affermare, nelle parole di Rachel Reeves, Cancelliere dello Scacchiere, che la pianificazione urbanistica è “il più grande ostacolo verso il nostro successo economico”.)
Dalla prospettiva neoliberale Milano sarebbe semplicemente ‘più avanti’. Anche nella disinvolta determinazione a violare norme formali che chi la governa ritiene obsolete. Per convincersi che Milano è, invece, più indietro, è sufficiente compiere un viaggio a ritroso nel tempo che dalla ‘Red Milano’ di oggi conduce alla ‘Red Vienna’ di ieri. Un viaggio intellettuale nella genesi del paradigma neoliberale, che serve a capirne la profonda natura reazionaria. E anche a trovare la risposta a una domanda che sorge leggendo il Manifesto for renewing liberalism, quando si incontra una frase che sembra aprire un’altra prospettiva sulla ossessione dei neoliberali contro la pianificazione urbanistica: in Europa i diritti di edificazione “have been so far collectivised in many cities as to come close to undermining the very notion of property”.
Il paradigma neoliberale prende forma come progetto intellettuale e politico a Vienna, negli stessi anni in cui la città, governata dal Partito socialdemocratico (1919-1934), vive la straordinaria fase ‘municipalista’ che termina drammaticamente con l’ascesa al potere del movimento austro-fascista. Nasce in feroce e scomposta contrapposizione alla cultura politica della ‘Red Vienna’, opponendosi alla pianificazione urbanistica, alle politiche abitative ed educative, agli interventi di miglioramento dell’igiene pubblica, aborrendo la città che si fa civitas. (La città è il primo livello di governo che i neoliberali viennesi propongono di depotenziare sulla base delle ‘teorie economiche’ che stavano elaborando. Poi, saranno gli stati nazionali e ogni confederazione di stati a diventare ai loro occhi una minaccia alla libertà – alla democrazia non hanno mai tenuto.) A Vienna, devastata dalla crisi economica determinata dalla dissoluzione politica ed economica dell’Impero austro-ungarico, stava prendendo forma una socialdemocrazia che radicalizzava il progetto liberale – niente di più: l’azione pubblica si assumeva sia la responsabilità di adeguare la città fisica ai cambiamenti della morfologia sociale da una prospettiva che declinava il capitalismo nella sua versione democratica che la responsabilità di garantire i minimi esistenziali all’intera popolazione. Si stavano declinando i valori della tradizione democratica consolidatasi in Europa da quando la rivoluzione liberale del 1830 in Francia aveva aperto la strada. A Vienna stava prendendo forma un’evoluzione politica intollerabile per le culture politiche reazionarie eredi dell’assetto sociale dell’Impero asburgico.
Il progetto neoliberale è rimasto sottotraccia, mentre si rafforzava, fino alla fine degli anni Ottanta – fino a quando le istanze morali suscitate dai drammi del ‘secolo breve’ lo rendevano impresentabile. Ma mentre iniziava a ibridarsi negli anni finali della Seconda guerra mondiale con le culture reazionarie degli Stati Uniti – dove i suoi maggiori teorici, da Mises a Hayek, erano infine emigrati –, si stava preparando a ritornare sulla scena. E quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, diventa egemone nella sfera culturale e politica, ci si era dimenticati delle sue origini, della sua storia e delle sue varianti. Di quanto il progetto neoliberale fosse un progetto reazionario che si autolegittima con una ‘teoria economica’ fatta di ‘macchine immaginarie’, costruite e usate come strumenti retorici a difesa di un capitalismo disumano.
In attesa che si affermi una nuova generazione di economisti che di questa retorica non sia prigioniera e ce ne liberi, si potrebbe scendere in strada a Milano, e camminare osservando la città con sguardo disciplinato ed empatico, come hanno fatto Engels e de Tocqueville a metà Ottocento a Manchester per capire cosa fosse il capitalismo delle origini oltre l’ideologia del laissez-faire.
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Aspettando il momento per farlo, ci si può per ora soffermare sulle fotografie e i brevi commenti che le accompagnano che trovate nel recente libro di Alberto Secchi: Milano. Due o tre cose che so di lei. Ciò che ho visto e ciò che vedo (Planum Publisher). Mostrano la morfologia fisica generata dal modello di governo dello sviluppo spaziale seguito a Milano, quella che nasce quando l’architettura viene sottomessa al riduzionismo del mercato globale. E leggerete anche di un tempo in cui a Milano, e dovunque in Europa, l’evoluzione della città fisica era governata da una matrice culturale irriducibile al calcolo economico-finanziario.
Ma, per capire dove l’agenda neoliberale ci sta portando, si dovrebbe scendere in strada per un’altra ragione, con lo stesso sentimento con cui l’avrebbe fatto Carlo Cattaneo: cercare le risposte a una lista di domande ineludibili. Quali sono, trasformazione urbana per trasformazione urbana, le argomentazioni con le quali si è sostenuto che la prassi negoziale seguita a Milano serviva l’interesse pubblico e che le norme violate erano un “ostacolo verso il successo economico”? Come è stata corroborata la tesi del carattere ‘cerimoniale’ delle norme dell’urbanistica contrattata, e dimostrato l’interesse pubblico nell’interpretazione data del dispositivo dell’urbanistica contrattata? Come è stata argomentata la tesi di una relazione causale tra i processi di rigenerazione urbana realizzati fuori dalle regole e la sostenibilità di lungo periodo della traiettoria economica di Milano, e articolata la tesi che il ‘modello Milano’ stia conducendo l’Italia intera verso il futuro?
Una volta scesi in strada, non è chiaro, però, in che direzione fare il secondo passo. Non si scorgono indicazioni che ti conducano all’officina intellettuale del ‘modello Milano’, nella quale potevi sperare di trovare una risposta alle tue domande. Non le vedi, e cominci a pensare che non sia mai entrata in funzione, o forse neanche mai allestita.
L’officina intellettuale del ‘modello Milano’ non c’è, perché non era necessaria: i neoliberali usano ‘macchine immaginarie’ per raccontare le meraviglie della de-regolamentazione del processo economico, le meraviglie del capitalismo sovrano. E comunque, nella città del nostro Illuminismo, non avrebbe dovuto essere la magistratura a dirci che di essa non vi è traccia.
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