Antisionismo e antisemitismo
Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni (particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se reale o immaginario) non si discute.
Con il suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), Valentina Pisanty rifiuta le regole di questa rappresentazione e ne indaga le origini e il funzionamento, concentrandosi in particolare sul “sequestro” della parola antisemita e sullo slittamento da un preciso significato storico a un uso politico strumentale.
Il punto cruciale è individuato nella fusione tra il concetto di antisionismo e quello di antisemitismo, praticata diffusamente con irresponsabile leggerezza. Questo processo di equiparazione necessita della negazione della storicità di entrambi i termini. Solo questa rimozione, infatti, può permettere di ridurre a sinonimi due termini che – in realtà – non sono affatto sovrapponibili, e di nascondere le stratificazioni di significato che ciascuno di essi custodisce. Se è fondata la preoccupazione che pezzi del tradizionale repertorio dell’antisemitismo possano oggi ricombinarsi dentro una cornice antisionista favorendo rigurgiti antisemiti, è altrettanto evidente che l’equiparazione tra i due concetti rafforza questa deriva, mentre una accurata distinzione la priverebbe della capacità di espandersi in modo incontrollato.
Pisanty pone l’attenzione sul rischio che il processo di de-storicizzazione possa rinvigorire il discorso razzista:
“Negare la storicità dell'antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell'eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l'operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo”. (pp. 36-37)
Questa osservazione – un’osservazione scomoda, che tocca nervi scoperti – evidenzia le responsabilità di tutti coloro che, a qualsiasi livello, maneggiano senza cura – per ignoranza o, viceversa, per intenzionale quanto miope scelta strategica – concetti che possono trasformarsi in armi pericolose. Collocati al di fuori del tempo, cioè al di fuori della storia, risultano inservibili per la comprensione di ciò che accade, ma possono essere agevolmente utilizzati per manipolare l’opinione pubblica.
Non è certo una novità che la contesa intorno all’interpretazione storica avvenga anche sul controllo delle definizioni. È agli inizi degli anni duemila che prende corpo l’idea di mettere a punto una definizione prescrittiva di antisemitismo. Pisanty ricostruisce in modo dettagliato il lungo processo da cui ha avuto origine la Definizione operativa di antisemitismo elaborata nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che da allora si è imposta – o pretende di imporsi – come riferimento obbligato. Se la definizione proposta è piuttosto vaga, decisamente ambigui sono alcuni degli esempi che il documento indica come comportamenti antisemiti, e che potrebbero essere invece legittimamente interpretati – a seconda del contesto in cui si manifestano – secondo altre chiavi di lettura. Il loro ruolo – ancora una volta – è quello di orientare il senso comune verso l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.
Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l'unicità della Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata [...]”. La prima sostiene che il crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell'umanità contro gli Ebrei, e in questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla sacralizzazione della Shoah.
L’analisi di Pisanty è quindi focalizzata su un aspetto specifico che deriva direttamente da questo contrasto tra modi differenti di intendere la memoria della Shoah (la stessa autrice aveva già affrontato il tema della “sacralizzazione”: Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, 2012). Più precisamente, l’oggetto del libro è il modo in cui una specifica declinazione della memoria della Shoah viene trasferita da un piano culturale a un piano operativo, nel quale assume la forma di prescrizioni e divieti. Sarebbe di grande interesse continuare l’analisi indagando i modi in cui prescrizioni e divieti si depositano nel senso comune attraverso i meandri dei social network e dei canali di informazione, lungo i quali gli indizi di antisemitismo vengono diffusi senza controllo, amplificati, distorti, non di rado falsificati. Pisanty ne propone un assaggio nelle pagine in cui ricostruisce minuziosamente la campagna orchestrata contro il leader laburista britannico Jeremy Corbyn (a proposito della quale viene sottolineata la coincidenza con l’adozione della Definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA).
Si tratta, in definitiva, della pretesa di “assumere il controllo della lingua”, come l’autrice scrive nell’introduzione. Questa pretesa, naturalmente, non è una prerogativa del governo israeliano o degli intellettuali che, in Europa e negli Stati uniti, semplificano concetti complessi piegandoli a obiettivi politici contingenti (magari perdendo di vista, in questo modo, l’antisemitismo vero, che non ha mai cessato di esistere e che rischia di tornare a espandersi, mentre gli occhi sono rivolti nella direzione sbagliata). Herbert Marcuse aveva scritto pagine illuminanti al riguardo nel suo saggio più celebre, L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964. “Il linguaggio rituale-autoritario – scriveva – si diffonde in tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli non-democratici”, ed è un “linguaggio chiuso [che] non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi”. E ancora:
“Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla designazione, all'asserzione, all’imitazione. [...] il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere l'identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita [...]. Nei punti nodali dell'universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente dell'ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”.
Anche in questo caso il concetto di “chiusura” è centrale, e la ricorrenza fa riflettere. Chiuso è il linguaggio evocato da Marcuse, un linguaggio privato della sua funzione cognitiva in favore di un ruolo meramente funzionale e operativo (e “la razionalità operativa – scrive ancora Marcuse – non sa che farsene della ragione storica”). È chiusa la memoria della Shoah nella declinazione contestata da Levi Della Torre, piegata su se stessa a difesa della propria identità di vittima. Ed è chiusa la definizione di antisemitismo analizzata da Pisanty, costruita con l’intento di delegittimare e tacitare le opinioni critiche nei confronti della politica di uno stato stigmatizzandole con un epiteto associato a un comportamento sociale universalmente riconosciuto come inaccettabile (antisemita!), indipendentemente da una verifica sulla verità di tale affermazione.
Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio, le “politiche della memoria [...] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119), cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel capitolo).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre stato oggetto di una disputa densa di conseguenze sociali. Nelle Tesi “sul concetto di storia” Walter Benjamin afferma: “In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”. La sua preoccupazione era rivolta al rischio che le società conformino il proprio punto di vista (e quindi anche il rapporto con la propria storia e memoria) a quello di chi detiene il potere. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi somiglia molto a ciò che Benjamin temeva. Nell’introduzione al suo libro, Valentina Pisanty sostiene che i processi di costruzione di un linguaggio prescrittivo e autoritario relativo all’antisemitismo da lei analizzati sono andati “di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni” (p. 16). Benjamin ha scritto le sue riflessioni nei primi mesi del ‘40, inevitabilmente influenzato dall’esperienza del nazismo. Un parallelismo su cui riflettere.