Amori senza confini

4 Settembre 2023

L’altra metà della mela, l’anima gemella che completa, l’amore mitico con garanzia d’eternità: quella garanzia che accompagna il pensare l’altro come completamento ideale di noi. Cosa c’entrano queste immagini con il volume di Laura Pigozzi dedicato agli amori tossici? Non sono forse il rovescio?

Leggo ogni anno, con gli studenti di terza, il Simposio di Platone. Cerco sempre, tempo tiranno permettendo (ma non bisogna temere i programmi: si può non fare tutto!), di leggerlo integralmente e, quando arriviamo ad Aristofane e al mito degli strani esseri palla tagliati in due e alla ricerca della metà che li completa, interrompo la parola platonica e li invito a tornare su quello che hanno ascoltato. Coltivo e amplifico l’entusiasmo che ritrovo per quella fusione, per quella unione originaria e per quella ricerca destinale: l’idea di perfezione, di adesione totale, di illimitato; ognuno di loro dice che cosa sia per lui: assenza di segreto; certezza di unità; un “per sempre insieme”; ideale. Così, nel punto più alto di questo climax, intervengo con un taglio: questo non è Amore. Al contrario, questo è – e ora che procediamo Diotima ce lo dirà bene – Morte. 

Uso questa parola: morte. 

Non c’è stato anno in cui la delusione, il rifiuto della mia sentenza, le resistenze, non abbiano abitato l’aula e il nostro dibattito: «Se l’amore non è questo, allora cosa è?». Quest’anno Irene ha detto «Anche lei vuole l’altra metà del cielo. Non lo dice perché non l’ha trovata, oppure perché ha paura». Le ho detto che “paura” era importante, che ci saremmo tornati. 

Ci torniamo, in effetti, ci torniamo nei tre anni interi, ci torniamo ogni volta che incontriamo un campo semantico molto caro – e per fortuna – alla filosofia: quello che si apre intorno al concetto del limite e del confine, dell’alterità, del “tra” e dell’ideale, per restare con Platone. Laura Pigozzi in Amori tossici dice che «l’amore c’è quando si riesce a tollerare l’impossibile che l’amore è». Parole che entrano in risonanza con quello che scrive James Hillman in Tradimento, un piccolo saggio contenuto in Puer aeternus, dove racconta che la possibilità della vita ha origine solo dopo che l’Eden è per sempre perduto, solo dopo che la nostra fiducia viene tradita, dopo che siamo lasciati cadere, che qualcosa buca l’idea che vuole che l’altro sia sempre lì, per noi, come una madre che viva solo per il proprio bambino. 

Pigozzi

Una madre che non abbia altro che il proprio figlio, una madre che non lo lascia lì a interrogarsi su dove se ne va quando lei esce di casa, una madre che satura ogni spazio, non consentendo al bambino di farsene qualcosa della solitudine, di vedere la donna dietro alla madre e di domandarsi cosa quella donna desidera oltre a lui, non fa – questo è la clinica a mostrarcelo – il bene di nessuno: né il proprio, né quello dell’infante. 

«Che il padre faccia da confine!» – scrive ancora Laura Pigozzi. E confine è parola che attraversa ogni capitolo: «il confine è la cura»; «maneggiare i confini con imperizia intossica l’esistenza». Cosa significa che il padre deve essere confine? Non necessariamente il padre deve essere il padre in carne e ossa, può essere una donna, un lavoro, altre figure di riferimento: eteros, differenza, “un terzo” che spezzi la diade madre-bambino – «la famiglia dovrebbe essere un triangolo», si legge ancora. La vita si dà in quello spazio di separazione, che non è spazio di abbandono; è piuttosto spazio di possibilità, di alterità, di parole che devono essere inventate per capirsi, per comunicare le proprie emozioni, per provare a intercettare quelle dell’altro, per avvicinarsi un po’, consci di una differenza destinata a restare tale. La separazione distingue e connette, ama i confini: solo nella separazione si può creare il legame, con buona pace di Aristofane e dell’amore simbiotico che ci completa.

Se è ben chiaro il trauma che una madre assente crea, una madre abbandonica (minus materno), non è abbastanza evidente nel discorso sociale – sottolinea Pigozzi – quanto sia altrettanto traumatico il rovescio speculare (plus materno): l’iperaccudimento, l’eccesso di prossimità, i compiti insieme sino alla maggiore età, i codici simbolici e di differenziazione che saltano, dai baci sulla bocca all’impossibilità del segreto (sapere tutto, avere tutto, controllare tutto). L’abuso al femminile viene spesso iscritto in un prolungamento di effusioni e tenerezze, sino quasi a ritenere accettabile che una madre faccia la doccia con un figlio adolescente o dorma nel letto matrimoniale con la propria figlia sino alla pubertà: «la maggior parte dei casi di incesto avviene senza l’uso della violenza, ma attraverso la seduzione, il plagio». 

Nelle parole degli adolescenti che ascolto in studio – adolescenti che, non a caso, fanno una grande fatica a reperire il proprio desiderio – non c’è legame che non si costituisca come simbiotico, non c’è legame che non si consideri perduto se qualcosa incrina la fusione, se qualcosa smette di essere dell’ordine del troppo, dell’assoluto, dell’onnipresente. Nicol controlla più volte al giorno la posizione delle amiche sullo smartphone, il loro accesso a whatsapp; Nicol fa, con le amiche, quello che la madre fa con lei e che lei non sopporta e, al tempo stesso, non sopporta che manchi. Erika si sente, alternativamente, abbandonata e invasa dal proprio ragazzo: ha paura quando lui non c’è, aleggia su ogni mancata risposta la minaccia del tradimento; eppure, al tempo stesso, «mi irrita quando c’è». Paolo, per evitare tutto questo, rifiuta il legame, la sessualità, e fatica con la parola. Non sono solo gli adolescenti alle prese con un’impossibile misura: i dati riportati nel libro tuttavia parlano di un allarme nazionale sulla salute mentale dei ragazzi che è urgente mettere in primo piano. 

,
Opera di Larry Madrigal.

«Quale è la distanza possibile che consente un ballo?» – si domanda Laura Pigozzi. E lo fa provando a reperire le cause – e dunque indicando delle responsabilità – di problemi, inciampi, difficoltà e orrori che sembrano essere la stoffa delle relazioni nel tempo presente. Non è necessaria la stanza d’analisi per averlo molto chiaro: serial lover, ghosting, silenzi tossici, gaslighter, solitudini, rotture con caratteri deflagranti e la violenza che riempie ogni giorno le pagine di cronaca. 

Pigozzi mostra, intrecciando diversi linguaggi, prendendo esempi dal cinema, dalla clinica, dalla cronaca e dalla letteratura, come tutto ci parli di un’emergenza, come il discorso scientifico registri disturbi, misuri comportamenti, la cui diffusione è segno di allarme: pratiche di evitamento, fenomeni psicosomatici, fibromialgie, anoressia alimentare e sociale, cutting, agorafobia, dermatiti. Invitandoci tuttavia, da psicoanalista quale è, a considerarli sintomi più che disturbi, e dunque a interrogarli, provando a individuarne le cause; nominandoli, essendo le parole il primo antidoto all’assenza dell’Altro che pervade il discorso sociale. Per parlare, descrivere, è infatti necessario accordarsi: parlare è includere l’altro in un campo, confliggere e non evitare, accettare la traduzione e il tradimento che la comunicazione comporta. Provare a mettere delle parole è mediare, differire, entrare in una dialettica, uscire dal campo chiuso familiare e dal suo lessico privato: non stupisce che tutta questa difficoltà appartenga a un tempo dove si vuole la soluzione, il medicinale che guarisca, la risposta senza compromesso né perdita; un tempo in cui il lessico familiare di cura e accudimento travalica i confini delle mura domestiche e invade la scuola, chiamata più a proteggere che a rappresentare l’inedito, a proporre un sapere già digerito più che il trauma del nuovo. 

L’ipercura contemporanea, una cultura che favorisce l’immaturità, la sicurezza, la protezione, è una forma di disorientamento del confine, e non è un caso che si assista a un aumento delle malattie della pelle – organo di transito – e delle malattie autoimmuni. Pigozzi mette in luce sin dalle prime pagine il nodo che congiunge il disagio sociale e il capitalismo, con il suo imperativo a godere, con il suo rifiuto della mancanza e del differimento, con l’ideale elevato a possibilità. Da leggere in questa prospettiva anche l’esplosione delle relazioni bianche, o virtuali: la sessualità è vissuta come una minaccia e l’asessualità diventa una nuova etichetta con cui definirsi, aggirando la paura e la perdita che l’incontro con il corpo dell’altro porta con sé. Pigozzi interroga anche il tema del genere: cosa dice del contemporaneo? La psicoanalisi ci insegna che l’essere umano è già fluido, che il genere non coincide con il sesso anatomico. Come decifrare dunque il bisogno di iscrivere il proprio essere integralmente sotto un’etichetta? Il bisogno di modificare con la tecnica il reale del corpo – scontrandosi peraltro con una radicale impossibilità? Sono domande che rispondono a un’esigenza di aprirsi all’incontro sessuale con l’altro, o a logiche di autodeterminazione? È aggirare una norma che imprigiona o piuttosto illudersi di poter evitare il fardello della sessualità, il territorio straniero interno che questa rappresenta? Dysphoria, angoscia: l’adolescenza non è per definizione l’età che mette in rapporto proprio con l’angoscia, cui si prova a rispondere vestendo nel gruppo identità immaginarie, etichette di diverso tipo? Come interrogare, dunque, come “pensare” questo “sentire”? 

«Saperci fare con i confini»: sembra questo l’invito che la psicoanalista ci rivolge. E che è, in fondo, uno dei grandi obiettivi di una cura analitica. 

Saperci fare con i confini non significa promuovere il mito dell’indipendenza e del bastare a sé stessi – l’essere umano è un essere sociale – ma imparare a tollerare la frustrazione, e l’inaggirabile solitudine, che ogni rapporto implica. L’amore è sempre impastato a una quota d’odio: l’altro dell’amore non è come vorremmo che fosse, non è quel che si fonde con noi. Se l’amore è assoluto, l’alterità dell’altro scompare. 

Saperci fare con i confini non è tenere l’altro a distanza e elevare l’io a Dio, in una traduzione in chiave ipermoderna e maniacale dell’indipendenza come assenza di vincoli; ma rendere possibile il discorso collettivo, il sociale: rendere possibile lo scambio con quel che non è identico. A diffidare della purezza ce lo ha insegnato Primo Levi, che di mestiere faceva il chimico. Costruire legami è non avere garanzie, rinunciare a innalzare a legge la propria parola, rapportarsi al differente: la comunità più che la famiglia, o una famiglia che sappia liberarsi dell’idea del possesso, quel “mio” che forse dovremmo imparare a problematizzare, quel “mio” che tralascia il nome proprio e definisce l’altro solo in relazione al sé: “mio” figlio, “il mio” compagno, “mia” moglie. 

La paura della studentessa Irene, dunque, è un fatto reale e inevitabile; proteggersi da questa paura, tuttavia, è proteggersi dalla vita: «se il soggetto non sa perdere qualcosa, non potrà avanzare». 

 

L'illustrazione in copertina è di Larry Madrigal.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Laura Pigozzi