La scuola ci salverà?

25 Agosto 2023

Tanti tra noi, davanti alla violenza accaduta a Palermo, hanno avuto una reazione viscerale. La rabbia chiede un colpevole, la paura ci illude che qualcuno pagherà e l’ordine sarà ripristinato. Siamo abitati da odio, orrore e terrore: pulsioni, scariche emotive, che precedono l’elaborazione cognitiva. Comprendere richiede invece tempo. Per formulare una riflessione è necessario rinviare, differire; quindi aspettare e poi elaborare. Possiamo scoprire, per esempio, che sono quattordicimila gli utenti iscritti alla “chat della vergogna”. Quattordicimila è un numero ben più grande di sette. Quattordicimila ci arriva come una dolorosa, inaggirabile verità. Quei sette adolescenti non sono il problema, sono un sintomo. Quell’abominio che abbiamo desiderato eliminare dal nostro sguardo – per poter eliminare, così, il problema – è la punta di un iceberg che abbiamo la responsabilità di guardare.
Proporre i loro volti su ogni canale social, fare i loro nomi, invocare la pena di morte, è un grande tentativo di esorcizzazione collettivo, figlio della stessa violenza che si vuole condannare. Quella violenza che si produce nell’immediatezza, nell’assenza di riflessione e quindi nella mancanza di differimento. E si accompagna sempre a una disumanizzazione. Nelle pulsioni immediate ascolto solo me stesso. La pulsione immediata nasce nell’io, non fa i conti con il discorso sociale, che include un “altro” e la sua differenza da me. Ed è la presenza dell’altro, che ci dice che io non posso avere tutto e subito: la legge ha dei tempi che non coincidono con quelli dettati dal mio stomaco.

Si invoca la scuola. Ritorna ciclicamente, come se fosse la soluzione a ogni male. L’idea è che sia necessaria l’educazione affettiva. Ma cosa significa educazione affettiva? E, soprattutto, perché quella scuola tanto bistrattata, quegli insegnanti descritti come pigri, incapaci, disattenti, diventano ora coloro ai quali affidiamo la possibilità di liberarci da questa violenza, di cui testimoniano quotidianamente le pagine dei giornali? Davvero la scuola può tanto?

La scuola è il perno del sistema democratico, avere fiducia nella scuola è avere fiducia in tale sistema, dunque accettare anche il meccanismo di delega che questo prevede. Professori e professoresse sono i delegati che devono farsi carico dell’educazione dei nostri figli.
Siamo in grado di avere questa fiducia nella democrazia e dunque nel sociale? Siamo in grado di pensare democraticamente, di non insultare chi la pensa in modo differente da noi? In ogni dibattito il confronto viene sostituito dall’appartenenza, che diventa schieramento: “con me o contro di me”. Una logica competitiva nella quale l’invidia divora ogni possibilità di discorso. L’altro è un competitor: critico chi ha un posto migliore del mio, maggior riconoscimento; e, allo stesso tempo, invalido la condanna che l’altro muove al mio discorso: è semplicemente invidioso. La discussione non verte più sui contenuti, ma sulla delegittimazione di chi esprime contenuti differenti. L’invidia è, insieme, il motore sociale e il grande alibi con cui non ci spostiamo da dove siamo. In questo senso l’invidia testimonia di una logica competitiva avviluppata al potere che regge il discorso sociale.

La prima funzione della scuola è il passaggio dal familiare al sociale, il passaggio da “io” a “noi”. Il bambino, in famiglia, incontra sempre più raramente limiti e leggi: i genitori si conformano ai bisogni dei figli e investono sulla loro realizzazione immaginandoli come il prolungamento ideale di loro stessi – psicoanalisti e pedagogisti segnalano da tempo questo con crescente preoccupazione. La scuola è il luogo dove dovrebbe incrinarsi qualcosa di questa onnipotenza domestica: non posso indicare la bottiglia d’acqua e aspettare che mia madre me la passi. Devo utilizzare dei codici linguistici che mi consentono di rapportarmi all’altro: «Per favore mi passeresti l’acqua?». Questa nuova formulazione richiede quel differire: per farci comprendere dobbiamo passare attraverso la strettoia del linguaggio. La scuola è il luogo in cui il lessico familiare non vale, dove la mia parola di adolescente non sarà legge, dove fallirò, dove scoprirò che la mia compagna Adele è più brava di me. È la preferita. La scuola mi farà fare i conti -  con i giorni, i mesi, gli anni - con la rabbia verso Adele, mi farà lavorare con lei, scoprire altro di lei. Nell’aula scolastica non c’è nessuno a proteggermi dalla frustrazione, dalla fatica, dallo sforzo di traduzione cui mi costringe la presenza degli altri. Freud in Il disagio della civiltà lo dice con grande chiarezza: la civiltà chiede la rinuncia a una quota delle nostre pulsioni. Il programma della civiltà è eterogeneo al programma della pulsione, non c’è armonia. Che, tradotto, significa che per stare con gli altri devo accettare che non è il mio stomaco a dettare la legge. Che non si può avere tutto. Che quel professore non ha capito niente, che io farei diversamente, ma ho fiducia che questa esperienza aiuterà mio figlio a essere un cittadino capace di rapportarsi all’altro, a sviluppare antidoti e soluzioni per inserirsi in un discorso sociale.
La transizione dal familiare al sociale è una transizione essenziale per la costruzione del cittadino: imparare che la vita collettiva è regolata da leggi, e che la mia libertà deve fare i conti con la presenza, e con la libertà, degli altri.

La scuola è un noi: questa credo sia l’educazione affettiva di cui abbiamo bisogno. La scuola parla a ogni bambino e a ogni adolescente di un mondo che non lo metterà al centro, in cui non potrà comprare tutto, in cui non potrà avere tutto, in cui l’altro non è un’immagine video di cui disporre e che può essere spenta a piacimento, ma ha un corpo. La scuola mostrerà che quei corpi sono differenze ingovernabili. Che ci saranno delle leggi e un’etica, a regolare i rapporti. 

Perché, tuttavia, la scuola non riesce più in questo compito? Perché la famiglia interviene, i docenti non hanno legittimità, la logica della competizione e dell’io entra nelle aule scolastiche?

Non c’è nulla, fuori dalla scuola, che sostenga questo “noi”. Fuori dalla scuola ogni discorso è dominato da una logica che è la stessa che ritroviamo nel familiare: nessun differimento, nessun limite, nessuna rinuncia. La logica del capitalismo ridotta al suo grado più essenziale: tutto è acquistabile, i soldi e il successo possono ogni cosa, la furberia è la via più comoda e garantita.
È complicato insegnare un discorso che non trova conferme né nel familiare, né nel sociale. È complicato dire a Dario che può piangere, se il discorso sociale propone immagini – ancora – di uomini virili vincenti, che tutto possono: viaggiare solitari in un superjet inquinanti, come il calciatore Neymar, o baciare sulla bocca una calciatrice campionessa mondiale, come il Presidente della Federcalcio Luis Rubiales.

Come educare affettivamente all’altro? Come mostrare che l’altro e la sua differenza sono risorsa che ci salva e non nemico da sconfiggere?

Era il 1929 e Freud scriveva: «Il comandamento ‘ama il prossimo tuo come te stesso’ è la più forte difesa contro l’aggressività umana […]. Il comandamento è irrealizzabile; l’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà. La civiltà trascura tutto ciò; ci ammonisce solo che quanto più difficile è l’osservanza del precetto, tanto più è meritoria. Eppure, chi nella presente civiltà si attiene a tale precetto si pone solo in svantaggio rispetto a chi se ne sta fuori. […] A mio avviso, finché la virtù non vale la pena già sulla terra, l’etica predicherà invano». 

 

In copertina un'opera di Lorenzo Mattotti.

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TAGGED: fare scuola