Typologien, fotografia tedesca
Typologien è mastodontica. 600 opere, 25 artisti, 2000 metri quadri e 100 anni di evoluzione artistica. Difficilmente un’esposizione di tale ambizione sarebbe andata in porto senza il potere di un’istituzione come Fondazione Prada e il manico curatoriale e gestionale di Susanne Pfeffer, storica dell’arte e direttrice del museo MMK Für Moderne Kunst di Francoforte. Invece il risultato è una mostra ispirata ed esaustiva, tanto densa nei contenuti quanto estesa negli spazi.
Già dai primi due artisti esposti – Karl Blossfeldt e Simone Nieweg – si può cogliere l’essenza della trasformazione che ha subito la fotografia (e con essa l’idea di rappresentazione, quindi di arte, quindi l’intera società occidentale) nel XX secolo.
Nato nel 1865, Blossfeldt è il capostipite del metodo tipologico applicato alla fotografia. A fine Ottocento intraprende la realizzazione di un atlante in bianco e nero di steli, germogli e altri dettagli vegetali, ciascuno corredato di nome scientifico e contrastante su una superficie uniforme, come un vero e proprio disegno tecnico.

Se Blossfeldt, prima pietra dell’imponente cattedrale della fotografia tedesca, rappresenta l’introduzione storica e tematica perfetta della mostra, il salto temporale con gli immediatamente successivi Tableaux (2005) di Simone Nieweg, a colori e quasi pittorici, è spiazzante. Nata 97 anni dopo Blossfeldt, Nieweg fa parte della seconda generazione degli allievi dei Becher alla Kunstakademie Düsseldorf e quindi a tutti gli effetti parte del “movimento” fotografico della Scuola di Düsseldorf, di cui fanno parte i celeberrimi Andreas Gursky, Thomas Struth, Thomas Ruff e Candida Höfer (tutti presenti in mostra). Nieweg può ricordare un Guido Guidi tedesco: entrambi utilizzano il grande formato su soggetti apparentemente qualunque, ottenendo scatti di qualità estrema ma riprodotti in piccole stampe e senza lavorazioni. Come Guidi ha sempre scandagliato la periferia rurale di Cesena, Nieweg non ha mai lasciato la Rühr, ma con un’attenzione ancora più selettiva (che spiega la sua presenza nella mostra), ritraendo solo coltivazioni di scala medio-piccola, in particolare i Grabeland, un tipo di orto temporaneo per il giardinaggio amatoriale.

Blossfeldt e Nieweg condividono medium artistico, provenienza, metodologia, persino soggetto, eppure sembrano provenire da pianeti diversi. Le variazioni superficiali sono solo epifenomeni di una differenza fondamentale, percepibile nonostante le somiglianze, anzi accentuata da esse (che è poi l’idea dietro l’intera mostra). Dove ogni contrastato bianco e nero eleva un esemplare perfetto come simbolo immortale di tutta la sua specie, isolandolo dal resto dell’universo, i tableaux dalle pallide tonalità cromatiche cedono al contesto e si posano su campioni ordinari. Ad essere unico ora non è più il soggetto ma la fotografia stessa come oggetto: la composizione impeccabile di Nieweg si spoglia dell’estetismo formale di Blossfeldt e si ritorce contro l’immagine stessa per evidenziare l’intrinseca parzialità dello sguardo. Laddove il capostipite crea immagini che sembrano non poter essere in alcun altro modo, scattate in una dimensione fuori dal tempo, la sua erede subisce il qui e ora. Non solo: la sua reticenza sul perché proprio qui e proprio ora, unita alla cura maniacale dietro a ogni scatto e alla loro stringente selezione, non fa che evidenziare questo paradosso che, come oggi sappiamo e sentiamo, è immanente alla fotografia.
Questo perché nel corso del ventesimo secolo è svanita qualsiasi pretesa da parte della fotografia di capire e far capire, di ordinare, di risolvere, di affermare. I fotografi in primis hanno perso fede nell’obiettività e nel potere della loro arte, educando i fruitori a fare lo stesso, col risultato che oggi appare insulsa o superficiale ogni fotografia che non prenda coscienza della sua specificità limitante, con serietà o ironia.

Lungo le pareti espositive si vedono i modi più disparati con cui i fotografi più dotati e influenti del secondo Novecento hanno alzato le mani di fronte alla propria impotenza. Può trattarsi di progetti definiti ma fini a se stessi (l’inventario di “tutti i vestiti di una donna” (Alle Kleider einer Frau, 1974) di Hans-Peter Feldmann, i primi piani auricolari Ohr, 1980, di Isa Genzken); di istruzioni autoimposte ma lievemente e ripetutamente infrante (le minime variazioni nel punto di vista di Bernd e Hilla Becher, a valorizzare la resa estetica del soggetto a discapito della sua riproduzione meccanica); di una resa alla casualità e all’imperfezione del singolo istante (la contingenza dei visitatori nelle immagini museali di Thomas Struth, 1989-1990, le inquadrature improvvisate di Wolfgang Tillmans per Concorde L449, 1997); o addirittura di una presa di posizione ironica, ma fredda e impassibile, nei confronti dell’idea stessa di progetto fotografico (i ritratti bovini di All Ladies - Cows in Europe, 2001-2011 di Ursula Böhmer; le palme di Sigmar Polke fatte di vetro, di pane, di “righello pieghevole”, di “umano” – Glaspalme, Brotpalme, Zollstockpalme, Menschenpalme, 1966 – e di altri materiali improbabili). È come se il fotografo non fosse più convinto di quel che dice, o di riuscire a comunicare quel che vorrebbe dire; e per questo non gli restasse altro che mostrarsi al riguardo affranto, apatico o sarcastico.
È evidente che la convinzione non mancava a Blossfeldt, e nemmeno ad August Sander, secondo padre fondatore della tipologia fotografica, posto all’inizio del secondo piano della mostra con quasi un centinaio di fotografie esposte. Nel 1911 Sander intraprese Menschen des 20. Jahrhunderts (“Persone del Ventesimo secolo”), ciclopico e mai terminato tentativo di ritrarre uno spaccato della società tedesca. Come Blossfeldt prima di lui, e in modo ancora più esplicito, Sander nutre una fede incrollabile nella possibilità di ordinare il caos del mondo selezionando su pellicola un esemplare rappresentativo per ogni categoria. Sander non fotografa un mendicante ma il mendicante, non una moglie di un industriale, ma la moglie dell’industriale; e così per tutta la società.

Gli autori attivi dopo Sander (Sigmar Polke e i coniugi Becher, metà anni ‘60) già mostrano i primi segni di quella sfiducia che si sarebbe fatta sempre più evidente nel corso della mostra e degli anni. Qualcosa in quell’intervallo di tempo deve aver innescato il processo di destabilizzazione. Un indizio si trova già all’interno di Menschen des 20. Jahrhunderts, in quelle svastiche che compaiono con nonchalance sulle divise di alcuni ufficiali. Questi sono ritratti in modo inquietantemente umano ed esposti senza distinzione tra i loro simili, evidenziando come il fotografo fosse ignaro della portata che quel simbolo avrebbe assunto di lì a poco e che ben presto avrebbe travolto anche lui. Sander venne direttamente perseguitato dal regime nazista: il suo unico libro, Antlitz der Zeit (“Facce del nostro Tempo”, 1929), fu sequestrato nel 1936 e le lastre originali distrutte; due anni prima, la Gestapo aveva arrestato il figlio Erich, che gli aveva fatto da assistente e contribuito egli stesso (come dimostrano sette sue foto in mostra) al progetto Menschen. Militante socialista, Erich trascorrerà i dieci anni successivi in carcere e vi morirà nel 1944.
La fotografia Maschera mortuaria di Erich Sander (1944) non si presenta diversa dalle altre: la sua laconica didascalia è una fra le tante, facilmente trascurabile. Sono comunque campanelli d’allarme, discreti ma presenti, sicuramente non casuali, che a metà del percorso mettono in guardia i visitatori, ignari che la mostra concluderà su una nota profondamente disturbante, un inaspettato ma necessario schiaffo alla pretesa di obiettività e freddezza che il concetto di tipologia presuppone.
Concentrati negli angoli della parete di fondo del primo piano, estremità topologiche e simboliche della mostra, sono esposte 29 tavole dall’Atlas di Gerhard Richter. Il più importante pittore vivente fa una comparsa in una mostra fotografica in virtù della sua appartenenza alla già ricordata Scuola di Düsseldorf e del suo progetto di collezione di immagini anche fotografiche, iniziato nel 1962 e ancora in corso. A oggi non vi è una cifra definita di tavole: nel 2021 la galleria Sies + Höke ne ha riportate 802, ognuna delle quali contenente da una a venti immagini, tra ritagli di illustrazioni pittoriche o fotografiche, schizzi, disegni architettonici, collage e composizioni astratte, e fotografie di Richter stesso, come nel caso delle opere in mostra. Anche le tavole Atlas. Fotos aus Büchern. Nr. 16 bis 19 (1967), nonostante la denominazione (“foto da libri”), raccolgono fotografie di fotografie, e non ritagli, come rivela la ripetizione delle stesse immagini ma sfocate da un obiettivo.
L’altra cosa che la denominazione non rivela è l’atrocità del contenuto: corpi scheletrici in fin di vita circondati da corpi morti, e viceversa; centinaia di persone raggruppate come bestiame, centinaia di cadaveri disseminati a perdita d’occhio; uomini portanti la fascia con la stella di David e altri marchi di ignominia sorvegliati, umiliati, impiccati, fucilati da uomini portanti la fascia con la svastica. Trent’anni più tardi, con Atlas. Holocaust. Nr. 635 bis 646 (1997), Richter prosegue la stessa ricerca dalla meta imperscrutabile, che lo porta a riprodurre, mutilare, sfocare, comparare, violare tali testimonianze. Più che un’analisi o un’interpretazione, le tavole sembrano un delirio, prodotto da un febbrile e ripetuto brancolare nel buio. Ad avvalorare questa sensazione, in una tavola compare un frammento ritagliato da una delle famigerate quattro immagini scattate da un Sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, le uniche immagini esistenti di una camera a gas in funzione, le stesse su cui Richter sarebbe tornato ossessivamente 15 anni più tardi per riprodurre gli scatti su tela, rinunciando dopo due anni di tentativi e celandoli definitivamente sotto strati di pittura del ciclo di quattro grandi dipinti astratti Birkenau (2014).

Se nella collocazione attuale (Berlino, Neue Nationalgalerie) queste opere sono esposte di fronte a pannelli specchianti, che inglobano lo spettatore nell’orrore latente dell’opera, da Fondazione Prada le fotografie originali fronteggiano Atlas. Sils Maria. Nr. 684 bis 696 (2003), tredici tavole di fotografie del panorama svizzero scattate dal pittore stesso. Ordinarie foto di pini, laghi e cieli nuvolosi, disposte come in un album di famiglia, di una vuotezza disarmante. Cosa ci fanno lì? Cos’è successo nello spazio che le separa dai corpi di innocenti trucidati? Cos’è successo a Richter tra i due lavori? Perché li equipara come parti dello stesso insieme? Come può osare tanto?
L’artista, del suo Atlas, dice che nacque per “contenere tutto ciò che era da qualche parte tra l’arte e la spazzatura e che in qualche modo mi sembrava importante e un peccato buttare via”: tipologia al ribasso, democratizzazione totale dell’immagine fotografica per esorcizzare il suo altro paradosso, a cui nessun fotografo, dopo la Shoah, può rimanere indifferente. Affiancando (apparentemente) senza pudore le immagini del Tutto più incomprensibile e del Niente più banale, Richter rende brutalmente esplicito quel limbo in cui si trova ogni immagine, la fossa comune in cui va a sedimentare (le fotografie non muoiono: non a caso si dice “immortalare”). Ecco che fine ha fatto la convinzione che animava Blossfeldt e Sander, ecco le ragioni della sfiducia dei fotografi dopo di loro. Il Novecento li ha messi di fronte alla constatazione che essenzialmente, inevitabilmente, la fotografia di una camera a gas e quella di una nuvola sono la stessa cosa. “Da qualche parte tra l’arte e la spazzatura”.
La mostra: Typologien: Photography in 20th Century Germany, a cura di Susanne Pfeffer. Milano, Fondazione Prada, fino al 14 luglio 2025.
In copertina: Ursula Böhmer, Highland Grampians / Scotland [All Ladies–Cows in Europe], 2011 © Ursula Böhmer.
