Anora: dietro la maschera di celluloide

17 Dicembre 2024

Anora – o Ani, come insiste nel farsi chiamare – ha 23 anni e lavora in uno strip club di Brooklyn. Vive in una piccola casa in periferia con sua sorella, con cui pare non avere un ottimo rapporto; la loro madre è a Miami con il suo compagno e del padre non c’è traccia. Inoltre la ragazza sa il russo, perché sua nonna non ha mai imparato l’inglese. Ma più di tutto, Ani è una persona vera. Non è il personaggio di un film incentrato su di lei, sul dramma della sua vita, sui suoi sogni e le sue difficoltà. Ani non è speciale, non è diversa dalle sue colleghe del club né da qualsiasi altra giovane stripper. È una ragazza normale che fa una vita difficile e che ha imparato a sopportare senza lamentarsi, come chissà quante altre ragazze. L’unico motivo per cui la telecamera si posa su di lei è che la sua conoscenza del russo le fa conoscere Ivan, figlio 21enne di un miliardario russo che quando si trova nella villa a New York del padre non perde occasione per battezzare ogni discoteca e strip club in città. Da questo incontro fortunato (o forse no) nasce l’avventura di due settimane che il film ritiene importante ritrarre.

Ma anche Ivan è una persona vera: al contrario di Ani non ha lavorato un giorno in vita sua, è eccentrico e infantile ma cortese e gradevole (e ricco e generoso) abbastanza perché le vada a genio, al punto da farle appoggiare la decisione impulsiva di sposarsi a Las Vegas. Una caricatura di questa coppia potrebbe benissimo dare vita a una rom-com scoppiettante; una versione romanzata potrebbe invece essere protagonista di un dramma del genere amore-vero-nonostante-le-differenze-di-classe. Ma evidentemente (e fortunatamente) al regista Sean Baker non interessano storie così inautentiche.

Dopo quattro lungometraggi che negli ultimi dieci anni l’hanno portato all’attenzione della critica e del pubblico, in un’ascesa partita dalla première al Sundance Film Festival nel 2015 e culminata con la Palma d’Oro a Cannes nel 2024 (era dal 2011, con The Tree of Life di Malick, che non vinceva un americano), ormai è chiaro il filo conduttore della sua pratica: l’illusione che ciò a cui si sta assistendo sia a malapena mediato. Ciò era esplicito nel film che ha reso noto il regista, l’esplosivo Tangerine (2015), nel quale le vicende mondane di una prostituta transgender di Los Angeles sono girate interamente su un iPhone 5, ottenendo un prodotto scarno, credibile e dalla personalità unica. Ma anche dopo un decennio, il successo internazionale, il passaggio dallo smartphone alla pellicola 35mm e l’aumento esponenziale del budget (dai 100mila di Tangerine ai 6 milioni di dollari di Anora – comunque relativamente low-budget), Baker tiene fede alla sua vocazione di regista “neo-neorealista”.

Infatti, pur scaturendo in un contesto storico-sociale completamente diverso dal movimento italiano del dopoguerra, sono troppe le assonanze per non supporre un’influenza diretta: protagonisti di classi disagiate, riprese in loco invece che sul set, parti secondarie recitati da non-attori – il che rende ancora più impressionante il modo in cui Mikey Madison (Ani) e Mark Eydelshteyn (Ivan) incarnano i propri ruoli. Non solo nella recitazione, ma anche nella fisionomia e nei costumi, è di vitale importanza per il funzionamento del film che i personaggi appaiano come persone e non, appunto, come personaggi.

E lo stesso vale per la trama, che segue la stessa logica: pur essendo studiata nei minimi dettagli, deve percepirsi come spontanea, imprevedibile non grazie a un’ottima sceneggiatura ma perché si sta svolgendo in tempo reale davanti ai nostri occhi increduli. Per magia la linea tra copione e improvvisazione sfuma, alterando in modo inesplicabile ma radicale la ricezione del film, che diventa partecipazione. L’incantesimo si espande da dialoghi e battute fino a intere sequenze del film, che razionalmente non possono non essere stati pensati e scritti e pianificati e girati, ma che a livello subconscio si ha il sospetto che siano semplicemente avvenuti. Riprese in esterno troppo buie, sguardi di sincera sorpresa, scene che durano più del dovuto e reazioni insensate che hanno poco del linguaggio cinematografico e molto della vita vera: sono i dettagli a compiere il sortilegio, e basterebbe un inciampo egualmente minuscolo per infrangerlo.

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Baker è consapevole di non potersi permettere nemmeno il più piccolo errore, e si guarda bene dal commetterne, anche per quanto riguarda scelte che richiedono coraggio più che minuzia. Prima fra queste, la causa principale delle critiche che anche i fan dell’autore gli hanno mosso, ossia che il film non fa giustizia alla protagonista. Cito la recensione negativa più popolare sul social cinematografico Letterboxd: “È davvero triste che un’opera incentrata su un personaggio femminile non riesca a creare un vero personaggio attorno a lei. Non vediamo i desideri o le emozioni di Anora. [...] I suoi interessi sono raramente messi al primo posto e non vengono mai esplorati. [...] Se il film avesse dipinto il suo conflitto interiore prima o anche durante il suo matrimonio, le sue azioni non sembrerebbero così arbitrarie” (scritta dall’utente Samara, 6300 like). E pescando dalle altre stroncature in ordine di popolarità: “la curiosità di Baker finisce prima di iniziare a costruire una vera personalità e interiorità per la protagonista”; “per un film chiamato Anora, non è molto interessato a svilupparla”; “un ruolo che sulla carta è praticamente niente”; “la protagonista in questo film non è per niente sostanziale – chi è? dove sono i suoi amici? qual è il suo scopo? Anora è semplicemente lì, le cose le succedono e basta”.

Ma è proprio quello il punto. Ripeto: Anora è una persona, non un personaggio. Sarebbe stato così facile fornirle qualche trauma o qualità unica per renderla un’eroina del grande schermo, ma perché deve essere tale per meritare l’attenzione della telecamera? Perché dovrebbe essere in qualche modo diversa dagli altri – meglio degli altri – per farci importare di lei? L’omissione di un retroscena non solo preserva l’illusione di realismo del film, diventa una presa di posizione etica.

Anzi, per confermare la genericità di Ani, Baker sceglie (ed è un aspetto stranamente ignorato negli interventi critici sul film) di non mostrarla mai da sola. Della ragazza vediamo solo l’immagine che offre agli altri, la sua maschera: Baker rinuncia contemporaneamente al voyeurismo (forse anche come segno di rispetto per Ani, costretta a trasformare in una recita persino l’atto più intimo) e all’incorporeità dello spettatore, il quale, abituato ad essere un occhio onnisciente, si ritrova qui materializzato come parte della società verso cui Ani porge la sua maschera. Non c’è dubbio che la giovane abbia ideali e crisi, una personalità e un’interiorità, ma nella vita che fa non ha alcuna possibilità di rivelarli, e men che meno uno spettatore esterno può pretendere di averne accesso. E l’eloquenza di tale scelta a livello sociale non potrebbe essere espressa meglio dalle critiche mosse dalle recensioni viste prima: “la distinzione tra il lavoro e la vita personale di Anora è sfumata al punto di essere inesistente”; “Ani è definita dalla sua prossimità a ogni uomo davanti e dietro la telecamera”.

L’approccio rispettoso “presento-non-giudico” della regia si capisce già dalla prima scena, una carrellata al rallentatore che supera la fila di camerini privé del club, ognuno con una ragazza all’opera che danza sensuale illuminata da neon blu e rossi, fino a posarsi su Ani, sulla quale l’obiettivo si ferma e ed esegue un lungo zoom che esclude gradualmente il suo corpo scoperto e ritagliando solo il suo volto. L’altra cosa evidente dell’apertura è che se anche Baker si limita a presentare i fatti, ci tiene che la presentazione sia mozzafiato. Lo splendore visivo di Anora potrebbe sembrare in contraddizione con l’obiettivo di creare un’illusione di realismo. Ma la bellezza del film è fatta di location reali e luci naturali, e la distorsione e i lens flare dati dalle lenti grandangolari sono mostrati in tutta la loro imperfezione; il tutto non solo dona al film stile da vendere, ma conferisce sincerità e tangibilità alle immagini. Anche qui è indubbia l’influenza del regista, fermo sostenitore della pellicola rispetto al digitale e conoscitore esperto di obiettivi (come si nota dalle sue recensioni su Letterboxd, che lui stesso usa frequentemente, di solito commentando in breve l’hardware con cui un film è girato e sorvolando su tutto il resto).

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La resa estetica è chiaramente sintomo della volontà di Baker di fare opere “di contenuto” ma godibili, consapevole che la noia e la pesantezza non sono l’unico – e forse nemmeno il migliore – modo per affrontare certi temi e fare breccia nell’animo degli spettatori. Lo testimonia soprattutto lo humour, ingrediente immancabile nella filmografia dell’autore: Anora è uno dei film più divertenti degli ultimi anni (il che lo rende anche una delle migliori esperienze che ho avuto recentemente, in un cinema pieno). È divertente in modo spontaneo, genuino: niente battute furbe o situazioni assurde, niente setup e punchline; la partecipazione suscitata dal realismo rende ridicole le cose più mondane. Il fulcro del film è una scena demenziale e deliberatamente inutile di 28 minuti che pare interamente improvvisata, anche se ovviamente non può esserlo. Si tratta del momento in cui il film cambia radicalmente ritmo, dalla prima metà che riassume due settimane di frequentazione tra Ani e Ivan alla seconda che segue in minuzioso dettaglio l’epilogo della storia nell’arco di una lunga nottata.

È in quest’occasione inoltre che facciamo la conoscenza del resto del cast, nelle vesti di tre uomini al servizio del padre di Ivan terrorizzati dal guaio avvenuto mentre il figlio del capo era sotto la loro supervisione. Anche per loro il casting è impeccabile, e anche loro sono persone più che personaggi; non sono né classici bruti (post)sovietici da film né bonaccioni che fanno amicizia con la malcapitata Ani. Sono uomini costretti all’obbedienza che stanno affrontando, come la stessa Ani, uno dei giorni peggiori della loro vita a causa dei capricci di un ragazzino molto più potente di loro.

Pur essendo di gran lunga la sezione più comica del film, procedendo verso l’epilogo la regia lascia affiorare un’amarezza che, senza mai sfociare in scene melodrammatiche, si fa sempre più palpabile. Emergono le dinamiche sociali sottostanti all’intera vicenda, che si traducono in un riluttante cameratismo dato dalla crescente consapevolezza che un contrattempo per qualcuno è una questione di importanza vitale per tanti altri. Gradualmente ci si rende conto che si sta ridendo per non piangere, che il velo di ilarità nasconde una situazione tragica, al punto che inizia a passare la voglia di ridere. Man mano che il regista tira i vari fili narrativi del film e si avvicina alla conclusione, ci si accorge di una tensione che furtivamente monta ormai da ore, come un arco che si tende sempre di più. Il ritmo delle scene cala, raggiungendo il reale scorrere del tempo; ogni momento viene mostrato nella sua interezza, ogni attesa si fa insopportabile. Fino al momento in cui, a pochi secondi dai titoli di coda, scocca la freccia, colpendo in pieno e lasciando gli spettatori confusi, addolorati e ammutoliti: Ani si leva maschera, crolla, non nel modo struggente e “cinematografico” a cui siamo abituati, ma nel modo improvviso e disordinato in cui cede alla pressione insostenibile una persona vera portata al limite, ma – ed ecco il coup de grace di Baker – prima di diventare voyeurista, prima di poter impartire una morale o un messaggio, prima che Ani possa diventare Anora, lo schermo diventa nero.

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