Emilia Pérez è soltanto un film

23 Gennaio 2025

Emilia Pérez è un film strano. Più che coraggioso, ambizioso, visionario o complesso, come spesso è il caso con le opere che ci giungono incoronate dai festival di cinema, è semplicemente bizzarro. D’altronde, chiunque abbia visto un trailer o ne abbia sentito parlare non si aspetta che sia un film normale – su Wikipedia è definito un “musical comedy crime”, e andrebbe aggiunta l’etichetta LGBTQIA+. Ma è singolare anche la sua gestazione: una produzione francese ambientata in Messico con un cast ispano-americano.

Controversa, ma forse prevedibile, è stata invece la sua ricezione: stellare negli Stati Uniti, dov’è stato il secondo film con più nomination ai Golden Globes di sempre (10, di cui 4 vinte, tra cui Miglior Film nella categoria Musical o Commedia); ottima tra critica e registi (11 minuti di standing ovation e Premio della Giuria a Cannes, presente nelle liste dei migliori film del 2024 di cineasti come Denis Villeneuve e Paul Schrader; mentre Guillermo del Toro afferma che “è così bello vedere un film che è cinema”); disastrosa presso la stampa queer e in Messico, dove l’anteprima al Morelia Film Festival ha generato un’ondata di derisione e proteste.

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È strano persino il titolo, per una storia che sì, ruota tutta attorno al personaggio di Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón, in effetti candidata come Migliore Attrice Protagonista ai Globes), ma che si struttura invece sulla figura di Rita Mora Castro (Zoe Saldaña, vincitrice del Globe come Miglior Attrice Non Protagonista). La vicenda si svolge infatti dal suo punto di vista, ossia quello di avvocata di talento ma frustrata da un lavoro che non la valorizza, la paga poco e soprattutto la costringe a scelte immorali. È per questo che non esita ad accettare l’offerta che le viene fatta da Manitas del Monte, boss del cartello che domina Città del Messico, di organizzare la sua operazione di affermazione di genere in cambio di una montagna di denaro sporco. E non è per la nobile causa della transizione che Rita acconsente: prima di rivelarle il suo scopo, il boss le intima che “ascoltare è accettare”; un breve scambio di sguardi, e l’avvocata ascolta.

Giusto il tempo di introdurla, e l’eroina che lotta contro il sistema nel nome dell’etica ha già accettato un patto con il diavolo senza le sofferte lotte interiori che ci aspettiamo ogni qualvolta un protagonista si trova di fronte a un compromesso etico. È un primo assaggio di quella che sarà una delle caratteristiche del film, ovvero il completo disinteresse verso l’introspezione unito a un’idea di moralità atipica, che oscilla tra la schiettezza politicamente scorretta (come in questo caso) e un perbenismo disarmante (come si vedrà). Sulle prime, si è portati a supporre che il passato criminale di Manitas sia solo un retroscena verso cui Audiard non nutre grande interesse: uno stratagemma forse poco sottile ma narrativamente efficace; impossibile prevedere il modo in cui tale supposizione verrà drasticamente smentita.

Superato un montaggio che riassume la ricerca di Rita di un chirurgo disposto all’operazione – includendo la canzone La Vaginoplastica, dal ritornello: “la vaginoplastica rende gli uomini felici” – il primo atto del film si conclude con un altro momento emblematico del suo carattere. La morte del boss è stata inscenata, e moglie (Selena Gomez) e figli sono stati trasferiti al sicuro in Svizzera, lontano dal crimine e dalla verità sul padre. Nel primo momento in cui il focus si sposta dall’avvocata, vediamo Manitas svegliarsi in una stanza di ospedale coperto di bende, guardarsi allo specchio e piangere di gioia. Saltando poi alla fine della guarigione, il boss di schiena – i capelli ora lunghi e chiari, nessuna traccia dei vecchi tatuaggi – si mette un reggiseno, mentre ripete, con voce acuta e soddisfatta, il nome Emilia Pérez, colei che profondamente era sempre stata nel profondo e che ora finalmente è riuscita a liberarsi. Scena toccante, forse un po’ mielosa, con la stereotipata luce dell’alba che inonda la stanza a simboleggiare un nuovo inizio.

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Ecco, questi pochi secondi sono tutto ciò che il film dedicherà all’esperienza della transizione. Subito dopo, una schermata nera che recita “4 anni dopo” riporta immediatamente la pellicola all’azione e al punto di vista di Rita, che viene ricontattata da Emilia – ora una donna in tutto e per tutto – perché non sopporta la mancanza per la sua famiglia e vuole riportarla in Messico a vivere con lei, nei panni della cugina di Manitas. Ma bando all’intimità e alle interazioni tra i personaggi, perché il secondo atto inaspettatamente si concentra sulla missione di Emilia e Rita per affrontare il problema dei desaparecidos. Le due fondano La Lucecita, organizzazione con l’obiettivo di rintracciare i corpi fatti sparire dal cartello (oltre 100.000: dato reale) e finalmente permettere ai loro cari un ultimo saluto. Il film prende tale piega profondamente tragica senza variare di una virgola il proprio tono, ricorrendo ad un montaggio musicale in cui famiglie infrante chiedono cantando di sapere come sono morti i propri genitori, figli, fratelli, sorelle mentre i sicari in preda ai sensi di colpa descrivono andando a tempo i vari modi in cui li hanno massacrati, fatti a pezzi e occultati.

Appellandosi alla compassione di vittime e carnefici, Audiard affronta frontalmente il tema della violenza del cartello, con un misto di spudoratezza e di ingenuità spiazzante. Comunque, ora che la nazione sta guarendo dal suo cancro, che Emilia ha espiato i peccati della sua vita passata e che Rita ha coronato il suo sogno di adoperare il suo talento per il Bene, il film può tornare a preoccuparsi di ciò che gli interessa davvero: il ritorno dell’amante della ex-moglie di Manitas e il loro piano di andarsene con i figli. È questo ciò che metterà in moto l’epilogo del film, che alternerà litigi da telenovela a sparatorie.

È difficile tirare le somme alla fine di Emilia Pérez. Si può provare a valutare le sue componenti, come la performance scoppiettante di Zoe Saldaña, quella più sottile e credibile di Karla Sofía Gascón, e quella affettata di Selena Gomez; oppure i numeri musicali (composti da Clément Ducol e Camille), se ancora ce li si ricorda, visto che oltre alle mise en scène variegate (e a qualche testo difficilmente dimenticabile, come la sopraccitata ode alla vaginoplastica) funzionano al massimo come intermezzo ma non come canzoni a sé stanti. 
Ma, nonostante gli sforzi, non si riesce a inquadrare il film nella sua interezza: impossibile vedere uno schema sotto al caos tonale e tematico, trovare una chiave che motivi le tante scelte assurde. Dopo il trionfo ai Golden Globes, gli applausi a Cannes, la filmografia di Audiard, è difficile ammettere – anche a se stessi – che Emilia Pérez sembra un film stupido. Eppure è quella la spiegazione più plausibile, che fa andare ogni pezzo del puzzle al suo posto: e se, semplicemente, l’immagine finale del puzzle fosse uno scarabocchio? Forse è questo che intende Guillermo del Toro quando dice che Emilia Pérez “è cinema”: è solo un film, niente più di due ore di intrattenimento superficiale da guardare con la testa spenta e dimenticarsi mentre si torna dal cinema.

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In effetti, una volta che si inizia a dare credito a questa possibilità, tutto comincia ad avere senso, persino il fatto che si tratti di un musical: le continue interruzioni cantate servono a tenere a distanza lo spettatore e ad annientare ogni pretesa di serietà, prevenendo un’eventuale immedesimazione nei personaggi che mostrerebbe immediatamente quanto è grottesco il tutto. La stranezza dell’opera viene dal presupposto che al cinema elevato dei festival deve corrispondere un certo impegno e una certa profondità, e dall’impostazione mentale nello spettatore che ne consegue; abbandonato tale assunto, non è poi un film così strano. Superata la dissonanza, accettato che forse davvero la soluzione più semplice è quella giusta, ci si accorge che Emilia Pérez grida a gran voce di non voler essere preso sul serio. Dalle dinamiche da soap opera alle ridicole scene d’azione, dallo scansare abilmente qualsiasi ambiguità morale alla regia approssimativa e priva di autorialità, il film ha molto più in comune con la grande massa di prodotti cinematografici buttati sui servizi di streaming e dimenticati nell’arco di una settimana, piuttosto che con gli altri candidati ai premi cinematografici – inclusi anche i controversi vincitori dell’Oscar per Miglior Film Crash (2004) e Green Book (2018) ai quali Emilia Pérez è stato spesso paragonato. Sì, anche questi non brillano per sottigliezza e hanno un approccio malaccorto alla lotta contro i pregiudizi sociali; ma il loro difetto è che pretendono di essere più profondi di quanto non siano, mentre Audiard non sembra proprio interessato a parlare seriamente dei temi sociali che tocca.

Forse il vero merito dell’opera è allora quello di permettersi di trattare con superficialità il tema della transizione, che è sempre stato così ingombrante da essere il centro gravitazionale di qualsiasi film lo affrontasse. Audiard dà per scontato il personaggio di Emilia: da lei mantiene una rispettosa distanza (forse per questo non viene assunto il suo punto di vista ma quello di un altro personaggio cisgenere), mostra il minimo indispensabile del processo di affermazione di genere e non lo mette mai in discussione. Evidentemente non tutti hanno apprezzato tale approccio ma, per citare Manitas, “ascoltare è accettare”: quando il problema non viene più posto come problema, non è più visto come tale.

Ma l’intenzionale e inusuale mancanza di tatto, che rende il personaggio trans squisitamente piatto, è molto più difficile da digerire per quanto riguarda l’altro tema sensibile del film, che invece viene abitualmente sfruttato da Hollywood. Sembra quasi che Audiard ponga i due argomenti a stretto contatto come a dire: perché di uno si può fare cinema leggero e dell’altro no? Ma se la transizione va normalizzata, la violenza criminale in Messico necessita del trattamento inverso. Il film si situa lontano dalla realtà della situazione, e in questo senso paradossalmente aiuta che sia stato interamente girato in studio a Parigi e senza attori messicani in ruoli principali; ma invece di un riguardoso distacco, inesplicabilmente Audiard insiste sul tema, specificando le atrocità invece di implicarle, e arrivando persino ad includere vere immagini di cadaveri tratte dalla cronaca. (Se proprio si vuole parlare di cronaca, perché non citare il fatto che appena sei mesi fa proprio Città del Messico ha istituito il crimine di “transfemicidio” che prevede che, oltre ai parenti, anche gli amici della vittima possano svolgere l’identificazione dei corpi e sollecitare le indagini; questo perché in Messico il diffuso rinnegamento dei propri familiari transgender fa sì che la percentuale di impunità degli omicidi, già del 95%, sia ancora più alta per le vittime di tale categoria.) La farsa, che culmina con l’incontro fraterno tra parenti in lutto e assassini, invece che innocua diventa offensiva, e lascia un retrogusto amaro che inquina irrimediabilmente l’ingenuità del film.

L’unica spiegazione per tale grossolanità è che Audiard voglia enfatizzare la potenza del desiderio come forza fondamentale che guida tutti i suoi personaggi attraverso le loro trasformazioni, inclusa l’intera popolazione messicana, in un maldestro escamotage fiabesco. Ma per un trattamento più sensibile ed efficace del tema rimando a Sean Baker, la cui intera filmografia è dedicata agli emarginati e ai propri desideri. Non solo ad Anora, che – purtroppo – ha perso contro Emilia Pérez ai Golden Globes e rischia la stessa sorte agli Oscar, ma soprattutto alla sua pellicola di consacrazione Tangerine, che già 10 anni fa dimostrava che si può trattare il tema della transizione senza guanti di velluto ma senza dover fare un film stupido.

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