Diciannove: non solo un racconto generazionale
Leonardo si gira e si rigira nel letto. È notte, l’ultima prima della partenza per l’Università lontano da casa, ma noi ancora non lo sappiamo. A un certo punto si sveglia, gli sanguina il naso. Sanguina molto più del previsto, va in bagno e lascia che il sangue dal naso coli lungo lo scarico del lavandino. Il giorno dopo, mentre la madre apprensiva – di certo suo figlio avrà dimenticato qualcosa di importante – lo accompagna in aeroporto per la partenza, Leonardo le confessa il lungo sanguinamento della notte prima e le chiede se non sia necessario farsi visitare. La madre, al contrario di quello che potevamo aspettarci, gli dice sicura che no, non è niente, non si deve preoccupare. Il sanguinamento non tornerà più nel film, così come non ci sarà più un’interazione fisica tra la madre e il figlio. Inizia così Diciannove, il debutto alla regia di Giovanni Tortorici, ed è un inizio riuscito e disorientante per un esordio che attinge dai film di Luca Guadagnino (qui in veste di produttore) molti elementi e alcuni collaboratori di alto livello.

È interessante Diciannove, ed è bene dirlo subito, là dove trova soluzioni di messa in scena spiazzanti come nel suo incipit; dove l’utilizzo di un linguaggio cinematografico si fa chiaro e allo stesso tempo non chiaramente leggibile. I passaggi in cui questo avviene non sono isolati, ma niente come il momento iniziale sa dare consistenza fisica a un turbamento connaturato a Leonardo che il film si incarica di rappresentare. Inoltre, l’elemento corporeo del sangue nel lavandino, che torna quando Leonardo piscia – in un delirio di onnipotenza e isolamento – sulla Storia della letteratura italiana di De Sanctis, e quando si masturba guardando Le 120 giornate di Sodoma, porta al film qualcosa di viscerale che dà consistenza alla vitalità e all’irrequietezza del protagonista. In questo senso è chiaro che Diciannove non vuole essere un esordio come gli altri, ma un'altra cosa. Che cosa?
Non certo un racconto generazionale. Anche questo è bene dirlo subito, a smentire equivoci già in atto che servono a posizionare un film sul mercato, più che a comprenderlo. Diciannove è esplicitamente un film autobiografico che racconta una fase della vita del regista. Se c’è un riverbero di più ampio respiro, esso ha a che fare con il turbamento di un’età di passaggio comune a molti e non con una specifica generazione di ventenni nati alla fine degli anni Novanta. Leonardo è un giovane studente, figlio di una famiglia borghese palermitana, che passa dagli studi economici a Londra a quelli letterari tra Siena e (in un passaggio narrativo poco chiaro) Torino. Il comune denominatore del rapporto tra il protagonista e le diverse realtà che incontra è una forma di feroce insofferenza verso il mondo che gli si presenta di fronte. Leonardo rifugge allora nella letteratura pre-novecentesca che, secondo lui, si farebbe ancora custode di una “morale” e una creatività abbandonata dal Novecento e sparita definitivamente nel presente. Leggerà libri su libri, isolato dal mondo fino a quando un incontro inaspettato lascerà presumere l’inizio di un cambiamento.
Per raccontare questa storia (e raccontare se stesso), Tortorici riprende gli elementi tipici del coming of age, ma li inserisce in una serie di referenze cinematografiche non scontate, su tutte quella al cinema del suo produttore Luca Guadagnino. Le ellissi che portano il protagonista a muoversi tra Londra, Siena, Torino e Palermo, oltre alla musica utilizzata in senso espressivo e espressionista (si pensi alla scena in cui Leonardo lascia in Università una copia dell’invettiva contro il professore dantista) rimandano a Io sono l’amore, mentre il fermo-immagine che caratterizza diversi passaggi del film è una cifra che in Guadagnino è presente sin da The Protagonists e ha una funzione anche in We Are Who We Are, cui Tortorici ha collaborato come assistente alla regia. Questa influenza estetico-narrativa mi pare più interessante e inedita – almeno nel sistema di referenze degli esordi recenti – di alcuni riferimenti più chiaramente leggibili, come l’utilizzo delle scritte in sovraimpressione alla Godard (in una scena Tortorici usa anche l’immagine in negativo come nelle ultime produzioni del regista francese) e i riferimenti al cinema d’autore europeo degli anni Sessanta e Settanta, tra cui rientra il Pasolini che Leonardo afferma più volte di detestare. Inoltre, il tessuto visivo attraverso cui ci vengono raccontate le peregrinazioni del protagonista è multiforme. Vi troviamo, oltre ai riferimenti già indicati, alcune intromissioni dell’animazione, usata per costruire le immagini dei manoscritti che Leonardo legge nella sua stanza; un gusto per il videoclip e diverse suggestioni della serialità televisiva (soprattutto quella teen).

Diciannove prende forma, così, attraverso un mosaico di tasselli diversi, che convocano anche immaginari e linguaggi diversi. Tenere insieme questi elementi eterogenei ed esprimerli nel linguaggio del cinema, è la sfida che Tortorici si prende al suo esordio. Non tutto si tiene e spesso il film scivola verso un’esuberanza visiva che fa perdere la drammaticità di alcuni snodi narrativi (si pensi alla scena in cui la sorella di Leonardo scoppia in lacrime, in chiesa, quando lo va a trovare a Siena). Tuttavia, è un rischio che si accompagna all’intenzione del regista di proporre un linguaggio personale, non strettamente classificabile e dunque lontano tanto dagli ammiccamenti alla serialità americana quanto al provincialismo di un certo cinema italiano. Non si può però negare che la forza di Diciannove è anzitutto il legame con la vicenda autobiografica e non è secondario se si parla del film come di una “novità” tra gli esordi italiani. È chiaro che Tortorici voglia anzitutto raccontare di se stesso, e utilizzare i riferimenti qui citati – quella che potremmo definire una “memoria del cinema passato” – alla stregua di espedienti con cui mettere in scena qualcosa che lo riguarda direttamente. Tutto questo è lecito e può essere interessante. Ma se si vuole misurare la novità di un esordio, credo sia essenziale capire come questo si ponga rispetto alla forma e all’immagine cinematografica. In questo senso sarebbe interessante capire, nel sistema di riferimenti del film, quali siano quelli davvero rifunzionalizzati nell’ottica di un lavoro sul linguaggio cinematografico e quali, invece, siano parte di un citazionismo che rende accattivante il racconto autobiografico alla base di Diciannove. Più che un film che ragiona sulla sua forma, l’esordio di Tortorici sembra essere una storia attinta dal privato e raccontata attraverso una formula originale e un’energia contagiosa, ma non qualcosa di radicalmente nuovo. L’elemento più interessante è presente nelle scene ricordate all’inizio, dove il cinema dà consistenza a qualcosa che non c’è e che incombe sull’immagine: il segno reale di un potenziale talento che, anche se acerbo, può avere un importante futuro.
Giovanni Tortorici ha ventotto anni e ha presentato il suo esordio nella sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, col supporto di una macchina produttiva di assoluto prestigio. Ci auguriamo che possa costruire dei prototipi cinematografici che diventino un modello per altri giovani cineasti. La sua avventura è appena iniziata, aspettiamo con curiosità di vedere la direzione che prenderà.
