Mia Hansen-Løve: Un beau matin

24 Agosto 2023

Esterno, giorno. Parigi. Una mattina di sole. Sandra (Lèa Seydoux) percorre una via del centro passeggiando tra il marciapiede e la strada. Si avvicina alla macchina da presa che, con una panoramica, la segue fino a un portone verde tra l'eleganza dei palazzi parigini. Gira la chiave nella serratura, entra. Uno stacco di montaggio la mostra prima nel cortile d’ingresso, poi sulle scale. Raggiunge un appartamento, bussa (nel film si bussa continuamente). Dall'interno risponde la voce di un uomo confuso: non trova la chiave, non trova nemmeno la porta di fronte a lui. Sandra è paziente, lo rassicura, lo guida. La voce oltre la porta riesce ad aprire e svela un uomo di mezza età, con gli occhi azzurri e la barba canuta. È Georg Kinzler (Pascal Greggory), il padre di Sandra, ex-docente di filosofia ora debilitato dalla sindrome di Benson, che gli atrofizza la corteccia cerebrale. È curioso che questa malattia abbia colto proprio lui, un uomo che a consacré sa vie à le pensée: ordinato, razionale, austero; ora nella casa lo circondano i libri degli autori che amava e che non riconosce più: Thomas Mann, Klaus Mann, Robert Musil, Franz Kafka, Hannah Arendt. Tomi ocra, azzurri, verdi, rossi, une touche de couleur che parla al posto suo, che dice di lui molto più delle sue parole, diventate inceppate e inaffidabili. Sandra guarda il padre scivolarle via dalla sua vita giorno dopo giorno, lei che è madre single da quando il suo compagno è morto dieci anni prima, che del lutto conosce già i tempi e il vuoto. Una donna che si prende cura della sua bambina e che fa della traduzione una postura esistenziale: lavora come traduttrice dal tedesco nelle conferenze di politici e accademici; traduce con pazienza i gesti del quotidiano al padre malato. Inaspettatamente, però, entra nella sua vita Clèment, sposato con un figlio, che le risveglia la passione che credeva perduta, il desiderio e l'urgenza di ricominciare ad amare.

Non si intrecciano le due storie al centro di Un beau matin, quantomeno non subito. Semplicemente accadono e si incontrano quando è inevitabile, senza fare rumore. Al centro di entrambe lo sguardo di Sandra, una Lèa Seydoux che si conferma una delle più grandi attrici del nostro tempo, qui lontana dai ruoli di femme fatale diretta dagli uomini. Sandra non ha nessuna grandeur, nemmeno il sex appeal della bond girl: un pullover blu, una t-shirt a righe, un cappotto scuro, lo zainetto sempre sulle spalle, il taglio di capelli corto. È il personaggio che le affida Mia Hansen-Løve a guardare gli uomini: l'elemento fragile della sua vita, che spariscono o sono sempre sul punto di farlo. Da sempre il cinema della regista parigina racconta l'impermanenza delle cose, la loro durata, il mutare dei destini al cospetto degli eventi e del tempo: la perdita di un marito e padre in Le Père de mes enfants; la fine di un amore assoluto in Un amour de jeunesse; un sogno svanito in Eden; il crollo delle proprie certezze in L'avenir. Con questo film fa un passo oltre e racconta, per la prima volta, la malattia e ciò che ne consegue: l'umiliazione dell'andirivieni nelle strutture ospedaliere di una famiglia unita, che si concede la possibilità di sorridere nel dramma (l'ex moglie di Georg, interpretata da Nicole Garcia, è un elemento di esuberanza progressivamente contagioso). A questa linea narrativa affianca però, ancora una volta, l'esplorazione del sentimento, le possibilità con cui può nascere un amore difficile e le sue conseguenze.

Dal momento che l'esercizio critico non può esimersi dalla soggettività di chi scrive, confesso di sentirmi, da sempre, molto vicino al cinema di Mia Hansen-Løve. Questione di comune sensibilità, ma non solo. Erede diretta del mio cinema preferito – quello della Nouvelle Vague – la regista ne ha assimilato i principi per declinarli in film completamente personali. È celebre la frase di Godard per cui scrivere di cinema significa già fare del cinema, che tra l'attività critica e quella registica la differenza sia labile; Mia Hansen-Løve appartiene a questa scuola. È una delle più giovani registe uscite dalla palestra dei Cahiers du Cinéma e in breve tempo è passata con naturalezza dalla critica alla prassi filmica. I suoi film dimostrano come l'attività del critico aiuti a misurarsi con le potenzialità del linguaggio cinematografico per trovare la chiave giusta a esprimere la propria soggettività. Probabilmente da qui nasce la consapevolezza visiva della Hansen-Løve nella messa in scena del reale, illuminato dalla grana della pellicola. Se i suoi film arrivano a noi con immediatezza, vestiti con l'abito della semplicità, non è mai per la facilità di ciò che raccontano, al contrario è il risultato di chi declina con grazia la complessità.

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A supportare le scelte visive, si noti l'importanza che la regista attribuisce alla fase di scrittura dei film. Non mi riferisco alle modalità con cui crea un personaggio ma all'esperienza di scrivere una sceneggiatura di per sé. Un assaggio filmato di questo momento del processo creativo è il tentativo di Chris di scrivere il suo nuovo film in Bergman Island. Da un lato, è un momento di assoluta solitudine; Hansen-Løve scrive le proprie sceneggiature da sola per cercare di raggiungere, quasi spiritualmente, una chiarezza interiore. Unica eccezione a questa consuetudine – ad oggi – è Eden, che tuttavia era un film molto diverso dagli altri e probabilmente richiedeva il supporto inevitabile di suo fratello nella stesura dello script, oltre a un supporto digitale e non su pellicola. Dall'altra, calarsi nella propria interiorità per raccontare la realtà a partire dalla propria esperienza personale è faticoso ma decisivo per l'originalità del suo cinema. Sempre in Bergman Island il momento di scrittura del soggetto veniva definito (ironicamente ma non troppo) “a torture, a self-inflicted agony”, il prezzo da pagare per raggiungere una forma cinematografica. Il risultato è una continua interrogazione per immagini dell'esistenza, attraverso storie di vita vera; in cerca di risposte stabili, ma mai definitive. Questa necessità è di natura eminentemente filosofica e la filosofia non è estranea né all'universo della regista (i suoi genitori erano docenti di filosofia), né al cinema. Interessati alla materia lo erano soprattutto i grandi autori della Nouvelle Vague – sempre Godard ricordava, in Masculin féminin, quanto il filosofo e il cineasta avessero la stessa attitudine nel relazionarsi alle cose – e, in particolare, un regista che metteva insieme la riflessione e la vitalità dei propri personaggi: Eric Rohmer. È noto che le atmosfere dei film di Mia Hansen-Løve riecheggino quelle rohmeriane e non è un mistero che mentre scriveva L'avenir avesse in mente proprio Le rayon vert per rappresentare lo smarrimento impersonato da Isabelle Huppert.

In Un beau matin l'omaggio al regista è presente nelle scelte di casting. C'è Pascal Greggory, che faceva il seducente e un po' imbranato insegnante di surf di Pauline in Pauline à la plage, e che qui ha il ruolo del professor Kinzler. Lo strazio con cui il suo personaggio ci trasmette l'umiliazione della propria condizione è fatto di emozioni misurate e mai calcate, di sguardi sottili e di una sofferenza che in alcuni lampi sembra renderlo atrocemente consapevole della propria condizione. C'è poi il Melvil Popaud che tutti ricordiamo per Conte d'été e che conferma, film dopo film, il suo indiscusso talento. Il personaggio di Clément è di un'umanità straordinaria, il simbolo di una mascolinità diversa da quelle rappresentate in Un amour de jeunesse e L'avenir: Clément resta, si assume le proprie responsabilità, stretto tra le ragioni del cuore e le urgenze del quotidiano. È un uomo che ascolta se stesso con franchezza e sceglie di rischiare.

Con un film ancora più maturo dei precedenti, Mia Hansen-Løve ci mostra come il suo cinema sia un tutt'uno tra la riflessione sulle immagini e la vita, tra il trovare la giusta posizione della macchina da presa e la giusta distanza dall'autobiografia. Perché la storia della malattia di Georg è la storia del padre della regista, così come dal suo vissuto prendevano corpo Un amour de jeunesse e Bergman Island. La scelta di fare i film non soltanto come possibilità di espressione, ma per dare forma a un ricordo attraverso la finzione, con tutta la fatica che questo comporta; un gesto che non si può separare dalla vita. Chissà se anche il padre di Mia Hansen-Løve, nella consapevolezza della sua malattia, pensava a un'autobiografia dal titolo così rigoroso e dolce: An einem schönen Morgen; tradotto, Un beau matin.

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