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La vita, malgrado tutto: Occupied City

13 Marzo 2025

71 Ruysdaelstraat.
Un corridoio domestico, in fondo al quale un’ampia vetrata inonda l’ambiente di luce dorata.
Sede di Keesing, casa editrice di riviste.
Una signora in grembiule compare in fondo al corridoio, con fare indaffarato.
Il 15 maggio 1940, il giorno della resa dell’esercito olandese, Jacob Keesing, sua moglie Esperance e le sorelle Suzanne e Marianne si tolsero la vita nel porto di Ijmuiden. Molti ebrei speravano di fuggire da lì verso l’Inghilterra, ma la maggior parte non riuscì a trovare una barca disposta a portarli.
La signora attraversa il corridoio, apre uno sgabuzzino buio e accende la luce.
Il direttore della società, il fratello di Jacob, Isaac Keesing, riuscì a fuggire negli Stati Uniti nel 1942. Prima di partire, trasferì l’azienda al suo dipendente, Peter Diesveld, che dovette lavorare sotto la supervisione di un Verwalter, un amministratore imposto dai tedeschi a tutte le imprese di proprietà ebraica. Nonostante ciò, Diesveld continuò segretamente a pagare il personale ebreo licenziato.
La signora apre la botola di una cantina, scende la scaletta e prende una grossa pentola; sa dove cercare, evidentemente vive o lavora in quella casa.
Diesveld si trasferì nella casa di Isaac Keesing e nascose persone sia lì che negli uffici. Un uomo rimase nascosto per giorni sopra l’ascensore.
La signora risale la scala, chiude la botola, esce dallo sgabuzzino, spegne la luce.
Un ampio incrocio trafficato, è sera e il cielo è grigio.
Prins Bernhardplein.
Gli alti palazzi di vetro sullo sfondo non hanno più di 30 anni.

Le autorità tedesche vietarono che le strade portassero il nome di membri viventi della famiglia reale olandese. Questa piazza fu quindi rinominata Gooiplein, in riferimento a un’area rurale vicino ad Amsterdam.
Un altro cielo grigio, ma più luminoso. Sembra l’alba. Quattro pompieri circondano uno spiazzo anonimo.
7 Schagerlaan.
Nello spiazzo ci sono dei bidoni della raccolta differenziata interrati, di quelli a botola, uno dei quali sta fumando. Questo spiega la presenza dei pompieri.
Nel dicembre 1942, la famiglia Bergsma informò la polizia di aver trovato un neonato di quattro mesi davanti alla loro casa. Per tutto il 1942, i giornali riportarono una “inondazione di neonati abbandonati”. In questo modo, i bambini ebrei potevano essere presi legalmente in custodia da chi voleva salvarli, mentre la loro vera identità rimaneva nascosta. Per fermare questa pratica, nel gennaio 1943 i tedeschi annunciarono che tutti i neonati trovati sarebbero stati considerati ebrei.
L’azione è già finita, i pompieri sembrano aspettare di vedere se l’incendio è davvero domato. Puntano una torcia sul fumo che non accenna a cessare, i lampeggianti dell’autopompa sono accesi ma le sirene sono spente, l’acqua appena spruzzata cola in una gronda.
Il piccolo David Kurk sopravvisse alla guerra con il nome di Rudolf Bergsma. Sua madre Karolina Kurk-à Cohen fu assassinata nel centro di sterminio di Auschwitz nel 1944, suo padre Jacob Kurk nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945. Demolito.
E così via.

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Così si apre Occupied City. E così è per tutta la sua durata. Una struttura formale estremamente semplice — una narrazione neutrale di alcuni fatti di cronaca del periodo di occupazione nazista di Amsterdam, sovrapposti a immagini documentarie odierne dei luoghi in cui si sono svolti gli eventi — ripetuta in ordine apparentemente sparso per 4 ore e 22 minuti. Un puzzle senza immagine finale, un mosaico da vedere da vicino, poiché dichiara che la sua ragione d'essere è racchiusa in ciascuna delle sue tessere, ognuna unica ed essenziale.

Il monumentale film di Steve McQueen, arrivato su Mubi Italia a fine anno scorso, si compone di 130 di queste tessere, ognuna associata a un luogo specifico (la narrazione di Melania Hyams, dal tono neutro ma mai didattico, si apre sempre con un indirizzo e, nel caso l’edificio non sia sopravvissuto al tempo — cioè molto frequentemente — si chiude con un laconico demolished), ricalcando la struttura del libro da cui è tratto, Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945 (2019). Il tomo illustrato, 560 pagine per oltre 2000 indirizzi, è opera di due decenni di ricerca di Bianca Stigter, storica e regista, nonché moglie di McQueen. Non è la loro prima collaborazione: è stata lei a segnalare al marito 12 Anni Schiavo, il memoir del 1853 di Solomon Northup che tra Oscar, BAFTA e Golden Globe, ha consacrato McQueen, già al terzo lungometraggio dopo Hunger (2008) e Shame (2011), come regista cinematografico a tutti gli effetti.

Sebbene la natura concettuale e sintetica e le pretese verso lo spettatore siano quelle di un’opera d’arte, la durata e la distribuzione (a partire dall’anteprima a Cannes nel 2023) collocano Occupied City nell’alveo del cinema. A riprova di ciò, McQueen afferma di stare lavorando a una versione “scultorea” lunga 36 ore che copre ogni indirizzo presente nel libro ed è concepita come “opera d’arte per un’istituzione”: indubbio quindi che l’Occupied City di “sole” quattro ore nasca come film, con le implicazioni del caso.

La rappresentazione filmica della Shoah è infatti questione pluridecennale e complessa, che nel corso del tempo ha coinvolto i pesi massimi del cinema e della filosofia, e non sempre in modo diplomatico. Claude Lanzmann ha portato la nozione di intoccabilità dello sterminio nazista al suo estremo realizzando Shoah (1985), documentario di nove ore composto esclusivamente da interviste a testimoni diretti e riprese dei luoghi in cui sono avvenuti i fatti. L’ambizione dell’impresa, l’atrocità dei contenuti e l’ineccepibilità concettuale hanno reso il film un manifesto dell’irrappresentabilità e inenarrabilità della Shoah, che col tempo ha rischiato di trasformarsi in ostacolo insormontabile. Eppure oggi, forse perché costretti da nuovi genocidi a fare i conti con il passato, stiamo assistendo a un ritorno sul tema con opere di grande tatto e rigore, decise però a superare l’ostacolo attraverso la fiction: è questo il caso degli eccellenti Il figlio di Saul (2015), La zona d’interesse (2023) e in un certo senso anche di The Brutalist (2024). Tutte opere che osano raccontare ma al prezzo di non mostrare.

Se Shoah è l’ineluttabile punto di riferimento e metro di paragone per la cinematografia sullo sterminio, è evidente come lo sia stato in particolare per Occupied City: la Storia relegata alle parole (“come un bisbiglìo del vento” secondo McQueen), e quindi all’immaginazione, mentre l’illusione della realtà offerta dalle immagini cinematografiche saldamente ancorata al qui-e-ora, stabilendo un legame tra presente e passato tanto indelebile quanto precario e affidando allo spettatore il gravoso compito di mantenerlo in vita. Ed è proprio in rapporto a Shoah che si desume la ragione di essere di Occupied City poiché nonostante siano essenzialmente analoghi, l’effetto che producono è opposto. Se Lanzmann – legittimamente – svuota l’animo di chi guarda, zavorrandolo col peso della Storia e negandogli la possibilità di lasciarla alle spalle, McQueen osserva con fascino umanistico la nostra capacità di guarire da qualsiasi ferita – o meglio, la nostra incapacità di non farlo.

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Dall’accostamento continuo tra passato e presente emerge sì la portata del disastro avvenuto – “dei 107.000 ebrei deportati dai Paesi Bassi, solo circa 5.000 tornarono. Il 75% degli ebrei non sopravvisse. È il tasso più alto di tutta l’Europa occidentale occupata. Amsterdam perse più di 60.000 dei suoi 80.000 abitanti ebrei” riassume a un certo punto la voce narrante – ma anche il ritratto empatico di una città rigogliosa, colta nei suoi aspetti più contraddittori e per questo più umani. Proteste contro la quarantena per il Covid e manifestazioni contro il cambiamento climatico, canali ghiacciati diventati piste di pattinaggio per centinaia di cittadini e malati di Alzheimer in riabilitazione, matrimoni celebrati via zoom causa quarantena e la routine di un autista di tram, la visita ufficiale del re olandese al memoriale della Shoah e la celebrazione del bar mitzvah di un ragazzino ebreo.

La fotografia in pellicola 35mm di Lennert Hillege è meravigliosa di per sé, il che è essenziale per far scorrere le quattro ore, ma ancor più lo sono le divagazioni stilistiche che di tanto in tanto McQueen si concede e che in un documentario freddo e distaccato sembrerebbero fuori luogo, ma che in Occupied City calzano a pennello. Durante la prima notte di coprifuoco epidemico il flusso continuo di informazioni si interrompe: la telecamera comincia a volteggiare tra le vie deserte della città, la sinfonia di violini di Oliver Coated (scoperto da McQueen perché violoncellista nella colonna sonora di Il filo nascosto di P.T. Anderson) cresce mentre l’inquadratura si capovolge su se stessa come se fosse uno spirito senza corpo. E, tra una piroetta e l’altra, lo sguardo si aggancia ai pochi viandanti, da ciclisti solitari ad automobili i cui conducenti nemmeno si vedono, ma che per qualche momento diventano i protagonisti. La macchina da presa sembra farsi facilmente distrarre da dettagli apparentemente insignificanti: i piedi dei partecipanti a una commemorazione contro il colonialismo che non riescono a non seguire il ritmo della musica nonostante la formalità dell’evento, una caduta in bici e il seguente diverbio, diversi curiosi che si arrampicano oltre delle barriere per sbirciare i lavori in corso.

Il contrasto tra questi episodi effimeri e la tragicità dei fatti narrati crea una dissonanza spaesante che McQueen ricerca consapevolmente: “mentre guardi un film, cerchi sempre di dargli un senso. E a volte, come nel nostro film, semplicemente non ha senso. Come si può dare un senso all’uccisione di sei milioni di persone? È impossibile.” Ma la sua è un’assenza di senso opposta a quella a suo modo definitiva di Shoah, poiché dimostra che, oltre ogni comprensione, “malgrado tutto”, per dirla alla Didi-Huberman, la vita continua. E McQueen non può che celebrarla: “Amo il fatto che a questi ragazzi non freghi di niente. E perché dovrebbe? Possono girarsi e fumarsi la loro canna e saltare la scuola, come abbiamo visto fuori da quella scuola. Sono sempre le ragazze, vero? Sono sempre le ragazze a fumare! E ne hanno tutto il diritto. Quindi sì, essere inconsapevoli può anche essere un atto di protesta”.

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