Speciale

Adolescenti: una conversazione con Massimo Recalcati

10 Marzo 2025

Torniamo, con lo psicoanalista Massimo Recalcati, a parlare di adolescenti e scuola. Massimo Recalcati non ha bisogno di presentazioni, ma in questa occasione mi pare importante ricordare che a lui, e alle sue teorizzazioni, si deve la nascita di Telemaco di Jonas Milano, un luogo di cura e ascolto, orientato dalla psicoanalisi, e rivolto agli adolescenti e a chiunque li affianchi nel loro processo di crescita.

Anna Stefi: spesso, parlando di adolescenza, sei tornato sull’importanza di accendere il desiderio come nodo nel rapporto con i giovani. Ti riporto le parole di Irene, mia studentessa: “studio e ripeto, studio e ripeto, studio e ripeto. E dimentico. Questa cosa mi sconfigge. Non sopporto il richiamo al che cosa desidero, perché capire cosa desidero, e cosa voglio diventare, mi mette più ansia ancora della maturità: mi sento in colpa perché non lo so”. Ho sentito un chiaro j’accuse: “anche questo volete da me!”. Un desiderio diventato dovere non nel modo in cui sei solito declinarlo tu – il dovere del desiderio – ma come una prestazione tra le altre cui si sentono chiamati.

Massimo Recalcati: la distorsione di cui dici avviene sul piano della domanda. Uno dei grandi contributi che Lacan dà a una teoria possibile della adolescenza è la distinzione tra piano della domanda e piano del desiderio. L’adolescenza sarebbe il primo tempo del processo di soggettivazione, in cui il desiderio del soggetto si contrappone alla domanda dell’Altro. Una delle etimologie possibili di adolescenza è “acquisire il proprio odore”: l’odore del desiderio si rivela eterogeneo alle aspettative della domanda dell’Altro, in cui rientrerebbe anche avere un desiderio. Se “avere un desiderio” si configura come un modo della domanda dell’Altro, il soggetto, per preservare la propria singolarità, deve disertare il desiderio. Se il desiderio diventa un dovere prescritto dall’Altro, o dal dispositivo istituzionale, non è più tale. Nella didattica abbiamo tanti esempi illustri: I Promessi Sposi, o la Commedia, in quanto oggetti della domanda, non possono istituirsi come oggetti del desiderio, non perché non abbiano in sé questa possibilità – tant’è che molti di noi hanno studiato Manzoni o Dante a scuole terminate, quando la domanda non era più ingombrante. 
Distinguerei, se dobbiamo usare questa terminologia, il termine “dovere”, una imposizione della domanda, fosse anche il dover avere un desiderio, da quello che Lacan, nelle prime lezioni del Seminario VII, chiama il “vero dovere”, che è il desiderio. Il desiderio come vero dovere è ciò che contrasta ogni tipo di domanda. Paradossalmente, allora, è possibile che ci sia più desiderio nell’apatia o nel rigetto del sapere che troviamo in certi adolescenti, che non nel conformismo di adeguarsi alle aspettative. Il desiderio, del resto, implica sempre un’invenzione. È possibile fare delle invenzioni un obbligo? È chiaro che non è possibile, questo è il paradosso più profondo della scuola: da un lato dovrebbe accendere il desiderio ma, nella misura in cui la sua esperienza è disciplinata da un dispositivo, l’accensione del desiderio sembra contraddire la struttura del dispositivo. Dobbiamo vivere questa contraddizione: il dispositivo, che è una macchina tritacarne, non esclude la possibilità dell’incontro con qualcosa, che avviene a causa dell’obbligo e che trascende l’obbligo.

Stefi: in relazione a quanto dici, e al rapporto tra fatica e desiderio, mi domando se non si potrebbe dire che non solo il desiderio si accenda nonostante il dispositivo, ma che, in qualche modo, la strettoia del dovere, e dunque del dispositivo, sia necessaria. Avevo un insegnante alle medie che mi ha costretta a studiare una quantità infinita di poesie di Leopardi a memoria – Ginestra compresa. Allora mi sembrava una tortura: così tante, lunghe e con una tale costanza. Tuttavia, sono convinta che il mio amore per la poesia venga anche da lì.

Recalcati: possiamo sostituire il termine fatica, che pure è un termine preciso, che mette in luce una delle cifre più significative della psicopatologia dell’adolescente oggi – la fatica evidente a desiderare –, con il termine ripetizione. La ripetizione è una componente essenziale della didattica. Coinvolge l’insegnante, che è tenuto a ripetere un programma, un autore, a ripercorrere testi che già conosce, e l’allievo, sottomesso alla legge della ripetizione. L’adolescente tende a rigettare la ripetizione, domanda il nuovo. Il nostro compito è mostrare che la ripetizione non è nemica dell’invenzione, ma che è anzi lo sfondo che la rende possibile, che non è un’emancipazione dalla ripetizione ma è una piccola torsione della ripetizione. La tua insegnante vi ha iscritti in una ripetizione, quello che Pennac chiama “il grande fiume della lingua”, per cui lui sostiene l’importanza di studiare le poesie a memoria perché sarebbe un’immersione nel, con Lacan, “bagno del linguaggio”. Lì c’è un’immersione necessaria ma non c’è ancora soggetto. Soggetto c’è quando qualcosa viene fuori da questa immersione, nei modi più imprevedibili. L’emergere dalla ripetizione è l’effetto soggetto di ogni didattica, e non può prescindere dalla ripetizione. È il doppio volto della ripetizione che da un lato consuma – gli allievi, gli insegnanti – ma dall’altro genera la differenza, non è ostile alla differenza. 
È come in un percorso analitico: c’è un aspetto burocratico, ripetitivo, e, a un certo punto c’è un effetto soggetto. È qualcosa che definisce in generale l’esperienza della formazione: la formazione è ripetizione e invenzione. L’invenzione avviene solo su quello sfondo, altrimenti c’è sconnessione, esaltazione, c’è quello che i romantici chiamavano “il colpo di pistola del sentimento” che però non dà forma alla vita.

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Illustrazione di © Giselle Dekel.

Stefi: non ricordo se nel ripetere e memorizzare Leopardi avevo qualcosa dell’ordine della speranza, fiducia che da quella pratica odiata qualcosa sarebbe emerso. Se – potrei dire così – “ci credevo”. Più semplicemente, probabilmente, non la mettevo in questione. Quello che riscontro oggi è una maggior ferocia, o un maggior disincanto, rispetto al dispositivo. Potrei dirla così: il loro “il latino non serve a niente” mi pare più radicale del nostro. Chiedono una traduzione più immediata di quello che proponiamo loro, non a caso trovo più ascolto se parlo, in classe, il linguaggio della psicoanalisi piuttosto che quello della filosofia.

Recalcati: la questione è il rapporto tra il dispositivo e quello che potremmo chiamare “l’effetto maestro”, ovvero l’innamoramento, nel senso ampio che assume in Platone l’erotizzazione del sapere. Non è solo suggestione: l’innamoramento genera transfert, movimento nel soggetto che acquista la forza dell’amante. Il maestro come un magnete che raduna attorno a sé amanti: la dimensione erotica è il nerbo della didattica, ed è chiaramente in contrasto con il dispositivo. Non sarebbe però pensabile senza il dispositivo. Questa topologia è difficile da comprendere per un adolescente: l’effetto di innamoramento non è possibile in strada con questi stessi effetti, è possibile solo dentro un dispositivo che fa in modo che tali effetti non cadano nella suggestione settaria, che il maestro non diventi un guru. Anche perché questa forza deve essere canalizzata verso il sapere. Tu dici: è lì che c’è l’ostacolo. Il sapere psicoanalitico di cui dici potremmo tradurlo come un sapere che chiaramente tocca la vita: questo consente di mantenere la forza aggregativa del magnete. Quando, invece, introduci il sapere come tale, la loro supposizione nichilistica è che il sapere sia contro la vita, non sia utile alla vita. La scommessa vera è mostrare che non solo il sapere psicoanalitico ma il sapere in quanto tale li riguarda. Un sapere che ciascuno seleziona, poiché ci sono dei saperi che ci interessano, altri meno. Questo fa parte della singolarità dell’inclinazione. L’enciclopedismo è una idiozia mentale, annulla la singolarità del desiderio. Ogni allievo avrà un sapere interessante per lui, che tocca le corde più vive. La grande scommessa, a scuola, è smentire che il sapere dell’altro sia un sapere morto. Come si smentisce? Testimoniando che è vivo, trasmettendo un sapere vivo. Questo è l’impegno della didattica che si rinnova nel tran-tran della ripetizione. È chiaro che è più facile parlare d’amore, di sesso, di ambivalenze affettive e di rapporti: gli oggetti della psicoanalisi sono chiaramente più affascinanti. Non tutti devono diventare psicoanalisti. L’attivazione deve servire a spostare il transfert sul sapere.

Stefi: e rispetto al tema della fiducia?

Recalcati: la differenza che vedo è che il nostro nichilismo – penso alla mia generazione – aveva come obiettivo il dispositivo: l’idea era che l’istituzione opprimesse il desiderio. Si trattava, per noi, di abbattere il dispositivo per rivendicare una libertà di apprendimento, senza comprendere che la libertà di apprendimento dipende dall’esistenza dell’istituzione. Il “basta con i padri” e “basta con i maestri” aveva come spinta decapitare l’anima foucaultiana, che è essenziale alla scuola (le gerarchie, i doveri, le imposizioni). L’ideologismo della mia generazione abbatteva ruoli e funzioni e la critica al dispositivo implicava la fiducia nella libertà. Oggi secondo me la sfiducia è più diffusa, la critica al dispositivo non è dettata dall’esigenza di sprigionare la potenza del desiderio ma è il “non serve a niente”. Un nichilismo che non immagina un futuro: il tempo non ha una profondità. La sfiducia sorge dalla disperazione e dal cinismo, ma è così vero che non credono più a niente? Sono solo disperati e cinici? I giovani di un tempo avevano un orizzonte valoriale ampio e l’idea che era possibile, anzi era nostro compito, trasformare il mondo. Questa dimensione è totalmente persa e penso che gran parte delle difficoltà di oggi dipendano dalla caduta di questo orizzonte. La soluzione, tuttavia, non è nella sua restaurazione: il superamento di questo nichilismo non è la restaurazione della passione ideologica, così come la soluzione del problema della famiglia oggi, delle difficoltà del discorso educativo, non sono nel recupero nostalgico della famiglia patriarcale. Il compito è più sottile, difficile e complesso. Continuo a pensare che la sola cosa che possiamo fare sia accendere il desiderio di questi ragazzi: chiunque è impegnato sul piano educativo deve avere questo come compito.

Stefi: dunque l’orizzonte non può più essere collettivo?

Recalcati: il desiderio non è mai solo individuale. Questo è un punto molto importante, su questo ci sono delle obiezioni che Deleuze ha fatto alla psicoanalisi molto precise. Dobbiamo pensare che il desiderio, nella misura in cui è messo in moto, implica una singolarità che non è solo individuale, perché tale singolarità genera concatenamenti, effetti collettivi, legami, nessi nuovi. Questa è già la dimensione collettiva del desiderio. Però, nella pratica educativa, nella didattica, quello che conta è sempre l’uno per uno, non il collettivo. Quello che conta è l’incontro, che è sempre un incontro che si istituisce sulla singolarità. Credo davvero che la salvezza dei nostri figli sia nella grazia dell’incontro.

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Illustrazione di © Giselle Dekel.

Stefi: questa cosa accade, e tuttavia, rispetto a un po’ di tempo fa, sento forte il bisogno che hanno di rispondere all’angoscia che provano davanti alle scelte (e in ogni scelta sembra giocarsi la partita della loro vita) riducendo la distanza dall’adulto e delegando: scegli per me, dimmi cosa devo fare.

Recalcati: la delega all’altro è l’effetto di un’ostruzione del passaggio dalla domanda al desiderio, è l’infantilizzazione che il discorso sociale, e non solo familiare, oggi induce. Prima dicevamo: nell’adolescenza il desiderio si contrappone alla domanda. Oggi una delle perversioni di questo snodo evolutivo è che l’adolescente resta fissato alla dialettica della domanda, sia quando la nega, sia quando la invoca: chiedere all’altro cosa fare. La centralità della domanda riguarda anche il tema della prestazione, che è sempre conformistica, è sempre risposta alla domanda. Il desiderio non ha a che fare con la prestazione ma con l’azione. La prestazione è sempre in rapporto all’Altro. Siamo in un tempo di monadi ma, al tempo stesso, di monadi tutte attaccate, tutte connesse. Basta pensare ai social. Chiedere all’Altro è segno di un’infantilizzazione, non c’è effetto soggetto. Escono dalla famiglia più facilmente di un tempo, ma la separazione non è questo: separarsi è separarsi dalla domanda dell’Altro, introdurre un oggetto proprio che non è commestibile da questa domanda, è irriducibile. Il proprio desiderio è l’oggetto separatore.

Stefi: rispetto a questo, per favorire questo che dici, mi pare necessario, come adulti, un movimento di sottrazione. Mi pare che non ci debba essere solo il loro “segreto”, come scrivi tu nel libro dedicato a questo, ma anche il nostro. L’impressione che ho è che sia necessario smettere il lavoro di eccessiva traduzione che mettiamo in atto, rendersi in qualche modo indisponibili, lasciando che incontrino, in noi, anche la dimensione del muro. Il muro non dell’autorità ma, appunto, dell’enigma. La fatica che si rende necessaria, per noi educatori, insegnanti, genitori, è sopportare di non essere amati.

Recalcati: la patologia del voler essere amati è una delle distorsioni più perverse dell’educatore ipermoderno. Un buon formatore, un insegnante, un educatore, e per certi versi anche un analista, deve amare – come diceva Massa parlando della didattica – chi impara. Non amare di essere amato. La soddisfazione è amare chi impara, generare un desiderio nuovo. Questa è una soddisfazione molto superiore a quella dell’essere amati: vedere che una vita si mette in movimento. Per fare questo bisogna custodire l’asimmetria. C’è un modo semplice di negare la simmetria ed è la simmetrizzazione: farsi amici, dissolvere ogni segreto, l’eccesso di intimità. Poi c’è una asimmetria formale, retorica, che è la differenza dei ruoli: c’è l’insegnante, ci sono gli allievi. È una asimmetria che non tocca. L’asimmetria di cui parlo è l’asimmetria dell’incontro: incontrano qualcosa che non comprendono fino in fondo e da cui sono toccati. Incontro con una parola, uno stile, un libro, un atteggiamento. È una salvezza immotivata, per questo dico che è dell’ordine della grazia. Avviene per caso e li mette di fronte alla responsabilità di rispondere a questo incontro. Non sono loro a generare un incontro ma, in quanto toccati dalla grazia, hanno la responsabilità di farsene qualcosa oppure no. Questo è un concetto di formazione che altera molto l’idea standard della formazione dominante nel nostro tempo. La concezione diffusa ha come paradigma l’immagine della scala: un percorso lineare dal gradino più basso a quello più alto. Formazione come progressione di tipo teleologico. La mia idea è più fondata sul trauma, su una discontinuità, su qualcosa che accade e non era previsto, sul fuoco che si accende. Credo molto in questo, nonostante i paradigmi siano cambiati. Credo che la formazione avvenga così e, se confidiamo in questo, dobbiamo sapere che implica il tempo morto, lo smarrimento, l’improduttività, lo scoramento, la disperazione. Il primo modello suppone che il nostro funzionamento somigli a quello delle macchine, che nel tempo diventiamo sempre più raffinati, completi, ordinati; l’altro suppone lo strappo, il cambiamento di pelle, l’incontro con qualcosa che ci disturba e ci affascina.

Stefi: credo che la fatica di questo modello sia la capacità di sopportare lo smarrimento di cui dici.

Recalcati: questo dipende dal dispositivo. Se il dispositivo adotta in modo acritico il primo modello la valutazione sarà: è adeguato al primo gradino? È adeguato al secondo? E falcidierà chi non risponde a tali livelli. Il secondo criterio cambia tutto: non è che non implichi la responsabilità, o la fatica, ma cambia la valutazione perché in primo piano non c’è l’uniformazione ma la singolarizzazione. Avere fede in questo è un grande salto.

Stefi: rispetto a questo tema del pasticcio simmetrico ti domando qualcosa che riguarda la violenza, l’elemento distruttivo. Lo potrei collegare all’occupazione – l’anno scorso il liceo dove insegno è stato teatro di un’occupazione che ha prodotto danni ingenti –, ma la cronaca ci fornisce altri esempi e diversi sono gli episodi cui assistiamo nelle classi. Lo intreccio al tema della simmetria perché interrogo la nostra risposta: mi pare che la tendenza prevalente sia restare su un piano simmetrico (essere delusi: “con tutto quello che facciamo per voi”).

Recalcati: il rischio che vedo è che la violenza sia sempre più dissociata dal conflitto. Una volta il conflitto canalizzava la violenza e dunque era uno scontro tra ideologie: la violenza trovava un alfabeto nel conflitto. Adesso la mia impressione è che ci sia una dimensione più erratica della violenza perché non è ordinata dalla caratterizzazione politica del conflitto: è pre-politica, pre-ideologica. La violenza allora può esser decifrata, e quindi letta, non dai ragazzi, ma dagli adulti. Il compito sarebbe quello di riportare la violenza sul piano di un conflitto o, se non di un conflitto, di una domanda, di un’esigenza. È necessaria una lettura, che non può essere da parte di chi compie violenza, ma da chi la osserva. Nel caso dell’occupazione: è chiaro che la devastazione di un istituto è un messaggio indirizzato all’Altro del dispositivo. Davanti a questo si può dire: “siete dei maleducati” o ci si può impegnare a interpretare il messaggio. Oggi, negli adolescenti, non c’è la maturità di vedere nella distruzione un messaggio: questa è una differenza profonda con la mia generazione, dove la violenza era sempre dentro un binario politico. Oggi la violenza apre il grande capitolo di chi la interpreta, dunque quale significazione dare: forma disperata di appello? Inquietudine che non trova parole? Contrapposizione generazionale? Darne una lettura significa riportarla dentro un alfabeto. La distruzione ora è selvaggia, fine a sé stessa.

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Illustrazione di © Giselle Dekel.

Stefi: torno sul tema della separazione per un’ultima domanda a partire da un aneddoto. Leggevo un brano dalla Repubblica di Platone sul tema della giustizia e, domandando cosa fosse la giustizia, i passaggi, rapidi, sono stati: la giustizia è il bene, il bene è essere fedeli. Questa fedeltà mi ha colpito, era già emersa in discussioni, in altre classi, relative al desiderio di “avere un amore come quello dei nonni”. Certezza di non essere traditi, amore vero. La dimensione del legame simbiotico, del “migliore amico” e della “migliore amica”, è sempre appartenuta all’adolescenza, eppure ho sentito nelle loro parole, forte, la nostalgia verso un tempo in cui i legami erano possibili: i nonni!

Recalcati: dietro questo – non vorrei psicoanalizzare troppo – c’è la nostalgia per il legame primario. È un grande tema dell’adolescente: fare il lutto dei legami primari che sono i legami di assoluta fedeltà, la fedeltà del sangue. Quello con i nonni, più ancora di quello con i genitori, consente l’idealizzazione: non vivendoci insieme si immagina che siano diversi dai genitori e si proietta lì un ideale familiare. Il tema è: possiamo costruire dei legami affidabili che durano nel tempo come abbiamo immaginato potessero essere i legami con i nostri genitori? Pensiamo agli amori che iniziano sui banchi del liceo e arrivano sino al matrimonio: la psicoanalisi ci dice che quei legami duplicano il legame primario, legame di cui non è stato fatto il lutto. I rapporti di coppia che sembrano inscalfibili sono la riproduzione del primo legame. Gli adolescenti hanno dunque questa domanda: come avere un legame così? E, davanti a loro, le sabbie mobili: una libertà molto vuota, insicurezza, un tempo che dice loro che non c’è più niente di vero. La verità non esiste, nemmeno l’amore.

Stefi: in relazione a questo mi accorgo di una trasformazione: questo “non c’è più niente di vero” lo sento in modo forte, e così cammino su un filo nel tentativo di costruire una fiducia senza edificare verità e norme prescrittive. Vorrei sganciarli dall’idea del tradimento come male assoluto e, al tempo stesso, il compito di decostruzione e di critica, proprio della filosofia, diventa più complicato in uno scenario come quello attuale.

Recalcati: lo sfondo è: le verità assolute non sono accessibili. Questo non è relativismo, è la dimensione laica della cultura. Tutti noi ci muoviamo in un campo aperto ed esposto al rischio, all’equivoco, al fraintendimento. In questo campo plurale c’è qualcosa che tiene? Penso che la vera fedeltà, prima di tutto, sia rispetto alla nostra vocazione. L’illusione è che ci sia qualcosa di assoluto come l’amore tra i nonni, che è una rappresentazione idealizzata del legame primario. La vera fedeltà che dà senso alla nostra esistenza è la fedeltà a quello che facciamo, a quello che desideriamo. Questo devono riuscire a toccare, di questo bisogna dare testimonianza. Che poi la fedeltà dell’amore esiga la costanza, è un altro discorso. Non è un’illusione, c’è qualcosa che dura nel tempo, ma può durare nel tempo se la fedeltà si istituisce sulla fedeltà al proprio desiderio. Molto spesso la fedeltà è un tradimento del desiderio: per calcolo, conformismo, utilità. Non penso solo ai legami d’amore, penso anche ai progetti, alle professioni. Questo dovrebbero vedere. 
Per tornare a dove siamo partiti: l’idealizzazione dei nonni è della stessa natura del non separarsi dalla domanda. C’è un fantasma infantile: dipendere dalla domanda dell’Altro anche quando si contesta. Il desiderio, invece, svita il nesso tra il soggetto e la domanda al punto tale che posso ritrovarmi a desiderare quello che tu avresti desiderato che io diventassi, ma con libertà, per altra via. Questo è un passaggio molto complesso, implica il riconoscimento della provenienza, della dimensione tortuosa dell’eredità.

In copertina, illustrazione di © Giselle Dekel.

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