Tenerezza. Una conversazione con Eugenio Borgna
Ho ascoltato la voce di Eugenio Borgna: il tono, le parole scelte, i silenzi e l’onda del suo dire. Anche i colpi di tosse. Ho dovuto, davanti ai miei fogli di appunti e al timore di affaticarlo, trovare un compromesso tra il mio “ancora” e la sua generosità.
L’occasione di questo dialogo è l’uscita di due libri, uno dedicato alla tenerezza, l’altro rivolto all’amicizia. L’amicizia come luogo in cui la tenerezza abita.
Ma c’è anche un’altra occasione: che uso facciamo delle parole? Siamo costantemente sottoposti a un dire offensivo, mistificatorio, feroce. Vale ogni cosa, tutto può essere detto e ritrattato. La meritocrazia a celare il classismo, la fascinazione per un’ironia dozzinale, il cinismo come intramontabile moda e nessuna intelligenza del cuore. Cosa può dunque insegnarci Eugenio Borgna, cosa possiamo provare a reimparare a partire dallo sguardo di un uomo che ha trascorso la propria vita ad ascoltare la sofferenza psichica? Perché questa porta può aiutarci a illuminare la nostra interiorità mostrandoci l’urgenza non solo di una parola che cura - che potrebbe non riguardarci - ma anche di una cura della parola?
Ho letto i suoi ultimi due libri e mi pare che le pagine dell’uno risuonino nelle pagine dell’altro e che entrambi non siano che un ulteriore tassello di quel mosaico di emozioni, legami, vita interiore, che ci restituisce in forma scritta nei suoi libri, per le quali trova le parole – facendo ricorso spesso ai versi dei poeti. Percorre i territori del sentire umano, e lo fa con lo sguardo di una vita che, a partire dalla nomina a direttore del manicomio femminile di Novara, ha incontrato dei volti, delle storie, una sofferenza a volte dicibile e altre volte senza voce. La psichiatria, insomma, come porta d’accesso all’interiorità. Ritorna del resto, in questi e altri suoi testi, l’invito a sentire la follia nella sua vicinanza, sentirla come una possibilità umana, “infelice sorella della poesia”.
Sì, la mia vita si è svolta scandita essenzialmente da quella che è stata la vita di persone che hanno sofferto, sofferto in modi diversi, ma essenzialmente di quella sofferenza che chiamiamo sofferenza psichica. Le parole in psichiatria, e non solo in psichiatria, hanno grande importanza, sono davvero creature viventi: se parlo di “follia” mi confronto con un’esperienza dolorosa che posso accogliere, se parlo invece di “pazzia” istantaneamente le cose cambiano, la mia accoglienza di chi sta male viene limitata enormemente. Le parole in psichiatria hanno questa importanza decisiva, che è anche quella che ci accompagna nella vita, ma non sempre siamo consapevoli del fatto che scegliere questa o quella parola significa allargare gli spazi della speranza oppure chiuderli.
Umberto Veronesi ha scritto qualcosa che vale non solo per l’oncologia, ma anche per la psichiatria: alcune parole dovrebbero scomparire dal nostro linguaggio. Lo diceva in riferimento alla parola “cancro”. Le parole con cui noi esterniamo i nostri sentimenti, e le parole che ci vengono dette, hanno una importanza enorme. Questa tesi che la follia può anche essere la sorella infelice della poesia certo non può essere espressa dimenticando l’angoscia, il dolore, la disperazione che la follia racchiude, ma possiamo cogliere nella follia quello che è anche in noi, possiamo sentire in quale area della nostra vita la follia nasce e poi muore; ed ecco che, così, noi facciamo una psichiatria umana, una psichiatria gentile che cerca di lanciare ponti tra la nostra vita quotidiana e la vita ferita dal dolore.
L’attenzione alle parole di cui dice mi pare che ci introduca nel cuore delle sue riflessioni sulla tenerezza, lei parla infatti di parole viventi e di corpo vivente e mi sembra che il campo semantico che lei prova a tracciare, parlando di tenerezza, e distinguendola dalla gentilezza, abbia a che fare proprio con questo “vivente”. In fondo, scrive, la gentilezza sta dal lato della sapienza, la tenerezza dal lato della saggezza e, con buona pace di Aristotele che riteneva più alta la pura teoresi, mi pare che possiamo tenere salda la saggezza che ci implica come corpi, al di là del sapere.
La psichiatria di cui ho detto, che ho definito gentile, umana, la potrei definire anche una psichiatria leopardiana. Leopardi ha dato una enorme importanza ai sentimenti, alle emozioni, alle speranze e alle attese; così se leggiamo le sue poesie, e lo Zibaldone soprattutto, impariamo tanto della nostra vita interiore illuminata dalle speranze e dalle attese, ma anche della vita interiore ferita. Se dovessi consigliare un libro che possa accompagnare l’esperienza quotidiana di una psichiatra, o uno psichiatra, direi: leggete Leopardi. Leopardi ci dice come sono le emozioni che danno senso alla vita, ci dice che “una vita dominata dalla ragione è pura pazzia”. Sono, queste, parole di Leopardi. In Leopardi il linguaggio delle emozioni, delle parole riempite di interiorità e non bruciate sugli altari dell’esteriorità e delle mode, ci avvicina a quelle tematiche che io ho imparato leggendo Leopardi, sì, ma anche vivendo moltissimi anni in un manicomio come quello di Novara, che dirigevo.
Un manicomio femminile, che mi ha consentito di cogliere la fragilità e anche la ricchezza umana, qualcosa che nella psichiatria maschile si perdeva, e continua a perdersi, più facilmente. Le emozioni, la tenerezza, la gentilezza: sorelle ma molto diverse tra di loro. La gentilezza conserva qualcosa di astratto, formale, anche con un cuore di pietra possiamo esprimere gentilezza. La gentilezza corre il pericolo di essere legata ad atteggiamenti, parole ancora troppo intessute di esteriorità e apparenza. Della tenerezza questo non fa parte, la tenerezza si vive fino in fondo. La tenerezza è una ricerca di senso delle parole che diciamo e degli atteggiamenti che assumiamo, la tenerezza parla con il linguaggio del corpo, che, nella gentilezza, è in qualche modo alla periferia. La tenerezza implica l’anima, essere attraversati, essere toccati nella nostra vita quando ascoltiamo una persona e cerchiamo di coglierne i dolori e le sofferenze.
Il corpo: la carezza e la lacrima, scrive. La lacrima, in fondo, che offusca il nostro vedere.
La tenerezza sa dare un’anima ai gesti. La carezza: ne ha scritto cose Georg Trakl, poeta austriaco che amo molto. La carezza aggiunge qualcosa alla vita, al dialogo con le persone che incontriamo. La carezza rompe le solitudini in cui viviamo, in cui siamo imprigionati. Le lacrime, e il sorriso, sono due modelli di vita apparentemente lontani l’uno dall’altro, ma in realtà entrambi raccontano l’interiorità, la partecipazione vivente che ci consente di entrare in relazione con l’interiorità dell’altro. Fermare le cose che ci diciamo, anche ora. Non dobbiamo dimenticare che ogni colloquio, ogni dialogo, ogni ascolto, sopravvivono all’oblio solo se, quando incontriamo un’altra persona – come io ora incontro lei –, sappiamo dare voce a una visione del mondo che parta dall’interiorità. Questo è il “costruire i ponti” di cui parla Maria Zambrano.
I ponti si creano quando sappiamo intuire le parole necessarie per entrare in contatto con quel “tu” che abbiamo davanti. Sono sempre le parole che danno vita all’interiorità: se le mie parole sono aride, o scolastiche, se sono quelle di una psichiatria fatta di silenzio, di incapacità di cogliere la fragilità delle persone, la vita e l’anima ferita e insieme la speranza che attraversa la sofferenza psichica, non sapranno mai costruire un dialogo.
Le parole in cui siamo immersi sono un mare immenso, come cogliere qualcosa? Tenere a mente che è l’anima delle parole che ci consente di capire gli altri, di essere d’aiuto agli altri. Posso conoscere tutti gli psicofarmaci di questo mondo – sono anche pochi –, ma se questi non sono immersi in una disperata ricerca di dialogo e di ascolto ritorneremo a quel modo di pensare la psichiatria antecedente alla grande rivoluzione che dobbiamo a Franco Basaglia.
Quando lei si è trovato a incontrare quel dolore, quando ha capito che il suo sistema di conoscenza, la furia di comprensione, non le sarebbero bastati, ha dovuto – così mi immagino – attraversare qualcosa che mi verrebbe da definire una resa: in fondo l’ascolto dell’interiorità che abbiamo davanti ci consegna a una pura contingenza, a un vuoto. Nessuna formula, nessuna ricetta. Ecco, mi verrebbe quasi da dire: non ha avuto paura? Di cosa si nutre la speranza? La fiducia nella parola, certo: ma a volte quel dolore è muto.
La disperata ricerca di dialogo non è una dote, è un movimento che non ha mai termine. Ogni volta che incontro una persona ricomincio un lavoro mai concluso. Ho imparato ad ascoltare, ad accogliere, sono io che mi sono liberato delle catene: ho imparato da loro, dalle pazienti, sono loro che mi hanno insegnato che quel dolore apre alla ricerca di parole che siano d’aiuto. Chi è fuori dalla follia fatica a trovare le parole, fatica a dare alle parole così fuggitive quel suono, quella risonanza, quella accoglienza, quella che il loro dolore mi ha insegnato e che mi ha consentito di trovare, nella disperazione, una scintilla.
In quello che lei mi dice colgo quella che è stata un’intuizione nel cuore di questa psichiatria leopardiana, e cioè che di questa tenerezza umana legata alla sofferenza degli altri si dovrebbe parlare già nel momento in cui si insegna. Quanta tenerezza c’è in chi insegna? Certo, una capacità astratta di illustrare le conoscenze è essenziale, ma nel nostro sistema scolastico è trascurato il valore conoscitivo delle emozioni. In Austria per esempio si comincia a parlare di psichiatria, di sofferenza psichica, nelle scuole primarie. Il cammino della psichiatria, la ricerca di quel che mi unisce al dolore e alle speranze degli altri, è uno dei grandi temi che la psichiatria dovrebbe aprire: sapere trasmettere, saper contagiare le discipline umane che molto spesso procedono con la sicurezza di aerei che non cadono mai, senza tenere presente le aree di ascolto e di cura legate alle parole che scegliamo, al silenzio, alla capacità di guardare negli occhi una persona.
Ci sono sguardi che curano e sguardi che crescono il dolore, sguardi che attendono una risposta e sguardi che anticipano una risposta, ancora più pericolosi degli sguardi dell’indifferenza. Quanto tempo dedichiamo ad ascoltare parole e sguardi con cui le parole ci sono dette? Al di là dei percorsi razionali, accanto alle strade della filosofia, non possiamo non considerare che il nostro dire, anche quello ora tra noi, prende delle vie che sono determinate dal tono della voce e dall’interiorità che si manifesta. La tenerezza è questo: il mio sguardo, il mio corpo. In tedesco corpo è körper – corpo fisico – e leib – corpo vivo –, e questo corpo diverso, emozionale, tendiamo a non considerarlo. Non il mero corpo fisico, ma il corpo vivente che modifica il nostro dire.
Seguo sentieri che mi si aprono improvvisamente, forse incoerenti, ma mi illudo che siano attraversati da questa matrice. Non si tratta di conoscere le malattie – parola che non dovrebbe mai essere usata –, non serve a nulla se non sappiamo viverle, per un attimo, come se fossero nostre. La tenerezza fa questo. Ci sono modi diversi di ascoltare e la tenerezza fa vivere le parole, mai morire.
Mi viene in mente quella citazione che riporta, quel “passaggio dal cuore” che dovrebbe essere di ogni parola che mettiamo nel mondo, e questo “cuore” – parola inattuale, come scrive, come tenerezza del resto, parole che si dicono quasi con un qualche imbarazzo – mi pare che possa essere messo in dialogo con l’elemento “femminile” che ritorna in entrambi i suoi libri. Le amicizie femminili – intessute di apertura dell’anima –, la tenerezza come sentire umano per lo più femminile. Che cosa è questo femminile – che possiamo pensare non come qualcosa di esclusivo delle donne, fatico a non pensare a lei come attraversato da questo femminile –, questo femminile come modo dello sguardo, come implicarsi nel proprio dire?
Nella mia vita l’incontro con la fragilità è avvenuto in manicomi femminili. Quello di cui ho fatto esperienza è che la follia femminile è più creatrice. Ovviamente questo discorso – il suo e il mio – non vuole generalizzare, ma vuole cogliere aspetti della vita che sono importanti e che determinano l’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti degli altri. Se la mia vita non si fosse svolta in manicomi o reparti ospedalieri femminili credo che non avrei potuto scrivere quasi nulla dei miei libri. Abbiamo parlato fino ad ora di parole, e ci sono parole che parlano nel loro silenzio; essere e cercare di riconoscere cosa si nasconda negli sguardi e nei silenzi di una persona che sta male differenzia le persone che hanno attitudini innate, anche se non coltivate fino in fondo, di ascolto. Nel femminile è qualcosa di questa attitudine.
In questo manicomio che rivive nella mia memoria ho imparato, come dicevo prima, più di quel che ho potuto portare: ho imparato dal loro silenzio, ho incontrato fiumi di vita che la follia femminile ha. Mi sembra di poter constatare che le cose che ha detto siano il cammino segreto nascosto di quel che ho constatato negli incontri con le mie pazienti.
I suoi libri sono attraversati dalla parola della poesia, la speranza si annoda all’immaginazione. E anche rispetto all’amicizia dice che la condizione di possibilità è saper fare i conti con la propria solitudine, con la propria vita interiore. Però ecco sperare, immaginare, dipende anche dal proprio vissuto, come si educa, come si contagia, rispetto a questo? Quale è la via verso questa grazia?
La definizione più bella, più folgorante, più capace di sopravvivere alle sconfitte della vita, è quella di Leopardi, che ha definito la speranza come “la passione del possibile, e anche la passione dell’impossibile”. In qualche modo anche la tenerezza ha dentro di sé questo germe che è qualcosa che oltrepassa il semplice dato, coglie il linguaggio segreto. La speranza come passione vive sino in fondo dentro di noi solo quando è una compagna di strada della tenerezza, la speranza è qualcosa che ci porta al di fuori di quello che accade in questo momento, in questo nostro discorso, la speranza vive nel futuro.
Le cose che sto dicendo, le cose che sto ascoltando, guardano al di là di quella che è la fredda oggettiva razionale descrizione del maschile e femminile, della follia, e questo guardare al di là di quello che accade in questo momento è in fondo il segreto della speranza. Non bisogna dimenticarsi mai delle potenti parole di Leopardi, il possibile è quello che vediamo con i nostri sguardi, ma l’impossibile è lo sguardo che coglie il significato di silenzi, di parole che non ci siamo detti.
Leopardi continuo a citarlo, Leopardi ci dice che non si può vivere senza speranza, la rinuncia alla speranza è una prigionia del terrestre. Anche in psichiatria, guardare a quello che accade, alla memoria del passato – Norberto Bobbio ha scritto che sono i ricordi che ci consentono di vivere quando stiamo male – e all’apertura al futuro che ci apre le porte all’avvenire. Speranza e tenerezza si ricongiungono: non possiamo vivere se non siamo capaci di tenerezza; la grazia, allora, è provare a far germogliare in noi questa tenerezza che è anche una delle dimensioni innate della vita.
Germogliare in noi e contagiare.
Mi vengono in mente - prendendo congedo - i versi di una poesia di Rilke che ho probabilmente incontrato proprio leggendo i libri di Eugenio Borgna, nei quali sempre la sua voce si intreccia alla voce di poeti e potesse, scrittrici e scrittori.
Io temo tanto la parola degli uomini
Dicono sempre tutto così chiaro
questo si chiama cane e quello casa
e qui è l’inizio e là è la fine.
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e sarà;
non c’è montagna che li meravigli:
le loro terre e giardini confinano con Dio.
L'illustrazione di copertina è di Alex Colville.