Quale lingua per la scuola primaria?

A prima vista potrebbe stupire il fatto che nelle ultime settimane sia stata riservata tanta attenzione, su giornali, riviste, social, a un documento scritto, almeno apparentemente, solo per addetti ai lavori. Ci riferiamo alle Nuove Indicazioni nazionali 2025 Scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione, pubblicate sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito e lanciate sui media dallo stesso Ministro.

Proviamo a chiarire, anche se con un certo grado di semplificazione, cosa sono le “Indicazioni” nel nostro sistema scolastico. A partire dal riconoscimento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche (DPR 275/1999) e coerentemente con il dibattito pedagogico, nazionale e internazionale, sulla progettazione didattica secondo una logica curricolare, l’idea di “programma scolastico” è stata sostituita da quella di “Indicazioni” che si configurano, pertanto, come linee di indirizzo che devono orientare la definizione del curricolo di ciascuna istituzione scolastica, nel rispetto della loro autonomia e nella garanzia dell’unitarietà del sistema nazionale dell’istruzione come previsto dalla nostra Costituzione e da tutta la normativa al riguardo. Proprio in quanto linee di indirizzo devono mantenere caratteristiche che rifuggano dal prescrittivismo o dalla elencazione di contenuti/argomenti, dimensioni queste che, invece, compaiono in maniera implicita o esplicita, nel nuovo documento.

Da parte degli estensori e da parte del Ministro le Nuove Indicazioni vengono presentate come la chiusura di un lungo ciclo che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, ha voluto mettere in discussione alcuni elementi centrali della cosiddetta ‘Istituzione scuola’. La loro presentazione è stata accompagnata infatti da continui rinvii a modelli scolastici del passato presentati come il ritorno alla scuola seria contro il lassismo della scuola attuale attraverso il richiamo costante ad alcuni topos sempre pronti all’uso: le regole della grammatica, le poesie a memoria, il latino, la contrapposizione fra Oriente e Occidente, il ritorno a una ‘Storia’ con funzione esplicitamente identitaria.

Rinviamo ai molti interventi che richiamano l’impianto generale di queste Nuove indicazioni, al contributo apparso in questa rivista il 19 marzo a firma di Alessandro Vanoli, e anche ad altri apparsi su siti che stanno raccogliendo il largo dibattito di queste settimane (come esempio: GISCEL e Insegnareonline). In questo quadro generale si inseriscono le nostre osservazioni nelle quali ragioneremo solo su parti del testo delle Nuove Indicazioni, come quella relativa alla disciplina ‘Italiano’, uno degli assi portanti del primo ciclo dell’istruzione.

Ancora prima di una nostra lettura delle pagine relativa a questa singola area è utile però ricordare il contesto generale, relativamente al ruolo della lingua, in cui tali pagine si inseriscono. Da almeno un paio di decenni sono fortemente attivi canali di diffusione di una serie di macrostereotipi (in parte transnazionali) in base ai quali si saldano supposte “crisi della lingua” e “crisi della nazione”. Per quanto riguarda la prima crisi i suoi agenti vengono individuati in fattori esterni, come il ruolo dell’inglese, e interni, sostanzialmente consistenti in cattivi usi e cattivi utilizzatori. Questa visione ci restituisce una rappresentazione semplicistica, se non fuorviante, secondo cui la scarsa attenzione alle regole e alla prescrittività avrebbe prodotto nel sistema scolastico/educativo del nostro Paese «lassismo e permissività», violazione delle regole per sciatteria, semplificazione in luogo dell’approfondimento.

Persino la crescita dell’analfabetismo di ritorno risiederebbe nelle riforme degli anni Sessanta e in particolare in quella sempre supposta messa in crisi di una pedagogia linguistica tradizionale fondata su quei topos di cui prima si diceva ‘grammatica’, ‘poesie a memoria’, etc.  e dovuta a un testo che a cinquanta anni di distanza fa ancora evidentemente paura ovvero Le dieci tesi per una educazione linguistica democratica, composto da poche decine di pagine che si devono a Tullio De Mauro e a una associazione di insegnanti, il GISCEL (Gruppo Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica).

Forse è utile, per chi non c’era, richiamare anche solo per un attimo cosa significasse «fare scuola» in Italia negli anni Sessanta e Settanta e il ruolo «terrificante» (sono parole del grande pedagogista Bruno Ciari) della selezione di classe. La scuola «grande disadattata», sono sempre le sue parole, bocciava in prima elementare il 25 per cento dei bambini e negava, di fatto, l’articolo 3 della Costituzione italiana. Era, quello di Ciari e di tanti altri, uno sguardo rivolto anche ai bambini che in quegli anni arrivavano a Milano e Torino dal Sud dell’Italia e venivano inseriti nelle classi differenziali per il loro «ritardato sviluppo mentale dovuto in parte all’ambiente in cui viv[evano]: parl[avano] solo siciliano» (la citazione è tratta da una delle tante notazioni ricavabili dai registri di maestre e maestri). Le carte della scuola, i registri, i verbali dei consigli di classe, danno oggi maggiore consistenza quantitativa a queste storie di razzismo sistemico già raccontate nel 1973 in Parlare, Leggere, Scrivere, straordinari documentari di Tullio De Mauro, Umberto Eco e Piero Nelli.

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All’interno e all’esterno della scuola, mattone dopo mattone, si è costruito anche in Italia quel paradigma in cui molti ancora crediamo: alla capacità della scuola di dare «tutti gli usi della parola a tutti» è affidata la possibilità di rimuovere, almeno in parte, quei famosi ostacoli di cui parla la Costituzione. Questo stracitato slogan ha avuto negli anni una serie di aggiustamenti di tiro curvandosi verso nuove differenze, rappresentate oggi dalle migliaia di bambini e bambine che sono nati altrove e portano con sé altri patrimoni linguistici, o che sono nati in Italia in famiglie o contesti plurilingui, cosa che accomuna le nostre classi a quelle di tante altre parti del mondo. Guardando a questo universo complesso e molteplice accanto all’espressione ‘educazione linguistica’, troviamo oggi assai spesso altre espressioni quali ‘educazione plurilingue’, o ancora più spesso l’espressione ‘plurilingue e interculturale’. La cosa interessante è che questa terminologia e questo contesto di riferimento, non privo al suo interno di sfaccettature, accomuna oggi ricercatori, insegnanti, associazioni, e, cosa non indifferente, ha progressivamente pervaso anche i documenti ministeriali. A partire dai Nuovi programmi della scuola media del 1979, le carte ufficiali della scuola italiana, con più rilevanza quelle del primo ciclo dell’istruzione, hanno messo al centro della scuola la lingua, o meglio i diversi strumenti semiotici del bambino e dell’adolescente. Questo lungo ciclo, almeno per ciò che riguarda i documenti ufficiali, ha avuto, a nostro avviso, il punto più alto nelle Linee guida per un sistema integrato 0-6. In esso troviamo delle straordinarie riflessioni che ci indicano anche come stare in guardia da pervasive retoriche quali quelle sulla bellezza della diversità e del multilinguismo che restano tali e non altro, se non si aggiunge immediatamente anche la difficoltà di cambiare i nostri punti di vista. Merita qui ricordare quanto viene detto proprio in questo documento e che può essere riferito a tutti i gradi del sistema di istruzione. «La complessità culturale e il plurilinguismo sono una ‘ricchezza difficile’ che richiede nuove competenze e muove forme di incontro e di scambio tra figure professionali e genitori, tra genitori, tra bambini, sollecita la conoscenza del mondo, apre orizzonti, pone nuove sfide alla vita democratica e assicura la capacità di adattarsi ai cambiamenti. Avere attenzione per la lingua parlata nel contesto familiare costituisce la base per l’apprendimento della lingua italiana. Su questo aspetto è importante raccordarsi con le famiglie valorizzando le lingue di comunicazione condivisibili. Attirare l’attenzione sulle lingue, creare contesti nei quali si possono usare più lingue consente di riconoscere il patrimonio culturale di ogni bambino, di sviluppare abilità comunicative diversificate, di sollecitare curiosità ed esplorazioni di lingue diverse. L’esposizione a una pluralità di lingue negli anni durante i quali si costruisce il linguaggio apre alla comparazione e al transfer cognitivo, attiva i processi metalinguistici che sono strumento importante per il consolidamento strutturale della lingua materna ed un’opportunità per mettere le basi di un atteggiamento linguistico positivo e aperto agli apprendimenti futuri, nonché l’acquisizione della lingua o delle lingue utilizzate nel Paese in cui si vive» (pag.12).

La domanda, ora, è: che ne è stato di tutto questo nelle Nuove Indicazioni? Tale scenario è totalmente scomparso nella parte che precede le discipline e, nella sezione ‘Italiano’, ricompare qua e là solo in alcune frasi che rinviano, quasi letteralmente, alle Indicazioni del 2012, ma sostanzialmente, viene a frantumarsi in assenza di una chiara visione. La scelta di prevedere fin dal primo anno della scuola elementare due diverse aree l’una chiamata ‘Lingua’ e l’altra ‘Letteratura’ contribuisce in maniera determinante a questo complessivo fallimento di fronte a vecchi e nuovi bisogni e a vecchie e nuove sfide educative. Essa è il primo passo verso una ridefinizione dei rispettivi ruoli e spazi che già nel testo delle Nuove Indicazioni appaiono ridisegnati con imbarazzanti continui richiami alla supremazia del testo letterario su altri testi e altri saperi: «Acquisire familiarità con la letteratura è un aspetto cruciale nella formazione di ogni individuo che voglia definirsi civile: leggere testi che contengono idee intelligenti aiuta chi li legge a diventare intelligente a sua volta, intendendo la parola intelligenza nel senso più ampio del termine: come capacità di comprendere sé stessi e gli altri, di rispettarli, di vivere con gli occhi aperti, di interpretare la realtà in modo creativo, e di sviluppare la creatività necessaria a cambiarla. Vale a dire che la letteratura – e solo la letteratura – è sia un modo per conoscersi, trovando nei pensieri, nelle emozioni e nei desideri che gli scrittori del passato hanno saputo tradurre in parole la traccia di un’umanità comune (e quindi anche per non sentirsi soli nel proprio percorso di crescita), sia un modo per imparare a stare nel mondo con consapevolezza, cioè per stabilire relazioni significative, di collaborazione, rispetto, fraternità, con coloro che ci circondano» (pag. 37).

Tutto questo si esplicita in alcuni punti dove l’operazione di travaso di competenze a tutto vantaggio della ‘Letteratura’ (e significativamente di alcuni testi letterari elencati a più riprese forse come precise indicazioni per le case editrici) appare già portata alle estreme conseguenze con il testo letterario che ritorna a essere ‘il’ testo che dovrebbe guidare lo sviluppo delle abilità linguistiche, ora ridefinite in una delle sezioni della ‘Letteratura’ (pag. 37) come “leggere”, “raccontare”, “dialogare”, “interpretare”, “comprendere” e “scrivere”. Il lavoro sui testi a partire dalla complessità e diversità delle esperienze, come recitava il famoso slogan da cui siamo partiti – quindi dalle istruzioni per fare funzionare la macchina del caffè alla poesia, dal testo di un problema di matematica a un report sulle presenze dei giocatori nel campionato di calcio, solo come esempi – progressivamente appare perdere centralità, insieme al lavoro fondamentale sullo sviluppo dell’oralità, nelle più diverse dimensioni, non solo quella espositiva tipica dell’interrogazione.

In questo quadro disegnato dal documento ministeriale al lavoro sulla ‘Lingua’ è rimasto poco: lo studio della grammatica con particolare riferimento all’analisi grammaticale, all’analisi logica, all’ortografia, alla punteggiatura. Non certo la sfida di accompagnarci tutte e tutti verso l’esercizio di una piena cittadinanza, per tutto l’arco della vita, né tantomeno quello di contribuire, almeno in minima parte, a mettere i nostri figli e nipoti nelle condizioni di sapere rispondere alle nuove sfide alla vita democratica che questi tempi bui sembrano preparare.

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