Insegnanti: giocolieri funamboli

15 Gennaio 2025

Benché molti dei princìpi fondamentali della Costituzione italiana risultino tuttora inattuati, altrettanto non si può dire per quello che riguarda l’obbligo scolastico. Chi non ha mai avuto a che fare con la scuola? Pochissimi, senza dubbio: otto anni obbligatori fino al 2006, e dieci da allora in poi. Un lungo periodo della vita che lascia tracce indelebili e che ognuno potrebbe declinare in storie personali: disavventure, amicizie, odi e amori, fatiche, umiliazioni e speranze. Non a caso il tema compare in molte opere di narrativa, o cinematografiche. Ognuno porta in cuor suo una peculiare densità emotiva dell’esperienza scolastica, che espressa in forma di racconto alimenterebbe milioni e milioni di capitoli di “un romanzo senza principio e senza fine”, scrive Marco Vacchetti in Disegnare un elefante (Einaudi, 2024), un saggio di fenomenologia scolastica in cui il lettore è messo anzitutto in guardia dal rischio di semplificare le cose: la scuola è una di quelle entità complesse in cui “l’insieme è superiore alla semplice somma delle parti”.

Lo sottolinea già l’esordio, che richiama l’antico apologo di origine orientale sui ciechi posti a contatto con un pachiderma. Non potendo disporre della vista, ognuno di loro tasta una singola parte del corpo. Chi tocca una zampa conclude che l’elefante è una grande colonna rugosa. Chi palpa la proboscide parla di un lungo serpente. Il terzo, avendo sfiorato un orecchio, sostiene che la bestia è paragonabile a un gran ventaglio sempre in movimento. La certezza sensibile sarà pure lo stadio iniziale nel lungo viaggio in cui si avventura la coscienza, ma è anche il più povero.

Dunque il primo punto riguarda la complessità, e chi insegna, avendo il compito di addestrare a riconoscere le inferenze fallaci dovute a indebite generalizzazioni, non lo dovrebbe mai dimenticare, vista la facilità con cui il falso è spacciato per vero, e visto lo strascico di idee stupide che ne deriva. Anche parlando di scuola è preferibile la cautela, perciò l’autore ne circoscrive una porzione limitata, come chiarisce il sottotitolo: L’insegnante di liceo come professione.

Nel libro è svolta una lunga analisi al termine della quale Vacchetti arriva a concludere che “la scuola italiana è, e rimane, un caso aperto”. Tuttavia viene raggiunto un punto fermo: pur essendoci difetti, scompensi, rigidità e acciacchi, “l’apparato tiene e svolge la funzione che gli compete”, ossia la scuola continua a garantire l’istruzione pubblica. Affermazione azzardata se estesa a ogni ordine e grado, ma limitata alla realtà liceale appare sostenibile.

k

In effetti, di fronte all’impietoso giudizio tante volte ripreso sul livello delle competenze garantite dalla scuola italiana, bisognerebbe ricordare che esistono diversi percorsi del sistema formativo. E andrebbe chiarito in quali di essi sono raggiunti livelli così bassi nel confronto con gli altri paesi europei. Quali scuole stanno a monte degli scarsi risultati nelle prove di matematica? O in quelle di comprensione del testo? Che scuole hanno frequentato gli italiani affetti da analfabetismo funzionale? Se fossero veramente così modeste le conoscenze garantite dal sistema scolastico, come mai tanti studenti italiani che vanno all’estero “conseguono ottimi risultati”?

Il libro si sofferma anche su temi piuttosto spinosi, tra cui quello che riguarda la motivazione, non solo degli studenti ma anche degli insegnanti. Perché dopo aver intrapreso un lungo cammino di studi universitari, un laureato giunge all’insegnamento? Il caso? La speranza in un lavoro che offra una buona dose di tempo libero per coltivare i propri interessi? Il contatto coi giovani? La vocazione o il posto fisso?

Impossibile generalizzare, abbiamo detto. Ma in uno dei tanti passaggi autobiografici, l’autore racconta di aver virato in direzione della scuola dopo aver esordito “nel mondo della pubblicità”. Professore per scelta, dunque, non per ripiego. Un caso tutt’altro che raro perché insegnare per ripiego è molto meno frequente di quanto non si creda, “tant’è vero che sono pochi coloro che decidono di cambiare mestiere”, afferma Vacchetti.

In ogni caso la motivazione all’insegnamento è tutt’altro che trascurabile. La passione con cui l’insegnante si presenta in classe “interpreta un ruolo decisivo”, “è contagiosa”, e non si motiva tanto a parole quanto con le azioni. Il ministero dovrebbe avere a cuore questo fattore determinante, anziché appesantire i docenti con carichi di lavoro inutili o collaterali all’insegnamento. Non servono a promuovere né gli interessi culturali né la formazione continua dei docenti.

Cos’è richiesto dunque all’insegnante? Competenza, si dirà. Giusto, giustissimo. E poi equilibrio e senso dell’equità. Direi anche umorismo. Ma conclusa la lista dei requisiti necessari all’insegnamento, Vacchetti ricorda che è “in buona parte un mestiere artigianale, una prassi”, in cui più che un eccesso di pedagogismo “serve... fiuto”. Dote vaga e impalpabile, comunque fondata “sulla capacità di comprendere emozioni, sentimenti e pensieri del prossimo”. Aspetti difficilmente accertabili in sede di concorso, ma preliminari all’attività dell’insegnante, al quale andrebbe richiesta un’elevata dose di curiosità intellettuale, la vera chiave dell’aggiornamento permanente “a prescindere dagli obblighi di legge, che possono essere facilmente dribblati”. Anche per questo il libro si prende gioco della pedagogia astratta che viene spacciata come “utile farmaco” per rivelarsi poi un “veleno”, ad esempio quando si scimmiottano modelli teorici supinamente “importati dal mondo anglosassone o dai Paesi del Nord Europa”.

k

Siamo sicuri che il bravo docente debba misurarsi con le flipped classes? E generare cognitive mapping grazie al cooperative learning e allo scaffolding? Lo scaffolding non è altro che l’aiuto fornito da una persona esperta a una meno esperta. Succede di norma in una falegnameria non appena è assunto un apprendista, o in prima liceo quando il professore di latino aiuta gli studenti a muoversi in un ambiente linguistico che comporta la declinazione del sostantivo. Meglio stare in guardia dal didattichese, dice Vacchetti, “una brutta malattia e non c’è antidoto che valga”.

Riprendendo l’analogia con l’elefante, l’autore ci ricorda che la scuola ha dimensioni enormi: quasi otto milioni di alunni, poco meno di un milione di insegnanti, senza contare il personale amministrativo, quello tecnico e quello ausiliario: “un terzo dei dipendenti pubblici italiani”. Un pachiderma anche sotto il profilo dell’agilità. Un organismo spesso rallentato dagli obblighi burocratici, come d’altronde succede in molti altri aspetti della vita pubblica nonostante le promesse di snellimenti e semplificazioni avanzate da decenni. Ed è anche un organismo “immune a qualsiasi sferzata”, cioè tutto sommato mansueto. Fin troppo, direi, perché il coro delle lamentazioni provenienti da chi vive all’interno della scuola sarebbe meglio che ogni tanto si sollevasse dallo stadio del sordo mugugno.

In ogni caso parlare di scuola al singolare è davvero difficile. Un ministero c’è, ci sono gli uffici scolastici articolati sul territorio nazionale, ci sono i dirigenti e c’è grande abbondanza di circolari e linee guida, ma l’oggetto al quale si riferisce la parola è sfuggente. L’autore arriva ad affermare che non esiste tanto la scuola quanto piuttosto tante scuole, a migliaia, ognuna delle quali con una propria peculiarità, in parte a causa della frantumazione culturale e sociale del Paese, in parte per effetto dell’autonomia, che ha generato, a partire dalla legge sul decentramento amministrativo, una variopinta flessibilità di percorsi, molto più numerosi di quanto si potrebbe pensare e tutt’altro che immobili.

Il punto di vista dell’autore, insegnante di italiano e latino al liceo “D’Azeglio” di Torino, provenendo dall’interno del “panorama osservato” fornisce uno schizzo d’insieme in cui potranno ritrovarsi molti di coloro che siedono quotidianamente dietro una cattedra. Particolarmente efficace il capitolo intitolato “Sensate esperienze”, espressione che fa esplicito riferimento a Galilei. Com’è la scuola stando alla vista? Le eccezioni non mancano, ma nel complesso le aule “restano luoghi desolati, impersonali, uniformi”. E gli accessori? Gli strumenti didattici? Certo, dipenderà molto dai bilanci delle amministrazioni locali, dalla capacità dei singoli istituti di vincere progetti e attingere dai fondi europei, o dalle donazioni dei privati, ma di sicuro le scuole italiane non avranno mai l’aspetto di un vero e proprio campus.

Al riguardo, l’autore ha anche chiesto ai propri studenti come sarebbe la “scuola ideale”, e un po’ stupisce che le loro osservazioni non si siano appuntate sulla didattica. Vorrebbero altro: “scuole immerse nel verde, luminose, moderne, con mensa, attrezzature sportive, giardino e, magari, la piscina”. Un ideale di scuola che però offrirebbe il destro per sollevare molti temi di “educazione civica”, ad esempio quello del debito pubblico e quello dell’evasione fiscale: aspetti non irrilevanti quando si parla delle scarse risorse destinate alla scuola.

k

Anche il paragrafo sull’udito offre molti spunti. Qui l’autore si sofferma sul tema della “voce”, dal vocio che fuoriesce dalle aule allo schiamazzo che riempie i corridoi durante l’intervallo: momento di chiacchiere, di “parole in libertà”, e proprio per questo di confronto e scambio, in cui “lo studente possiede appieno lo spazio scolastico”. La “ricreazione” arricchisce e fertilizza. E vale anche per chi insegna. È un moltiplicatore di crescita di cui i docenti necessitano: “informazioni, suggerimenti, strategie, metodo, relazione, molto passa attraverso l’intervallo”.

Nel paragrafo è poi contenuto un opportuno riferimento alla centralità della parola che “genera fatti”, cioè “modifica la realtà”. La parola è azione e costituisce il mattone fondamentale su cui poggia la scuola, con buona pace dell’adagio secondo cui occorrono fatti e non parole. Chi parla in un’aula scolastica dovrebbe usare una lingua fatta non solo di vocaboli e frasi, ma anche di gesti, sguardi, posture. Conta perfino il timbro, il senso del ritmo, che comporta le giuste pause. Gli “insegnanti sono voci” e saper “essere una voce, diventare una voce, è probabilmente uno dei trucchi del mestiere”, dice Vacchetti. Ha ragione: il ritmo della parola può lasciare tracce profonde sia quando si legge un testo sia quando si fornisce una spiegazione. E una buona voce, al momento opportuno, sa tacere trasformandosi in orecchio che ascolta.

Anche nei paragrafi sul tatto e sul gusto vi sono molte osservazioni preziose, ad esempio vengono affrontate le complesse “dinamiche tra cattedra e banchi”, che richiedono molta “versatilità”. L’insegnante, avendo a che fare anzitutto con persone, può ritrovarsi in situazioni difficili, soprattutto quando la sofferenza si manifesta in forme estreme. Al docente è richiesta improvvisazione, una sorta di “opera funambolica”. Vi sono casi in cui non si dispone di nessun protocollo su come agire e non resta che affidarsi a un atteggiamento empatico. Ma attenzione a non “confondere empatia e sentimentalismo”: farsi prendere la mano dal cuore può essere un passo falso e chi insegna non deve rinunciare “all’identità basilare”. Un professore non è un terapeuta, tantomeno un guru.

Nelle pagine sulla distinzione fra conoscenze e competenze c’è poi un’opportuna osservazione sull’apprendimento della scrittura, che è un po’ come la tela di Penelope: “si scrive e si riscrive, si abbozza e si cancella, si compone e si ricompone, e raramente è buona la prima stesura”.

Opportuno, infine, il richiamo dell’effetto Pigmalione studiato da Robert Rosenthal e convalidato da molte ricerche di economia e sociologia. Riguarda il fenomeno della profezia che si autoavvera, e trova conferma dalla quotidiana esperienza dell’insegnamento. Di cosa si tratta? È semplice: se a uno studente diamo a intendere che è un incapace probabilmente si comporterà da incapace, e a forza di scarsi risultati si convincerà di essere veramente un incapace. Viceversa, valutando la prestazione e non la persona, e riconoscendo le potenzialità di chi apprende, è possibile incidere sulla motivazione, incrementarla e favorire così il miglioramento dei risultati di chi studia. Anche questo può contribuire a potenziare il “patrimonio comune” costituito dalla scuola, ma naturalmente senza dimenticare che è e rimane “con buona approssimazione uno specchio della nostra società”.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO

Bollo blu Dona (Mobile)