Diario 4 / L’inquietudine mi insegue come un cane rabbioso

1 Marzo 2022

Lunedì 21

 

Entro in cucina mentre per radio sta iniziando la rassegna della stampa estera condotta da Dario Fabbri. Naturalmente la crisi ucraina continua a tenere banco. Ieri, ennesima fase negoziale. Macron fa sapere di aver avuto una telefonata con Putin, il quale avrebbe accettato un bilaterale con Biden, che a sua volta sarebbe disposto a dialogare a patto che non scatti nessuna violazione dell’integrità territoriale ucraina. 

Intanto preparo il caffè e metto a scaldare il latte. Nell’attesa vado a sedermi sul divano continuando ad ascoltare Dario Fabbri e non m’accorgo del latte che comincia a bollire. Me ne rendo conto solo quando la Moca smette di gorgogliare ma ormai il latte ha allagato metà del piano cottura. 

Non mi va di avviare la giornata sotto il segno della rampogna, quindi mi sbrigo a pulire prima che arrivi mia moglie. Ripasso la spugna sull’acciaio, la strizzo nel lavello, ripeto l’operazione, tiro con uno Scottex per non lasciare aloni, quindi mi preparo la tazza del caffelatte.

 

Dario Fabbri continua a parlare dei preparativi militari su larga scala. Cita Le Monde, dove sono riportate le posizioni del Cremlino, che insiste perché siano prese sul serio le richieste russe. Preso dalle notizie mi lascio distrarre di nuovo, esagero nel riempire la tazza di pane raffermo e al momento di mescolare verso un po’ di pastone sul tavolo. Ripulisco in fretta, mi siedo sul divano e inizio la colazione. 

Sono abituato a mangiare seduto sul divano, ma questa volta, non so perché, forse preso di nuovo dal racconto di Dario Fabbri, nonostante mi sia allungato sulla tazza per non far colare niente, cade sul bracciolo un pezzo di pane inzuppato. 

Dal corridoio arrivano i passi di mia moglie e lancio un’occhiata qua e là, vedo un tovagliolo, lo afferro al volo e faccio in tempo a coprire la macchia. Appena lei entra chiede se ci sono novità. Be’, sembra che ci sia ancora spazio per la diplomazia, uno spiraglio di dialogo, speriamo. 

 

Finita la colazione vado a sciacquare la tazza, la ripongo nel pensile della cucina e mi avvio verso il bagno per lavare i denti, ma nel richiudere la porta della cucina sento arrivare il fulmine. Guarda cos’hai fatto. Mi giro e vedo che regge con una mano il tovagliolo mentre con l’altra indica la macchia. Si è un po’ allargata, dico io, purtroppo. E salendo le scale sono inseguito da uno di quei complimenti che di prima mattina vorrei evitare.

Fuori all’aria aperta svanisce la stanchezza e nel traffico rallentato dalle rotatorie e dai semafori ripenso alla mattinata di ieri al Teatro Valli, dove ho dialogato con Donatella Di Cesare sul suo libro dedicato al tema del complotto. Non è sempre piacevole conoscere gli autori dei libri, a volte sono supponenti, spocchiosi, presi da un insulso narcisismo, invece in questo caso ho conosciuto una persona con cui avrei parlato per delle ore.

D’altra parte la finezza è la cifra del libro, che scorre evitando sia il precipizio del complottismo sia la rinuncia al dubbio. È come se procedesse lungo un crinale di montagna alla ricerca della causa adeguata di quello che succede, cioè rivendica il diritto al sospetto senza cedimenti al risentimento, che è sempre una rivolta sottomessa.

 

 

Martedì 22

 

Ieri il Cremlino ha riconosciuto ufficialmente l’indipendenza e la sovranità delle repubbliche di Lugansk e Doneck, nel Donbas orientale. Brutto segno, fa temere il peggio anche se non ci voglio pensare, cioè ci penso ma poi scaccio l’inquietudine e rimuovo quello che sto pensando. 

Mi ritrovo nella condizione di cui parla Tolstoj. All’avvicinarsi del pericolo due voci acquistano uguale forza nell’animo umano, una suggerisce di riflettere sulla natura del pericolo e l’altra, considerato che è troppo tormentoso, suggerisce di pensare a cose piacevoli.

 

La mattina trascorre nell’altalena di queste due voci ma per fortuna, quando torno a casa, sono distratto da quello che vedo in un campo lì vicino. Ci sono sei o sette persone che stanno raccogliendo qualcosa. Forse radicchi selvatici. Una scena inconsueta e dopo aver parcheggiato vado a curiosare. 

Sono donne. Hanno in dotazione sporte da supermercato, sacchi, sacchetti e altri contenitori sparsi nel campo. Anche un trolley dal quale spuntano ciuffi di verdura. 

Mi avvicino a una di loro e chiedo cosa stanno raccogliendo. Lei gira la testa tenendo il busto piegato. Fa segno che è roba da mangiare e ho l’impressione di averla impaurita. Forse crede che io sia il padrone del campo e teme che voglia rimproverarla. 

 

In quel momento passa di lì un mio vicino di casa. Sta portando a spasso il cane e gli chiedo se ha idea di cosa stiano raccogliendo ma ne sa esattamente come me, con questa differenza, però, che a lui non interessa niente e ricomincia subito a pascolare il cane. 

Quando sto per andarmene sento una voce. Una di loro mi sta chiamando, io mi avvicino, lei sorride e dice di essere cinese. Cinese? Ma di quale città? Domanda stupida, lo so, quelle che si pronunciano solo perché non si contiene l’impulso che trascina a parlare. Lei non capisce e si limita a ripetere altre due volte di essere cinese. 

Poi si avvicina un’altra donna, mi allunga un gambo di quello che stanno raccogliendo e vorrebbe che lo mangiassi. Per incoraggiarmi si mette in bocca un gambo simile. Lo morde con decisone, insiste, sorride, vorrebbe che la imitassi ma non mi fido, senza lavare l’ortaggio. No, no morire, dice lei, no morire. Si mette anche a ridere.

 

Sarei tentato di assaggiare per fare bella figura, ma prevale il timore. Sono figlio anch’io della propaganda: disinfettanti, antisettici, antibatterici, indispensabili contro la minaccia dei germi patogeni. 

Comunque, quello che lei mi allunga potrebbe essere cavolo o cima di rapa, qualcosa del genere. Poi saluto e mentre loro tornano a chinarsi per riempire i sacchi io vado a comprare il pane nel negozio lì di fronte.

Il titolare chiede subito con chi stavo parlando. Non scappa nulla in provincia, c’è la sorveglianza di comunità. Vuol sapere se vengono dai paesi dell’Est, intende Est Europa. Sono cinesi, rispondo, stanno raccogliendo del cavolo. 

Nell’allungarmi il pane, lui dice che ogni anno, in questo periodo, li vede arrivare a frotte, in autobus, scendono, si sparpagliano nei campi, e stanno chinati per ore, poi ripartono in autobus carichi di sporte. Ma ero convinto che fossero dell’Est, ripete.

 

Avviandomi verso casa mi viene in mente l’espressione “chilometro zero”. Penso alla differenza fra il chilometro zero e la moda del chilometro zero. Il chilometro zero l’avrei davanti a casa mia, mentre la moda del chilometro zero è quella che praticano certi miei conoscenti che frequentano i negozi specializzati in cibo biologico, e sperano negli antiossidanti per contrastare i radicali liberi che sono causa d’invecchiamento.

A pranzo, quando racconto a mia moglie cos’ho visto, lei rimane sorpresa, e propone subito di andare a raccogliere due sporte di cavoli freschi, perché con olio e ceci sono buonissimi, dice. Io non aggiungo niente, ma in cuor mio sono orgoglioso di averla sposata anche per questi slanci. 

 

 

Mercoledì 23

 

Questa mattina non accendo la radio. Faccio colazione in silenzio, attento a non macchiare e a non sporcare niente. Do solo un’occhiata ai titoli dei giornali, sul telefono, vedo che sono scattate le sanzioni contro Mosca. Annullato l’incontro fra Blinken e Lavrov, congelato il gasdotto Nord Stream 2, autorizzate le truppe russe a oltrepassare i confini nazionali. Tutto porta a pensare che ormai la guerra stia per iniziare, ma non ci voglio credere

Ieri pomeriggio ho letto un articolo di Thomas L. Friedman sul New York Times. Ricorda cosa diceva George Kennan sugli errori della NATO che si è allargata a Est. I russi reagiranno in modo negativo, un tragico errore, l’espansione della NATO. Ma l’invasione dell’Ucraina non favorirebbe proprio la NATO? Io, però, sono solo un professore di storia.

  Comunque, oggi, nel solito parcheggio non trovo posto, allora vado a mettere la macchina più lontano, e siccome ho una mezz’ora buona prima di dovermi presentare in aula, anziché passare lungo il perimetro esterno del cimitero ci passo in mezzo, così mi torna in mente una collega andata in pensione qualche anno fa. 

La stimavo molto. Insegnava italiano e latino, e per preparare alla lettura di Ugo Foscolo portava gli studenti in gita proprio al Cimitero monumentale di Reggio Emilia. Passeggiava con loro tra le tombe, convinta che quello fosse l’ambiente ideale per afferrare la poetica foscoliana. Recitava i Sepolcri a memoria e gli studenti venivano poi a dirmi che rimanevano incantati ad ascoltare.

 

Giovedì 24

 

Oggi la Russia ha iniziato l’attacco all’Ucraina. Lo vengo a sapere dalla voce di Dario Fabbri che alle 6,50 inizia la rassegna stampa internazionale. Cerco notizie aggiornate sul cellulare e i titoli dei giornali confermano l’inizio della guerra. Non capisco, lo ammetto. Il diritto al sospetto significa chiedersi cui prodest. Ma quale vantaggio ne ricaverà Putin? 

Ogni essere è mosso da un conatus suum esse conservandi, dice Spinoza. Però nella storia ci sono molti esempi di uomini che si sono comportati in modo tecnicamente stupido, cioè oltre a procurare un danno agli altri hanno procurato un danno a sé stessi. Succede quando gli uomini non sanno governare i propri appetiti. 

Adesso, l’inquietudine di questi giorni comincia a mordere. Cerco inutilmente di scrollarmela di dosso, ma m’insegue come un cane rabbioso. 

Mi è sempre successo così: Afghanistan, ex Jugoslavia, di nuovo Afghanistan, Iraq, Siria…, non riesco a tenere il distacco, la lucida freddezza. Forse per i racconti che ascoltavo da bambino, sui bombardamenti del 1944 o i rastrellamenti tedeschi, o per l’orrore di cui mi parlava mia madre, che nel 1944 aveva otto anni.

 

A scuola procedo secondo protocollo. C’è da fare l’appello, ci sono i registri da compilare, c’è da parlare di Napoleone, di Feuerbach, di Marx, ma avrei voglia di starmene seduto in silenzio. 

Subisco l’onda ribassista della ciclotimia, ma siccome il mio lavoro consiste nel parlare, parlo, faccio domande e rispondo a chi chiede qualcosa, anche a chi chiede di questa guerra. Però ogni volta che apro bocca sento che le parole escono spente.

Per di più, quando mi muovo lungo i corridoi, o su e giù per le scale, ho l’impressione di avere ancora alle costole quel cane rabbioso. Per fortuna, uscendo da scuola, faccio un tratto di strada con un mio collega che ha parcheggiato in Piazzale Fiume. Ha appena comprato un’auto elettrica, 200 chilometri di autonomia e costi di manutenzione bassissimi, tre euro per una ricarica. Sta anche mettendo sul tetto di casa sua un impianto fotovoltaico. 

 

Ecco, vorrei parlare di queste cose per il resto della giornata, per tenere alla larga il cane rabbioso che altrimenti continua a starmi alle costole. Quando salgo in macchina mi sintonizzo ma non serve a cancellare il ringhio.

Dopo pranzo telefono a un mio amico. Gli parlo di quello che mi succede ma lui già da molto tempo sente che si sta addensando una catastrofe sul mondo, una nube che avanza inesorabile e dà l’impressione di poter spazzare via tutto da un momento all’altro.

 

Venerdì 25

 

A scuola oggi c’è il monte ore. A metà mattinata ricevo il messaggio di un amico, anche lui professore, dice che dovremmo fare qualcosa, lanciare l’idea di un’assemblea straordinaria sulla guerra. Poi mi manda un video e aggiunge una didascalia: abbiamo creduto che uscire dalla storia del Novecento fosse come tirare la corda di uno sciacquone. In risposta, per usare la sua allegoria, gli scrivo che mi sento come quello che è trascinato dallo sciacquone giù nello scarico.

Verso le nove di sera comincia a tuonare, poi la pioggia scende battente e mi addormento sotto il martellamento della pioggia.

 

Sabato 26

 

Dormito male, e oggi quando mi alzo non accendo nemmeno la radio. Mi faccio il mio solito pastone e me lo mangio nel silenzio della cucina. 

Appena a scuola stampo il testo di una verifica da fare in quinta, su Kierkegaard, un filosofo che ha scritto un passo piuttosto comico sul matrimonio, e mentre loro sono chini a scrivere sui banchi io lo rileggo per tirarmi su il morale. 

Sposati, te ne pentirai; non sposarti, te ne pentirai anche; sposati o non sposarti, ti pentirai d’entrambe le cose; o che ti sposi o che non ti sposi, ti penti d’entrambe le cose. Ridi delle follie del mondo, te ne pentirai; piangi su di esse, te ne pentirai anche; ridi delle follie del mondo o piangi su di esse, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu rida delle follie del mondo o che pianga su di esse, ti penti d’entrambe le cose. Credi a una fanciulla, te ne pentirai; non crederle, te ne pentirai anche; credi a una fanciulla o non crederle, ti pentirai d’entrambe le cose; o che tu creda a una fanciulla o che non le creda, ti pentirai d’entrambe le cose. Impiccati, te ne pentirai; non impiccarti, te ne pentirai anche. 

 

In quarta tornano a chiedere qualcosa della guerra in corso. Un mio studente ha anche scritto qualcosa per il giornalino della scuola. Il fatto è che io continuo a non capire. Dov’è la ratio?

In terza interrogo e parlo del mito del demiurgo. Platone lo descrive nel Timeo. Il demiurgo è l’artefice divino che plasma il mondo ricorrendo a una materia molle, amorfa, senza misura, che lascia in eredità alle cose del mondo quanto in esse vi è di negativo e disarmonico, cioè il male. 

 

Nel pomeriggio riprendo in mano Guerra e pace. L’ho riletto di recente, mentre mia moglie aveva il Covid, e io ho passato un bellissimo periodo di quarantena cautelare a colpi di duecento pagine al giorno. 

Cerco un passo che ho in mente sulla guerriglia, ma prima ne trovo uno sull’arte della guerra. È una riflessione del Principe Andrej: in guerra, i piani più profondamente meditati non significano nulla, e tutto dipende da come si risponde alle azioni impreviste e imprevedibili del nemico. 

Non so se è vero, ma il concetto è ribadito proprio dove Tolstoj parla della guerriglia, fatta di azioni militari che acquistano un carattere popolare; e gli uomini, anziché riunirsi in massa contro una massa, si sparpagliano, e attaccano alla spicciolata, e fuggono non appena vengono attaccati da grandi forze. 

A volte, nella storia si è dimostrata un osso duro, la guerriglia, e dalle notizie che arrivano dall’Ucraina potrebbe essere che Putin non l’abbia messo in conto. Ma io sono solo un professore di storia.

 

 

Domenica 27

 

Siamo soggetti all’involuzione, dice Freud, e non c’è dubbio che la guerra sia tra le forze in grado di provocare una tale involuzione, un’involuzione dell’intelligenza rivelata anche dai migliori.

E certo è strano quello che mi è tornato in mente sul terrazzo dove sono appena stato per controllare a che punto è l’insalata. L’ho seminata prima dell’inverno e l’ho coperta con un cellofan, per l’effetto serra. E com’è venuta? Bellissima, un verde intenso, rigogliosa, l’ho anche accarezzata col palmo della mano. 

Cosa m’è venuto in mente? Tempo fa avevo letto che in una faggeta, nei pressi del cimitero di Trespiano, sulle colline di Careggi, non lontano dalla Villa medicea dove Marsilio Ficino fondò l’Accademia Neoplatonica, un escursionista aveva trovato dispersi in una scarpata i resti di un cimitero. 

Frammenti di loculi, lapidi spezzate, portafiori, insegne divelte con nome e cognome dei defunti, colonne marmoree troncate a metà, urne scoperchiate con delle ossa all’interno, quintali e quintali di marmi funerari scaricati alla rinfusa, come se un gigante furioso fosse passato da un cimitero mentre doveva scaricare la rabbia della gelosia matta e avesse mandato tutto per aria. 

Devo ricordarmi di segnalare il caso a Ermanno Cavazzoni.

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