Meno cellulari e più trapani

12 Agosto 2024

In diversi racconti di matrice orientale, indiana e persiana anzitutto, trova espressione il desiderio umano di attraversare rapidamente lo spazio: essere qui e un istante dopo altrove, a distanze sconfinate. Desiderio che l’immaginazione letteraria ha raffigurato nel celebre tappeto volante, e che in chiave tecnologica ha spinto a costruire mezzi di trasporto sempre più rapidi. Forse un trasferimento istantaneo della materia rimarrà confinato alla fantascienza, in compenso abbiamo a disposizione un teletrasporto di grado minore. 

Grazie alle onde elettromagnetiche individui spazialmente lontani si parlano, si vedono, si riuniscono. Le applicazioni disponibili sui cellulari archiviano testi, immagini e filmati riproducibili al bisogno, consentono di condividere contenuti con chiunque. Una lunga lista di possibilità: la geolocalizzazione guida nei percorsi stradali; si effettuano bonifici bancari; ci sono tutorial che insegnano a tracciare un circuito elettrico o a preparare la marmellata; e i siti di incontri offrono contatti che da virtuali possono coinvolgere corpi reali e tangibili. E poi gli algoritmi dell’intelligenza artificiale promettono ulteriori sviluppi, potrebbero arrivare a conoscerci meglio di noi stessi. I suggerimenti di Spotify ne sono un’avvisaglia. 

Non siamo del tutto consapevoli di quello che abbiamo tra le mani maneggiando uno smartphone, e ci sfuggono i mutamenti antropologici dovuti all’attuale salto tecnologico. Forse per questo la capillare penetrazione dei cellulari in ogni aspetto della vita suscita molti timori, alcuni dei quali tutt’altro che infondati. Sono conservate le tracce dei nostri spostamenti, le telefonate sono intercettabili, e soprattutto si può cadere nello smartphone come in un buco nero. Lo stesso amministratore di Apple, Tim Cook, ha riconosciuto i rischi di dipendenza. 

L’immenso arco delle possibilità seduce e nel contempo minaccia, come d’altronde succede ad ogni balzo tecnologico di portata epocale. Conosciamo bene l’imbarazzo che ha accompagnato il passaggio dalla cultura orale a quella scritta. 

Nel Fedro, all’encomio della scrittura, definita dal dio Theuth farmaco per la memoria che garantisce sapienza, obietta il re Thamus: la scrittura produce dimenticanza, abituando a ricordare dal di fuori, mediante segni estranei, e non dal di dentro. Cioè Platone coglie i rischi dovuti a una formazione non accompagnata dal dialogo e dal confronto orale col maestro. La sola lettura rischia di generare uomini ignoranti e presuntuosi, che scambiano l’opinione per verità. Ma poi lo stesso Platone affida il suo pensiero, una parte almeno, alla scrittura.

Inevitabile che tutto ciò investa la scuola, che costituisce un anello fondamentale del rapporto che le nuove generazioni mantengono col patrimonio culturale, ovvero con i dati informativi di carattere non genetico elaborati nel passato. Attraverso la scuola si trasmette la memoria comune dell’umanità. Ma la scuola dovrebbe formare individui non presuntuosi, capaci di conservare quanto di meglio offerto dalla tradizione e cogliere le opportunità innovative. La formula magica da usare in questi casi è pensiero critico: esaminare, distinguere, interpretare, discernere. 

Una formula spesso dimenticata. La debolezza della critica prepara il terreno su cui attecchiscono fake news, post-verità e altre distorsioni informative in forma di credenza, diffuse senza riguardo a nessun tipo di accertamento. In assenza di critica attecchiscono contenuti abbracciati su base emotiva, refrattari alla verifica. Si tratta di “idee zombie” che circolano in bolle di sottocultura, offrendo sicurezze e risposte facili a problemi complessi. E la loro diffusione di massa avviene grazie alle tecnologie della comunicazione. Per riecheggiare il titolo di un recente libro di Steven Nadler e Lawrence Shapiro (Quando persone intelligenti hanno idee stupide. Come la filosofia ci salva da noi stessi, trad. it. Angelica Kaufmann, Cortina, 2022), cresce una testardaggine cognitiva che induce persone anche intelligenti ad avere idee stupide. 

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© Giselle Dekel.

La scuola non è avulsa dalla società e non può chiudersi alle nuove tecnologie, di cui lo smartphone è parte. Ma per non subirne l’intrusione indiscriminata occorre conoscerne la portata sia cognitiva che emotiva. Scrollare video su TikTok è piacevole per vari motivi, soprattutto in età giovanile, la rapidità nel flusso dei contenuti allontana la noia senza comportare sforzi. Ma anche imparare a suonare la tromba allontana la noia solo che comporta impegno e fatica, non richiesti dal consumo di immagini e suoni. Anche questo favorisce dipendenza e assuefazione, che non si contrastano coi divieti.

Il cellulare può anche essere un mezzo per ferire, offendere e ricattare. I ragazzi sono coscienti di un uso pericoloso del mezzo? E delle aberrazioni a cui porta il bisogno male indirizzato di popolarità? L’ambizione al riconoscimento sta al cuore delle dinamiche sociali, ma è effimero indirizzarlo nei like. 

La necessità di riconoscersi negli individui in via di formazione è soddisfatta dallo smartphone perché offre l’opportunità di sentirsi inclusi in un’aggregazione anche quando non è fisicamente riunita. Il cellulare fornisce sicurezza e può attenuare l’ansia. D’altronde i gruppi cristallizzati possono escludere anziché includere, accentuando l’isolamento di chi non ne fa parte. 

Ma allora l’attenzione, più che concentrarsi sul divieto, andrebbe posta sul deserto emotivo in cui molti ragazzi stanno crescendo. C’è ancora qualcuno che tenta di fornire un’educazione sentimentale? Cosa ben diversa dal rispetto delle regole.

Forse la questione dei cellulari andrebbe posta entro una cornice etica. Perché non si fa danno agli altri. Perché derisioni e persecuzioni non sono ammissibili? Certo, deve scattare la sanzione, ammesso che la scuola italiana sappia farlo. Ma prima vengono individuati i principi di base a cui ispirare atti e parole? La storia dimostra che non sono mai acquisizioni definitive. Senza considerare che il rispetto reciproco e l’onestà intellettuale devono anzitutto essere testimoniati da chi sta dietro alla cattedra. 

Un approccio kantiano non comporta lo studio di ponderosi libri filosofici e renderebbe inutile l’insistenza su numerose regole. In assenza di un’etica pubblica, a cosa servono le gride manzoniane? Il rapporto Censis del 2018 rilevava che 1/5 dei giovani navigava o scambiava messaggi durante la guida. E il cellulare al volante, nonostante divieti e sanzioni, rimane ancora causa di molti incidenti.

Altra critica riguarda gli effetti distrattivi che lo smartphone può causare a scuola. C’è il rischio che cali l’attenzione, si dice. Può darsi, ma chi insegna ha studiato come funzionano i flussi di attenzione? Se ne è occupato uno psicologo ungherese dal nome complicato, Mihály Csíkszentmihály, ma la sua conclusione è semplice: lo sviluppo dell’apprendimento è ostacolato da due stati emotivi opposti, l’ansia e la noia. Entrambi hanno l’effetto di ostacolare l’apprendimento, invece favorito quando si è completamente assorbiti in ciò che si sta facendo e si perde il senso del tempo dando importanza solo al presente. 

L’attenzione è accordata a chi sa suscitare interesse. In un’epoca in cui il cellulare non esisteva, quando i professori perdevano il filo del discorso, o si ripetevano, o si abbandonavano alle prediche, cosa succedeva? Io e il mio compagno di banco mettevamo in comune un foglio e davamo vita a un dialogo continuo in forma scritta. Interrogativi, dubbi, esclamazioni, anche fatti privati. E raccoglievamo i fogli in una cartellina da infilare sotto il banco. Un carteggio ispirato alla brevitas, simile ai messaggi di WhatsApp. 

Siamo sicuri che gli studenti sarebbero più attenti solo per aver consegnato il cellulare alla cattedra? Con ragazzi ormai abituati alla velocità, alla varietà dei contenuti, allo scorrere rapido delle immagini, occorre ben altro. 

Semmai occorre riconoscere che lo smartphone diventa uno Status Symbol. L’IPhone di ultima generazione può essere usato per esibire ricchezza davanti agli altri. E sul potere pervasivo del denaro non si riflette più. Che fare? Difficile rispondere, ma forse, assieme all’etica kantiana, andrebbe ripresa una critica sociale, perché le divinità del mercato, che hanno sostituito quelle olimpiche e quelle celesti, perseguendo il solo innalzamento del profitto hanno riversato non poche scorie sulla società.

Comunque una modulazione elastica e meno sanzionatoria sull’uso del cellulare in classe può offrire opportunità imprevedibili da punto di vista didattico. A volte lo uso per far leggere agli studenti dei brani che invio all’ultimo momento: passi di autori, canzoni, anche video. E quando li chiamo a sorpresa per continuare la lettura è raro che qualcuno abbia perso il segno. 

Di norma faccio spegnere o silenziare il cellulare, e faccio altrettanto, anche se un giorno sono stato costretto a tenerlo acceso. Ho spiegato che una mia zia di novant’anni era caduta e non aveva nessun altro a cui chiedere aiuto. Quindi, scusate ragazzi, ma oggi non vale il principio di reciprocità. 

In effetti mezz’ora dopo il cellulare s’è messo a vibrare. Non pensavo più a mia zia, ero nel flusso della lezione, e la telefonata m’ha preso alla sprovvista. Nel silenzio generale, chi stava in prima fila ha sentito distintamente una voce lenta e strascicata, chiedeva il nome di quel pittore livornese che faceva i colli lunghi. Dieci lettere, ha detto. Serviva per le parole crociate.

Dovevo fermare sul nascere l’inevitabile risata e ho detto che anche quella era un’emergenza. Cosa credete? Diventa tutto un’emergenza, a novant’anni, ve n’accorgerete. Ma almeno sapevano chi era il pittore livornese che dipingeva i colli lunghi? Nessuno ha detto niente, quindi ho fatto a mia zia il nome di Modigliani, ho riagganciato e li ho guardati con aria interrogativa. E lo scherzo dei tre ragazzi di Livorno? Che hanno beffato il Gotha degli storici dell’arte? Anche di questo non sapevano niente. 

Era il 1984. Liceali come voi, ho detto, che scolpendo una pietra arenaria col Black&Decker hanno imitato una testa di Modigliani per gettarla in un fosso, sperando che fosse ritrovata e scambiata per originale. 

Non avevano idea di chi fosse Modigliani ma non hanno perso l’occasione per sapere com’era finita la beffa di Livorno. È così. Gli studenti sviluppano sempre interesse per quello che non rientra nei programmi ministeriali. Quindi ho impiegato il resto dell’ora a raccontare la figura da Calandrino che aveva fatto un luminare della storia dell’arte. 

E il Black&Decker? Sapete cos’è? Niente da fare. Un cambio d’epoca, e mentre spiegavo cos’era, stando alle facce, ho avuto la certezza che nessuno di loro l’avesse mai preso in mano, il Black&Decker. Beh, allora oggi pomeriggio, ho detto uscendo dall’aula, mettete da parte il cellulare e imparate a usare il trapano elettrico.

Le illustrazioni sono di ©Giselle Dekel.

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