Diario 10 / Un dormiveglia con Hegel

12 Aprile 2022

Lunedì 4

 

Abele era pastore di greggi, come tutti sanno, invece Caino coltivava la terra. Abele la vittima e Caino il carnefice. Ma oggi mi è scappato detto che in fondo, considerando com’è nata la sua disgrazia, Caino suscita una certa simpatia a differenza di Abele, perché l’idea di fare un’offerta al Signore era venuta proprio a lui, a Caino, forse mentre zappava. E cosa offre al Signore? I prodotti del suolo, dice la Bibbia. 

Non è precisata la specie vegetale ma si può pensare all’insalata, alla lattuga, ad esempio, oppure al radicchio, dipende dalla stagione, ammesso che a quei tempi fosse già in atto la rivoluzione terrestre. Ma se il periodo dell’anno è incerto, la Bibbia precisa che il primo a voler onorare il Signore è stato Caino che ha offerto in dono i prodotti del suolo, quindi in lui c’era dell’affetto filiale, un dettaglio tutt’altro che irrilevante, anche se di solito è passato sotto silenzio.

 

E se poi le cose si sono messe male è stato perché lì attorno c’era anche suo fratello, che vedendo cosa faceva il primogenito ha pensato di fare la stessa cosa. Questo bisognerebbe considerarlo: uno ha avuto l’idea, l’altro ha agito per imitazione. So bene che l’imitazione è alla base dei comportamenti umani, come dice René Girard, ma una cosa sono i tagli di Fontana, altra cosa se mi metto io a tagliare una tela, quindi il Signore avrebbe dovuto accorgersi che uno dei due stava facendo un po’ il furbo. Ma sorvoliamo pure su questo dettaglio. Dunque, erano lì tutti e due, entrambi intenti a offrire qualcosa al Signore. Uno con in mano un ortaggio mentre l’altro offre i primogeniti del suo gregge. Torno a ripetere, lo dice la Bibbia. 

Naturalmente mi rendo conto della differenza. La lattuga sarà pur ricca di fibre, ma non è nemmeno paragonabile alla carne arrosto. Senza considerare che è poco digeribile, la lattuga, lo so, è causa di gonfiore intestinale. E comunque a Pasqua, quando si sparge nell’aria il profumo di carne arrostita e si cammina in paese affrettando il passo per arrivare a casa in vista del pranzo, cosa succede se a tavola si trova solo un piatto di insalata? Vien da piangere, è naturale.

 

Quindi io capisco bene che il Signore potesse preferire l’offerta di Abele, ma Caino non aveva nessuna colpa se era stato destinato alla zappa. Erano famiglie patriarcali, i figli obbedivano. Dunque perché il Signore non fa nemmeno un cenno a Caino? Perché rivolge l’attenzione solo all’offerta di Abele e a Caino nemmeno uno sguardo? La Bibbia è chiarissima, in proposito.

Dunque, una volta tanto, mettiamoci nei panni di Caino. È lui ad aver avuto l’idea, l’altro l’ha copiata. È lui che ha dovuto zappare, sarchiare, innaffiare per tirar su un cespo di lattuga. E intanto cosa faceva Abele? Se ne stava tutto il tempo a zufolare col piffero in mano mentre il gregge pascolava per conto suo. Caino sudava sulla terra e Abele riposava all’ombra di un albero. Non stupisce che Caino fosse abbattuto, adirato.

 

 

Almeno avesse ricevuto una parola dal Signore. Invece niente, e questi sono errori pedagogici. Apprezzare solo uno e trascurare l’altro sviluppa una sindrome da abbandono. Semina rancore, sfiducia nella giustizia, invidia. Alla fine nascono le guerre. 

Lo so che la predilezione divina è un mistero di enorme portata. Ne ho parlato una sera a cena con un mio amico di nome Gino. Un tema che rimanda a complesse questioni di teodicea. Ma rapportato su scala umana, il mistero si chiarisce con un esempio scolastico. Sarebbe come se un professore si lasciasse andare alle simpatie. 

Che ci siano, non lo nego. Il professore è un essere umano e come tale è soggetto alle pulsioni emotive, ma le preferenze vanno evitate, altrimenti ci tocca dar ragione a François Truffaut, il celebre regista francese esponente della nouvelle vague, il quale, stando a quanto dicevano le figlie, se una delle due faceva una marachella, lui metteva in castigo l’altra per insegnare che la vita è ingiusta, ammesso che si debba dar credito a Emmanuel Carrère.    

E quando andrò in pensione scriverò un saggio di antropologia biblica, ho detto. Ecco cosa m’è scappato. Subito dopo mi sono pentito. Una frase da megalomane. Spero che i miei studenti abbiano capito che a volte mi lascio andare all’entusiasmo della critica, ma in realtà so bene di non essere nessuno per affrontare temi tanto ardui. 

 

Martedì 5

 

E visto che ci sono, aggiungo che in quel libro di Emmanuel Carrère c’è un’altra storia che lascia perplessi. Riguarda il pappagallo che aveva la nonna di un suo amico di nome Hervé. Intendo l’amico, non il pappagallo. La storia è questa, che quando la nonna di Hervé apriva la porta della gabbia il pappagallo non usciva, se ne stava tranquillo là dentro, dondolandosi sul trespolo. E lui, Hervé, non capiva come mai il pappagallo non volesse uscire. Così un bel giorno la nonna ha spiegato il trucco a Hervé. Lei metteva uno specchio in fondo alla gabbia e il pappagallo era tanto contento di specchiarsi che non s’accorgeva della porticina aperta. Anziché volarsene via con un colpo d’ala rimaneva dentro la gabbia a contemplarsi il becco. La storiella colpisce perché non verrebbe mai in mente a nessuno che simili cose succedano anche ai pappagalli.

 

 

Poi oggi, tornando a casa, ho fatto una sosta nel mio solito negozio di alimentari. Sono mosso da un profondo senso di fedeltà, nella vita. In più il negozio mi piace per ragioni estetiche, compresa la vetrina, che non ha niente di studiato. Sempre la stessa da trent’anni. Anche l’interno, immutato. Stesse scaffalature, con le etichette adesive e i prezzi scritti a pennarello. Questi cambiano, naturalmente, ma sulla stessa etichetta. Il prezzo è corretto, oppure cancellato e sostituito. E l’assortimento di prodotti va dallo zampirone fino al prosciutto crudo, il migliore che ci sia in circolazione da queste parti.

Dunque il titolare è lì che sta lavorando all’affettatrice e io gli chiedo a che epoca risalga. Un’affettatrice manuale, a volano, di color rosso. Almeno ottant’anni, dice Bonini. La usava suo nonno per tagliare il prosciutto ai tedeschi nel 1944, quando avevano occupato villa Rossi, e chissà se lo pagavano. Forse erano convinti di pagarlo abbastanza lasciandolo in vita, aggiungo io. 

 

Intanto lui infila il prosciutto nel sacchetto di carta dove ha già messo il pane e io chiedo qualche altro dettaglio sull’affettatrice. Così vengo a sapere che quando la puliscono, per sollevarla, devono esserci in tre, un bestione che va oltre i sessanta chili, manufatto olandese, marca Berkel. 

A quel punto mi sbilancio per sapere se posso fare una foto al negozio, allora lui, Bonini, dopo che l’ho scattata, si assenta un momento per tornare con la foto incorniciata di due sposi seduti sulla panchina che c’è all’esterno. Dice che anni fa, passando di lì, si erano fermati a prendere qualcosa da mangiare e il fotografo che era con loro aveva fatto alcuni scatti poi finiti in una mostra in città.

E pensando a Villa Rossi, mentre torno a casa, fluiscono i ricordi. È uno dei più bei posti che ci siano qui attorno. Sorge lungo una strada alberata dove pedalavo già da ragazzo, quando andavo a trovare una mia compagna di classe, una che mi piaceva molto solo che avevo l’impressione che a lei piacesse un altro e così non mi sono mai fatto sotto. 

 

Invece a Villa Rossi, proprio dov’era dislocato il Quartier Generale del 5° Corpo d’armata tedesco, nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1945 si erano fatti sotto i partigiani armati di Sten e Thompson. L’aveva presa d’assalto un distaccamento sceso dall’Appennino, ne facevano parte anche russi e inglesi, un centinaio di uomini guidati dal Capitano John Lees.

Tutte cose che adesso conosco per ragioni professionali, ma non le sapevo a quindici anni, quando pedalavo davanti a Villa Rossi per andare a casa di Beatrice a tradurre latino. E chissà cosa sarebbe successo se avessi saputo di quelle ardite imprese partigiane. Forse m’avrebbero infuso il coraggio per prendere d’assalto non solo i brani di Cornelio Nepote.

 

Mercoledì 6

 

A proposito di Beatrice, questa mattina, nell’aula docenti ho sentito dire che in un concorso a cattedra svoltosi intorno agli anni Ottanta, un commissario d’esame aveva chiesto a un giovane candidato quale fosse la funzione di Beatrice nel Paradiso di Dante. E lui in risposta aveva detto: lo tira su con lo sguardo. 

Può darsi che non sia vero, però in questo caso non importa. La frase è bellissima di per sé. Una risposta in forma di battuta che Freud avrebbe incluso nel suo libro intitolato Il motto di spirito, dove c’è la storiella del paiolo bucato. La racconto spesso in classe: uno prende in prestito un paiolo di rame e quando lo restituisce, il proprietario s’accorge che è bucato, e si lamenta. Cosa risponde quello che lo restituisce? Che anzitutto non ha preso in prestito nessun paiolo, e poi quando l’ha ricevuto aveva già un buco, e comunque ha restituito il paiolo intatto. 

 

A me è successa davvero una cosa del genere. Avevo prestato un libro a uno studente e lui me l’ha restituito dopo l’esame. Era pieno di scritte a biro e tutto evidenziato in giallo e rosa. Se me l’avesse restituito in quelle condizioni prima dell’esame, avrei proposto la bocciatura.

E quando anni fa avevo chiesto a una studentessa quali fossero le tre componenti del socialismo italiano di inizio Novecento, lei aveva detto: massimalisti, riformisti e revisionari. Revisionari? Sulle prime mi era venuto da allargare le braccia poi però ci avevo ripensato. Revisionari, un neologismo involontario denso di significati, quelli che ritornano sulle visioni e ne verificano il grado di efficienza. Quando sento cose del genere ci rifletto a voce alta, e io l’avevo elogiata per la creatività linguistica. Non per le conoscenze storiche, però.

 

Poi oggi, in quinta, durante l’intervallo mi ha avvicinato una studentessa di nome Arianna. Prima che suonasse la campanella avevo letto e commentato un passo di Ecce Homo, dove Nietzsche sostiene che l’errore non è cecità ma viltà, e di conseguenza ogni risultato, ogni passo avanti nella conoscenza, è un effetto del coraggio, della durezza con sé stessi. Avevo chiesto che cercassero un termine o una frase per esprimere lo stato d’animo da cui poteva essere uscito questo passo. E lei, Arianna, è venuta a dirmi che Nietzsche si potrebbe definire un pazzo sgravato. 

C’è un’altra cosa che merita di essere raccontata. Appena arrivato a casa vado subito a sparpagliare nei vasi del mio terrazzo un po’ di fertilizzante azotato a lenta cessione, e mentre lo sto distribuendo vedo uno scarabeo appoggiato sulla schiena. Una tipica Cetonia dorata che si agita inutilmente per rimettersi sulle zampe. 

Sarà pure un’associazione scontata, ma subito mi viene in mente l’inizio di un racconto straordinario: ventre arcuato, dorso duro come una corazza e zampette sottili da far pietà, che tremolavano senza tregua, e per un momento non ho visto l’insetto, ho visto Gregor Samsa. 

 

 

Allora afferro un bastoncino, l’accosto allo scarabeo e quello si aggrappa all’estremità rimanendo poi immobile, come fosse scattato il riflesso della tanatosi. I coleotteri non mi piacciono ma l’ho voluto vedere da vicino. Era di colore verde smeraldo, con le tipiche sfumature che davano sulla tonalità del bronzo. 

Poi ho portato mia figlia a fare una guida per la patente, e l’ho anche distratta parlandole del potere che ha la grande letteratura, che insegna a vedere l’essere umano in forma di insetto.

Infine, questa sera, quando mio figlio è tornato a casa dopo un’ora di allenamento, l’ho fatto sedere e gli ho chiesto se fa proprio così male prendere dei pugni. L’ho chiesto perché secondo me fa malissimo e non capisco perché continui col pugilato. 

Ma lui ha risposto che non è molto diverso da quando giocava a calcio. Forse c’è questa differenza, ha detto, che nel pugilato l’avversario ce l’hai davanti, lo vedi e puoi schivare i colpi, se sei svelto, invece a calcio ti falciano da dietro e il male è imprevedibile.

Ecco, il male imprevedibile. Soprattutto inspiegabile, senza una ragione. Ne parlava spesso Enzo Melandri. Seguivo le sue lezioni all’Università di Bologna. Insegnava in un edificio di via Valdonica, vicino al ghetto ebraico, e una volta gli avevo chiesto di commentare un proverbio in dialetto reggiano. Da noi, per dire che qualcosa è terribile, si dice che è come prendere sciaff a l’orba, schiaffi al buio. Il male è tale solo se non ha una spiegazione. Credo avesse detto qualcosa del genere, Enzo Melandri.

 

Giovedì 7

 

Anni fa avevo uno studente che si era fatto tatuare Schopenhauer sull’avambraccio, non mi ricordo se destro o sinistro. Poi ne ho avuto uno che girava sempre con un libro di Nietzsche in mano. Mentre un altro, dopo cinque o sei lezioni su Nietzsche, era sbottato perché non sopportava più di leggere dei testi che secondo lui non erano altro che deliri. Altre volte gli studenti si sono divisi come tifoserie calcistiche, platonici contro aristotelici.

 

Invece a me, quando mi sveglio prima del solito, capita di rimanere steso a letto immaginando delle conversazioni, veri e propri dialoghi, e oggi verso le cinque del mattino ho parlato per mezz’ora con Hegel. Insisteva perché traessi tutte le conseguenze necessaire della dialettica, e un certo punto m’ha fatto una domanda a bruciapelo. Ma tu lo sai cosa sta succedendo? Alludeva a un tema di filosofia della storia ma a me sfuggivano i dettagli, così lui ha nominato la Guerra dei Trent’anni del Novecento. 

Io continuavo a non capire, ero ancora assonnato e ho preteso un chiarimento ma sarebbe stato meglio lasciar perdere e andare direttamente sotto la doccia, dove spariscono queste fantasie, perché Hegel ha detto, come chiarimento, che dopo la Seconda guerra mondiale non è stata superata la contraddizione, altro che la fine della storia, come dice Fukuyama. La guerra fredda non è stata una sintesi, le guerre sintetiche sono quelle calde, e ricorda, ha concluso Hegel, la guerra è il movimento dei venti che preserva il mare dalla putredine in cui lo ridurrebbe una quiete durevole.

 

Poi è suonata la sveglia e il fantasma di Hegel s’è dissolto ma il malumore è rimasto ancora per un po’. È sparito del tutto solo quando verso le sette e mezza sono passato davanti al calzolaio che c’è lungo via della Bettola. Una bottega dove sono entrato solo una volta per comprare delle solette da sostituire a quelle che avevo nelle scarpe, e lui, il calzolaio, era stato gentilissimo nel dirmi che non ne aveva e nell’indicarmi dove trovarle. 

 

 

Una bottega disadorna, al piano terra di un edificio degli anni Cinquanta che guardo ogni volta che ci passo davanti. Mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi intrapreso il mestiere di calzolaio, perché nel vederlo tranquillo e gentile, intento nel suo lavoro, mi fa star bene. 

Un po’ come succedeva con mio suocero quando lo vedevo al lavoro. Lui si occupava degli ulivi come fossero figli, li curava uno a uno, e se s’accorgeva che qualcosa non andava interveniva con la precisione del chirurgo, asportando la parte malata e cauterizzando la ferita della corteccia. 

Il lavoro, nella vita dell’uomo, è importante, lo dice Stendhal, senza il lavoro il vascello della vita umana non ha zavorra.

 

Venerdì 8

 

Sulla Gazzetta di oggi c’è la notizia di un pescatore che due giorni fa ha catturato una carpa di 19 chili, e c’è anche la fotografia. Di per sé, le fotografie dimostrano poco, si possono creare delle immagini artefatte che lasciano sbigottiti, e un pesce di quelle dimensioni, in braccio a un uomo, è facile che sia frutto di una manipolazione, un copia-incolla fatto con quei programmi che hanno anche i ragazzini. E non so nemmeno se una carpa possa raggiungere tali dimensioni, ma l’articolo è dettagliato, fornisce anche nome e cognome del pescatore, uno che pratica il carpfishing e dopo averla slamata e tenuta in braccio giusto il tempo per la fotografia l’ha poi rimessa in acqua.

Certo è un brutto mondo. Si vive col sospetto di essere presi in giro dalle immagini. Questo mondo sollecita a prendere tutto con le molle, a diventare scettici. È il mondo della truffa, della manipolazione. E di conseguenza è facile cedere allo stile paranoide, già in voga nella politica degli anni Cinquanta. Domina il dubbio che tutto sia adulterato. Non si distingue più il vero dal falso, e il discorso debole prende il sopravvento sul discorso forte, come già predetto dalle Nuvole di Aristofane.

 

 

Forse anche per questo è tramontata l’epoca del sublime, un tema di cui ha parlato una mia collega di nome Cristina durante un corso di aggiornamento su come si sia manifestato nelle arti visive. Tramontato ma non scomparso, perché il sublime della pittura di inizio Ottocento riaffiora anche nel Novecento, ad esempio nella pittura di Mark Rothko, dice Cristina, e per vederlo basta accostare Ruggine su Blu di Rothko al Monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich e poi alla Stella del mattino di William Turner, un maestro dell’acquerello, tecnica pittorica difficilissima perché si basa sulla luce e non ammette pentimento. 

E devo ricordarmi di due cose. La prima è di chiedere al pittore Davide Benati cosa pensa di questa bellissima frase della Cristina. La seconda è far vedere la fotografia della carpa a una mia studentessa di quarta perché ieri l’altro ho chiesto qual è la differenza fra carpa e siluro, e siccome lei non lo sapeva ho detto che il siluro è di dimensioni molto superiori, neanche paragonabili con quelle della carpa. Invece una carpa come quella che c’è nella foto della Gazzetta, ammesso che sia una fotografia vera, compete alla pari col siluro.

 

Acquerello Davide Benati.


Sabato 9

 

Io sono arrivato a Piazza Maidan, a Kiev, a fine novembre 2013. È Paolo Bergamaschi a dirlo. L’Ucraina già da tre anni stava trattando per integrarsi con l’Europa, ma poi è arrivata la pressione della Russia perché fosse disdetto l’accordo, e da qui ha preso inizio la protesta di Piazza Maidan. Erano giovani che desideravano di vivere come voi.

Paolo Bergamaschi sta parlando durante un incontro organizzato dalla mia scuola in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio. La mia classe segue in streaming. Tutti attenti anche quando parla Pasquale Pugliese, un obiettore di coscienza. Quanto a Marta Moroni, in collegamento dall’Università di Genova, dice che Putin è intervenuto solo ora perché giudica Biden indebolito, ma per un’invasione come questa occorrono lunghi preparativi, e comunque Zelensky non ha agito per pacificare le cose. C’è anche una motivazione religiosa dietro la guerra: Putin ritiene che vada combattuta la cultura occidentale, che è decadente, secondo lui.

 

Ecco, l’inquietudine continua a mordermi come un cane rabbioso. Mi sembra che il diritto alla resistenza sia sacrosanto ma mi sembra che non debba diventare un alibi per alimentare guerre e nazionalismi. Io sono del parere che due coniugi possano divorziare. Come possono farlo marito e moglie, devono poter divorziare anche le comunità. Impedirlo, sarebbe come obbligare due coniugi a convivere nell’odio sotto lo stesso tetto. È pericoloso.

E comunque, a fine mattinata, Emilio ha tenuto in quarta la sua prima lezione davanti a una classe. Emilio è il mio tirocinante. Ha parlato con competenza filologica e accuratezza espressiva. Gli studenti lo hanno ripagato con un applauso, e questo ha reso felice anche me.

  Poi, dopo avergli fatto i miei complimenti, mi sono avvicinato alla finestra attratto dalla luce e dal contrasto fra il cielo azzurro, ripulito dal forte vento che ha soffiato ieri, e il colore della casa che c’è di fronte alla scuola, un accostamento che piacerebbe a Davide Benati, secondo me. 

 

 

E ripenso a mia suocera, che era venuta per la prima volta a Reggio Emilia proprio in primavera. Era felice di vedere come si era sistemata sua figlia e guardava sempre verso l’alto con ammirazione per le piante, i pioppi, le querce, i platani, i cedri del Libano, i tigli, tutte specie ad alto fusto che lei diceva di non aveva mai visto in Salento. 

E prima di arrivare a casa, oltre al pane, ho comprato delle paste alla fragola, visto che oggi è il compleanno mio e di mia figlia.

 

Domenica 10

 

Il dieci aprile di un anno fa è morto un mio caro amico. Una malattia fulminante. Si è spento in uno stato d’incoscienza, senza soffrire. Per molto tempo ho avuto negli occhi la scena della sua ultima mezz’ora, con la moglie seduta accanto al letto, piegata su di lui, e con le quattro figlie aggrappate anche loro al corpo del padre. Era uno di quei letti in ferro che fornisce l’AUSL ma a me sembrava una zattera alla deriva, piena di naufraghi tutti stretti e abbracciati l’uno all’altro.

Oggi, dopo un’altra notte di pioggia, il verde dei campi è molto intenso, e sul terrazzo ho trovato parecchi limoni caduti dalle piante. Penso per effetto del vento. Anche i cipollotti si sono piegati ma si risolleveranno presto.  

E per finire vorrei rivolgere i miei ringraziamenti ai lettori e a Doppiozero, che mi ha offerto l’opportunità di scrivere le dieci puntate di questo diario.

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