Romano Màdera, l’autobiografia come cura
Verso la fine del suo ultimo libro – Il metodo biografico come formazione, cura, filosofia (Raffaello Cortina Editore, 2022) – Romano Màdera giunge ad affermare che in definitiva quello che conta «è il senso che ciascuno riesce a trovare, o a dare, alla sua vita», conclusione che sembra banale, aggiunge l’autore, ma essenziale, perché «la sofferenza psichica si genera dentro un disorientamento, una confusione, un conflitto di sensi (orientamenti) possibili». D’altra parte il libro esordisce proprio da questo: ci troviamo «nel mezzo di una nuova grande crisi: siamo nel caos», tesi che non ha bisogno di molte controprove. Ne facciamo esperienza diretta, personale. Siamo noi i sismografi della crisi che pervade ogni ambito della vita.
Ma cos’è una crisi? Un momento di passaggio, hanno detto gli studenti ai quali ho proposto il tema. È una svolta. Due strade si separano e scegliere è sempre una rinuncia. Oppure siamo trascinati da forze che ci sospingono dall’esterno. “Crisi” suscita qualcosa di spiacevole: difficoltà, problemi, ostacoli. Un po’ come trovarsi al buio, ha detto una ragazza, non si sa cosa ci sia attorno. All’oscurità ci si può perfino abituare, ha aggiunto un’altra. E quando ho chiesto che cosa si debba intendere con “smarrimento di senso”, hanno colto immediatamente il legame fra i due aspetti, cioè che il senso ha a che fare con la direzione verso cui si avanza, e nel buio della crisi attuale è difficile orientarsi.
Dunque, il tema affrontato dal libro fa vibrare corde alle quali siamo tutti sensibili, e non c’è dubbio che abbia vaste implicazioni, come sa bene il mercato, che approfitta dell’incertezza per generare nuovi bisogni suggerendo pratiche di consumo con cui sedare il senso di smarrimento, l’impressione di precipitare «senza fondo e direzione». E così, scrive Màdera, «la società più ricca della storia», se da un lato produce salari da fame, disoccupazione e degrado, dall’altro alimenta un sovrappiù di preoccupazioni e di cura, diventando una “società terapeutica” che tematizza il disagio del singolo e oscura la radice sociale della sofferenza. Riesce perfino a convertire l’attenzione all’ambiente in pratiche di giardinaggio ecologico.
Non manca di approfittarne la politica, possiamo aggiungere, che cerca nello smarrimento una fonte di rendita garantita, perciò lo alimenta.
Libro complesso, questo di Madera, che incalza il lettore. A volte lo strattona, lo provoca, lo costringe ad uscire da un comfort fatto di idee acquisite e rassicuranti. Un libro sulla possibilità di coniugare pensiero e vita in analogia con la lezione proveniente dalle scuole ellenistiche, il cui proposito era di usare la trasparenza del logos in funzione della saggezza, ritenuta il «sommo bene» da parte di Epicuro. Non che Màdera intenda ritornare alla filosofia greco-romana, ma nella prospettiva da lui indicata c’è l’esplicito proposito di «rinnovarne lo spirito».
Nella breve sezione dedicata ai ringraziamenti, l’autore chiarisce di aver trovato la spinta, forse il coraggio, per scrivere quest’ultimo libro, a seguito dell’invito ricevuto nel 2018 a intervenire nella trasmissione Uomini e profeti curata da Gabriella Caramore, in un ciclo dal titolo emblematico: Riparare i viventi. Perché coraggio? Perché nel libro l’autore fa confluire molte esperienze personali, di vita e di lavoro.
Dunque, riparare, curare, cercare rimedi, iniziando dalla propria esperienza, ma ricominciare da sé stessi come punto di partenza per andare verso gli altri e verso il mondo: partire da sé non per finire con sé. Màdera insiste perché non si lascino «varchi alla temperie narcisistica che avvolge la nostra epoca».
Ma è possibile tracciare un sentiero che fuoriesca dal disorientamento crescente attraverso l’autobiografia? E oltre che possibile è utile rintracciare le forme che ci hanno strutturato? In particolare quelle in cui s’incardina l’imprinting famigliare? Un simile lavoro analitico, che il libro riassume in tutte le sue molteplici procedure, consente di riconciliarsi con la propria storia, afferma Màdera, di ritrovare un senso che permetta «di sopportare la vita», perfino «di benedirla – quando è possibile e giusto»: renderla sostenibile allo scopo di non sprecarla. L’orizzonte di questo cammino è la vita filosofica.
Nel racconto di sé, Màdera ripercorre una fase della propria vita analoga a quella di tanti giovani degli anni Sessanta e Settanta. Anni in cui interpretava la politica col fanatismo del «convertito», il che aveva comportato un delirio da cui si era generata una frattura fra «il cervello e la rabbia», con ripercussioni negli affetti, nei legami sentimentali, in ogni tipo di relazione. L’illusoria speranza di liberarsi in fretta dall’educazione patriarcale, e dalla società che su di essa poggiava, aveva prodotto molte sofferenze. Ma appunto la sofferenza non va nascosta o minimizzata, va riattraversata.
Màdera racconta dei testi diaristici che compilava in quegli anni, quando affondava «nel marasma», testi rivelatisi poi un deposito prezioso da esplorare e analizzare: agende usate «per scriverci su di tutto», su cui era registrata una sorta di «squartamento interiore», agende capaci di raccogliere gli «umori acidi della vita».
Nell’esemplificazione di cosa sia stata la complessa analisi avvenuta in seguito, Màdera parla di tre teste di Cerbero che lo perseguitavano – «la colpa, il rimorso, la vergogna» – riconducibili all’educazione sessuofobica ricevuta in famiglia e al contesto di una religiosità che generava prima ansia e poi angoscia. Vengono analizzate le figure del padre e della madre, dalle quali non si sfugge mai, e Màdera riporta un passo trovato proprio in una di quelle agende scritte negli anni Settanta. È una citazione significativa tratta dall’ultima pagina di Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse: «ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire».
Per quanto l’autobiografia debba cercare la verosimiglianza, non la verità, per quanto ci sia sempre uno scarto fra l’io narrante che parla in un testo e l’io inteso come presunto soggetto dell’agire, ci vuole coraggio nel raccontare di simili momenti.
Per certi aspetti, considerato nella sua interezza, il libro di Màdera propone un andamento tipico di molti passaggi storici: da un lato c’è la presa in carico della crisi, con i suoi effetti nella vita del singolo, e dall’altro c’è un’analisi, una decostruzione volta a cercare il modo di fuoriuscirne. Qualcosa di simile non avviene in Montaigne? E non vale, in fondo, anche per Cartesio? Lo stesso pensiero ellenistico si può rileggere in questa luce. La necessità di ritrovare un sentiero è sempre correlata alla perdita, all’incertezza, al crollo di un ordine.
Una necessità che, nell’accelerazione dovuta al sorgere e al tramontare dei contesti storici, s’incontra sempre più spesso in età contemporanea perché sempre più frequenti sono le fratture radicali che comportano nuove direzioni. Vale anche per la svolta impressa dalla psicoanalisi, avvenuta dentro la grande crisi che ha segnato la prima metà del secolo scorso, di cui ha fornito uno prezioso affresco Stefan Zweig in Il mondo di ieri.
Ma la crisi odierna ha qualcosa di originale. Il Caos in cui viviamo, sostiene Màdera, «non è assenza di senso ma è assenza di ciò che, precedentemente, era creduto un senso credibile […]. Il Caos è un orientamento fatto di orientamenti molteplici, frammentari, locali, momentanei, contraddittori». Il caos è «l’eredità inevitabile della morte di Dio».
Il riferimento a Nietzsche è d’obbligo. La scena celeberrima. È il paragrafo 125 di La gaia scienza, che Màdera riporta per intero. «Cerco Dio! Cerco Dio!», dice il folle che irrompe nel mercato dove sono raccolti quelli che non credono. Parole che suscitano derisione, non ascolto. E tuttavia il folle li tempesta di interrogativi. Dove se n’è andato Dio? Come ci consoleremo? Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi i suoi assassini: quanto di più sacro possedeva il mondo s’è dissanguato sotto i nostri coltelli.
Perché gli uomini del mercato deridono il folle che annuncia la morte di Dio? Evidentemente sono troppo intenti alle pratiche della compravendita per interessarsi alle conseguenze della perdita di senso. Il «luogo del delitto» è il mercato, scrive Màdera, «il vero assassino di Dio è l’universalizzazione del mercato nell’epoca della diffusione e della conquista capitalistica di ogni dimensione della vita».
E allora perché il folle insiste a parlare a dei sordi? Domanda centrale: il folle ha bisogno di espressione, suggerisce Màdera, come tutti, un bisogno su cui il libro torna spesso: «la spinta all’espressione è qualcosa di innato che si modifica a seconda della cultura di riferimento», ma di cui tutti abbiamo necessità. Bisogno di espressione e bisogno di riconoscimento da parte degli altri.
E forse, a ben vedere, il folle non è poi così folle se ammette di venire troppo presto: «non è ancora il mio tempo – dice – questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino». Sì, Nietzsche era in anticipo sui tempi. Ma noi? Dopo un secolo e mezzo siamo ancora in anticipo?
Noi oggi avvertiamo l’avvenimento in tutte le sue conseguenze, «precipitiamo anche mentre ci sembra di procedere ordinatamente». Se poi lo smisurato Caos sarà «pregno di stelle danzanti, come promette lo Zarathustra, si spera e si vedrà; per ora si vedono turbini di detriti e foglie secche». Ha ragione Màdera? Certo i detriti vanno accumulandosi da tempo, devastazioni materiali e morali che a sembrano evocare il mondo distopico narrato da Cormac McCarthy.
Ma la prospettiva del libro, come già chiarito, non è solo diagnostica. Le diagnosi suggeriscono anche pratiche conseguenti, e chi volesse negare in linea di principio la possibilità di sperimentare nuovi orientamenti di senso cadrebbe in una sorta di contraddizione logica: «ogni dire e argomentare è, innanzitutto, preliminarmente ordinato in un senso». Se negassimo in linea di principio ogni senso saremmo condannati al silenzio perché ogni espressione è già ipso facto orientata.
Cosa vuol dire che «Dio è morto»? Qualcuno pensa che possa disintegrarsi ogni possibilità di costruzione di senso? Impossibile, sarebbe un paradosso come quello scettico: il senso è intrinseco alla vita, «è la direzione di ciò che vive». Vale per la struttura e la crescita di ogni vivente, per i vegetali come per gli animali. Vale per lo stesso orientamento spazio-temporale dell’uomo. Anche per questo l’insufficienza espressiva – afferma Màdera – «sembra la causa comprensiva di molti malesseri».
Dunque, accanto alla diagnosi, è praticabile la cura, e il titolo del libro è una dichiarazione programmatica sulla via da percorrere. Metodo vuol dire proprio questo: via da percorrere, da attraversare. Il pensiero non deve indugiare solo in quella che potremmo definire pars destruens, occorre osare la ricostruzione, perché «l’architettura di senso è presente nella nostra stessa dichiarazione di morte di ogni senso».
Ma per incamminarsi lungo una via costruttiva è necessario il coraggio del disvelamento. Occorre riconoscere la crisi in atto senza mistificarla, smascherando gli idoli, i feticci che in essa prosperano, ad esempio prendendo atto dei surrogati che la storia ha propinato, che Màdera descrive come «un’ignobile processione di mostruosi dei» che hanno «celebrato il funerale dell’antico Dio!». Anche di questo non occorrono molte prove. È sotto gli occhi di tutti il tributo che esige la ricomparsa del mostruoso dio del nazionalismo.
Ma da quale leva iniziare? Su cosa insistere, una volta preso atto della crisi? La risposta – abbiamo visto – consiste nel ricominciare da noi stessi, dalla nostra esperienza biografica. Benché le venga assegnata dalla filosofia una valenza ancillare, la ricostruzione biografica assume valore, perché se è vero che dell’individuale non c’è scienza, come sappiamo da Aristotele, è altrettanto vero che «nell’universale non c’è vita».
La tesi del libro è che non sia possibile sganciare quel che crediamo di sapere e di volere, dal contesto in cui si è sviluppata la nostra esperienza. C’è una totalità da ricomporre: tesi in aperta polemica con chi vorrebbe squalificare ogni aspirazione al totum hominem, e radicata viceversa nella svolta di pensiero impressa dalla psicoanalisi di Freud.
È possibile ambire a una visione che guardi all’intero dell’umano? Che si sottragga alla parcellizzazione del sapere e a uno sguardo sempre più settoriale? Ispirato alla divisione tecnica del lavoro? Màdera ci ricorda che tale parcellizzazione, dovuta al modello di sviluppo che ha preso il sopravvento col capitalismo, genera una rinuncia al talento, all’intelligenza, genera alienazione.
La filosofia, di fatto, nelle sue articolazioni istituzionali, scuole e università, nega una simile ambizione. Sembra essersi imposta la rinuncia a cogliere il legame che tiene insieme le parti e l’intero. Eppure, da Hegel fino a Nietzsche, si è indagato su tale legame e su come si manifesta nelle condizioni della vita biologica, storica e psichica. Una linea di sviluppo che ha saputo individuare nella singolarità un punto di condensazione di ciò che vale come universale, e che collega filosofi peraltro diversissimi.
Già questo basterebbe a riconoscere il rilievo che assume la ricognizione intorno alla propria vita, che non è un ingenuo abbandono alla memoria: «ogni memoria, ogni tentativo biografico e autobiografico, è costruzione stratificata, complessa, contraddittoria, conflittuale». Nella memoria dei singoli filtra la memoria collettiva determinata da classi sociali e ideologie.
E occorre anche rinunciare alla pretesa che la comprensione di una persona stia nello svelamento dell’origine, o nella verosimiglianza fattuale, sempre improbabile: la verosimiglianza va piuttosto cercata nell’affidabilità della narrazione di senso. La meta indicata da Màdera è una narrazione che conduca a sopportare le ferite e le disillusioni del passato, cioè l’inevitabile bilancio passivo che ogni vita registra mettendo in rapporto desideri e realizzazioni.
Il metodo biografico è orientato a favorire una conciliazione con gli inciampi e le cadute della propria storia, affinché s’impari a non «perdere il gusto per la vita» e si cerchi invece di guadagnare la «benevolenza più larga e più profonda possibile nei confronti di sé stessi e degli altri». Occorre perseguire la verità del racconto che è la verità della metafora, del simbolo, del mito, verità che nemmeno le vie più ereticali della psicoanalisi, seguite da Jung o Ferenczi, hanno percorso fino in fondo.
Ma perché il racconto di sé potrebbe avere una funzione di cura? Perché ogni costruzione di senso è costruzione di parole, afferma Màdera. Si tratterà pure di “finzione” ma la finzione può essere più efficace dei preparati chimici: «le finzioni, le illusioni, le opinioni, sono le cose più intangibili, più irreali che si possano immaginare, eppure da un punto di vista psicologico e perfino psicofisico sono le più efficaci».
Quanto sia potente la parola lo abbiamo imparato dall’Encomio di Elena di Gorgia: il discorso, o parola, è un gigante piccolissimo, un sovrano che sa compiere cose divine. Annulla i timori, ispira la gioia o la pietà. La parola produce incantesimi, suscita gioia o pena. La potenza dell’incanto riesce a blandire, a persuadere, a trascinare, col suo fascino.
Il metodo biografico teorizzato da Màdera ha comunque un esplicito debito nei confronti di Jung, il quale aveva intuito quali rischi comportasse un approccio intellettualistico alla sofferenza. Inoltre, pur senza essere uno specialista di filosofia antica, Jung ne aveva riconosciuto il proposito di saldare pensiero e vita, approccio riproposto in età contemporanea da Pierre Hadot, filosofo al quale Màdera si rifà esplicitamente: a lui «dobbiamo – e anch’io devo – la riscoperta di questa valenza originaria della filosofia, di essere un modo di vivere, una psicagogia, una formazione attraverso l’esempio, come indivisibile dal discorso ma anche irriducibile ad esso».
Nella filosofia come modo di vivere, basato su pratica e discorso, possono confluire molte esperienze di «spiritualità laica», non immediatamente confessionali, compresa quella del «profeta di Nazareth», che fra l’altro – scrive Màdera – ha «intravisto nella brama di arricchimento e nella chiusura autoriferita qualcosa che il capitalismo moderno e la relazione sociale strutturata atomisticamente hanno portato al suo pieno sviluppo»: perciò il narcisismo va trattato come una «pandemia psichica».
Il convergere di aspetti molteplici verso una “spiritualità laica” implica il superamento di ogni approccio confessionale, di ogni postura dogmatica. Perfino «la contraddizione fra natura e spirito può essere superata. Si può infatti dire che tutto è natura», affermazione di chiara ascendenza spinoziana.
Si profila dunque un connubio di pratica e discorso, senza nessun irrigidimento dogmatico, com’è richiesto da un tempo che come il nostro «dispera delle risposte». Tutto ciò suggerisce di ricominciare a dialogare partendo dall’esperienza biografica, che in ogni caso fornisce sempre un contributo formativo dalla valenza politica.
In tale prospettiva emerge il valore dell’esercizio. L’intero capitolo finale è dedicato a questo. Il titolo è chiaro: Terapeutica filosofica. L’esercizio è tutto. Un’altra convergenza con la filosofia antica: ripetizione, sforzo per assumere l’abito desiderato, sviluppo dell’attitudine attraverso l’allenamento. «Compiendo atti giusti si diventa giusti – dice Aristotele nell’Etica Nicomachea – mentre si diventa temperanti compiendo atti temperanti, e coraggiosi compiendo atti coraggiosi».
Accanto alla scrittura, occorre poi il dialogo con l’analista che consente di «imparare a continuare l’analisi come esercizio». L’autobiografia diventa allora «un’ermeneutica dell’opera che si è ed è stata fatta prima e oltre l’io. Ermeneutica di un racconto» che presuppone sempre l’acquisizione di un linguaggio.
L’autobiografia, secondo Màdera, è l’analogo dell’autoritratto. Prima s’impara a padroneggiare il linguaggio pittorico. Poi occorre un cumulo di esperienze espressive, affinché si sviluppi uno stile personale. Infine, raggiunta una certa coscienza di sé, in un determinato momento della vita, viene ricapitolata nell’autoritratto: il «soggetto è, dunque, “soggetto a posteriori” di un processo di riconoscimento».
Tutto ciò pone il singolo nella relazione costitutiva che intrattiene con l’altro, perché riconoscere sé, in fin dei conti, equivale a «riconoscere di essere stato riconosciuto», cioè l’individuo si scopre non-individuo. Ognuno è segmentato, ognuno appartiene ad altro e ad altri, a volte avversari, perfino nemici.
Dunque, il racconto della propria vita – che può diventare “mitobiografia” – comporta «un confronto dialogico e dialettico con l’eredità collettiva che ne costituisce le condizioni genetiche e ne formula la domanda d’individuazione». Chi sono io che vengo dalla storia della mia vita? Che mi ritrovo a vivere in un mondo preciso? E che cerco in questo mondo la mia strada?
Domanda ineludibile, la cui omissione ci perseguiterebbe «come un fantasma in cerca di vendetta», afferma Màdera. Faticheremmo a superare il mancato riconoscimento, d’altronde sempre inevitabile, e faticheremmo a sopportare la vita.
Questa ricerca di senso converge in uno spirito di riconciliazione in grado di sottrarre gli uomini alla “guerra civile” che combattono rinunciando a cooperare, e trova una sintesi nel messaggio cristiano ripensato da Paul Tillich: «la grandezza unica del cristianesimo» sta nel fatto che «esso mostra la positività della vita in quel principio che nella storia cristiana ha ricevuto molti nomi e che a me – afferma Màdera – piace chiamare “l’accettazione dell’inaccettabile”, cioè l’accettazione di noi stessi».
Si tratta di osservare le emergenze dell’esistenza prendendo distanza dai sommovimenti dell’io, dalla sua dimensione limitata, e ponendolo in relazione con ciò che lo contraddice. Nella ricerca di senso occorre quindi nuotare controcorrente e rivedere la propria sofferenza riconoscendo che, più o meno oscuramente, ha a che fare con difetti di riconoscimento. In caso contrario, la fame di senso insoddisfatta, o soddisfatta dal dio Denaro che «figlia Più Denaro», può diventare malattia, «bulimia di desideri».
Accettare la realtà nelle sue molteplici dimensioni, e accettare la nostra «impossibilità a dominarla», diventa una via d’uscita dalla lamentazione e dallo sconforto, e innalza a quello sguardo da lontano che cercavano i filosofi ellenisti, al quale era consentito un particolare tipo di piacere filosofico: il «puro piacere di esistere», come l’ha definito Pierre Hadot.